Ora c’è un’estrema destra anche in Romania
È nato solo da un anno ma il partito "Alleanza per l'unità dei rumeni" è stata la sorpresa delle ultime elezioni: c'entra la gestione della pandemia, ma non solo
L’Alleanza per l’unità dei rumeni (AUR), partito ultranazionalista di estrema destra, ha ottenuto il nove per cento dei voti alle ultime elezioni parlamentari dello scorso 6 dicembre e sarà il quarto partito più rappresentato nel parlamento rumeno. È una novità per la Romania che è stata negli ultimi anni un’anomalia fra i paesi dell’Europa centrale e orientale non avendo un importante partito di estrema destra.
L’affluenza alle elezioni è stata del 30 per cento, la più bassa dalla caduta del comunismo nel 1989. Il 7 dicembre il primo ministro Ludovic Orban ha annunciato le sue dimissioni in seguito ai risultati preliminari, poi confermati, in base ai quali il Partito Socialdemocratico aveva ottenuto il 30 per cento delle preferenze, mentre il Partito Nazionale Liberale di Orban solo il 25 per cento.
Il governo di minoranza del partito di Orban contava sull’appoggio esterno di Alleanza 2020 USR PLUS, partito di destra ed europeista, che alle elezioni del 6 dicembre ha preso solo il 15 per cento. Orban ha motivato le sue dimissioni con la volontà di avviare trattative per formare un nuovo governo, nonostante sia il suo partito che Alleanza 2020 USR PLUS avessero escluso la possibilità di fare una coalizione post-elettorale con i socialdemocratici.
Il partito Alleanza per l’unità dei rumeni, che è stato fondato solo un anno fa e ora entrerà in entrambe le camere del parlamento rumeno, ha ottenuto l’importante risultato elettorale sfruttando lo scontento di una parte dei rumeni per le misure decise dal governo di Orban per affrontare la pandemia da coronavirus, ma anche grazie all’appoggio della potente Chiesa ortodossa rumena e a un’efficace strategia sui social network. Claudiu Tarziu, cofondatore di AUR insieme a George Simion, ha detto che con il risultato del suo partito in Romania è «iniziata una rivoluzione conservatrice».
AUR è stata fondata il primo dicembre 2019 nella storica città di Alba Iulia. La città era stata scelta perché è il luogo in cui il primo dicembre del 1918 venne proclamata l’annessione alla Romania della Transilvania, che in precedenza faceva parte dell’Ungheria. AUR chiede infatti l’annessione di tutti i territori in cui vivono persone che considera appartenenti all’etnia rumena, in particolare della vicina Moldavia.
Tarziu nel 2018 era stato uno degli organizzatori di un referendum costituzionale per vietare il matrimonio tra persone dello stesso sesso, poi fallito a causa del mancato raggiungimento del quorum necessario del 30 per cento: era infatti andato a votare solo il 20,4 per cento degli aventi diritto di voto. Nonostante la sconfitta, il referendum aveva favorito l’aggregazione di una coalizione di conservatori che, secondo gli analisti come Laura Stefan del think tank Expert Forum di Bucarest, aveva contribuito alla nascita di Alleanza per l’unità dei rumeni.
Il referendum era stato inoltre fortemente sostenuto anche dalla Chiesa ortodossa rumena, che ha un ruolo sociale molto importante nel paese. Durante l’ultima campagna elettorale AUR ha capitalizzato il legame con la Chiesa ortodossa nato durante il referendum del 2018 e la stessa Chiesa ha ospitato gli interventi degli esponenti dell’AUR sui suoi seguiti canali televisivi. Uno dei momenti più significativi della campagna elettorale è stato quando il governo, a causa della pandemia da coronavirus, ha vietato i raduni pubblici per la celebrazioni in onore di Sant’Andrea, uno dei santi più importanti in Romania. La Chiesa e l’AUR anche in questa situazione si sono mostrati uniti nel criticare il governo di Orban.
Nelle ultime settimane l’AUR ha organizzato proteste contro gli effetti economici delle misure anti-coronavirus. Ha inoltre criticato le «società straniere che traggono i loro profitti dalla Romania» e ha difeso in particolare i proprietari di piccole imprese attaccando la decisione del governo di chiudere i piccoli mercati degli agricoltori locali, consentendo al tempo stesso alle grandi catene di supermercati, spesso di proprietà straniera, di continuare a rimanere aperte.