Il grande caso di abusi scoperto in Nuova Zelanda
Negli ultimi 70 anni almeno 250mila persone hanno subito abusi in strutture di assistenza statali e religiose
Il 16 dicembre in Nuova Zelanda è stato pubblicato il risultato di un’inchiesta pubblica condotta dalla Royal Commission of Inquiry in Abuse in Care, una commissione istituita dal governo dello Stato nel 2018 per indagare sugli abusi subiti negli anni dai bambini che sono stati ospiti di strutture di assistenza statale, come orfanotrofi, case per persone con disabilità e istituti di salute mentale. L’indagine inizialmente doveva prendere in esame il periodo compreso tra il 1950 e il 1999, ma alla fine è arrivata in molte sue ricerche fino al 2019 e si è estesa anche alle strutture assistenziale gestite dalla Chiesa o più in generale da istituzioni religiose.
L’inchiesta ha scoperto che dal 1950 al 2019 in Nuova Zelanda almeno 250mila tra bambini, giovani e persone vulnerabili avevano subito abusi di vario genere in queste strutture, anche se nel documento finale redatto dalla commissione è specificato che questo numero potrebbe essere anche più grande e che non sarà mai possibile stabilirlo con certezza, vista la carenza di dati. In totale, le persone passate per questi luoghi negli anni indagati sono state 655 mila, una percentuale molto alta rispetto alla popolazione neozelandese, che arriva oggi a quasi 5 milioni di abitanti. Gli abusi a cui si fa riferimento sono soprattutto fisici e sessuali, ma includono anche l’uso di farmaci e di terapie come l’elettroshock per punizione, l’isolamento ingiustificato, esami vaginali impropri, insulti razzisti e maltrattamenti in generale.
Nel documento si legge anche che l’età delle oltre 250mila persone che hanno subito abusi va dai 9 mesi ai 20 anni, e che la maggior parte degli abusi sono avvenuti soprattutto nei confronti di bambini tra i 5 e i 10 anni.
Le persone che hanno subito abusi fanno parte soprattutto delle fasce più ai margini della società, come la popolazione delle isole del Pacifico, le persone con disabilità e soprattutto i maori, che sono la maggioranza dei bambini che entrano nelle strutture di assistenza, il 69 per cento, e l’81 per cento di quelli che subiscono abusi e maltrattamenti, nonostante siano solo il 16 per cento della popolazione. L’anno scorso migliaia di maori hanno protestato in tutta la Nuova Zelanda per chiedere di mettere fine alla pratica di prendere i “bambini a rischio” dalle proprie famiglie per portarli nelle strutture di assistenza statali.
Secondo le testimonianze raccolte dalla commissione, in queste strutture si cerca di cancellare le identità culturali più forti, come quella maori o di chi viene dal Pacifico, di cui i sopravvissuti dicono di non aver avuto conoscenza fino all’età adulta. Alcuni testimoni hanno raccontato che in certi casi si è cercato di “ripulire” l’identità maori attraverso abusi fisici, soprattutto all’interno di strutture religiose.
Il report della Royal Commission, che si chiama Tāwharautia (riparo, rifugio, in lingua maori), ha sottolineato come queste indagini vadano lette anche per capire che questi abusi continuano ancora oggi nelle strutture di cura. Glenis Philip-Barbara, che lavora in una commissione istituita dal governo per la tutela dei bambini come commissaria assistente per i maori (una posizione creata qualche mese fa per combattere il razzismo contro i maori), ha detto che queste scoperte rafforzano l’impegno per la chiusura definitiva di questi centri, perché «sarebbe un errore credere che ciò che è successo in passato non stia ancora succedendo oggi».