È arrivato il momento dei grandi elettori
Lunedì negli Stati Uniti si riuniranno i 538 delegati che voteranno concretamente Joe Biden come prossimo presidente degli Stati Uniti, e non ci si aspettano sorprese
Domani, lunedì 14 dicembre, i grandi elettori di tutti e 50 gli stati americani, più quelli del District of Columbia, si riuniranno nelle rispettive capitali statali per esprimere i voti del cosiddetto “collegio elettorale”, il processo (non è un organo vero e proprio) che elegge concretamente il presidente degli Stati Uniti. I grandi elettori di ciascuno stato scriveranno su una serie di schede i nomi del candidato presidente e del candidato o della candidata vice presidente più votati nel loro stato, e il tutto sarà mandato a Washington, dove a gennaio il Senato certificherà infine i vincitori. Saranno Joe Biden e la sua futura vice Kamala Harris, del Partito Democratico, che otterranno 306 voti contro i 232 di Donald Trump e Mike Pence.
Martedì scorso è scattata una scadenza che negli Stati Uniti viene chiamata “safe harbour” (porto sicuro), che ha sostanzialmente assicurato la vittoria per Biden. In condizioni normali la sua vittoria sarebbe stata certa già pochi giorni dopo le elezioni del 3 novembre, ma Trump ha cercato con ogni mezzo di impedirlo attraverso una campagna mediatica e giudiziaria completamente infondata volta a ribaltare la volontà degli elettori, e confermata come tale dai tribunali che se ne sono occupati.
Concretamente, il “safe harbour” è la data entro la quale, se gli stati certificano i propri risultati elettorali, possono stare tranquilli che non saranno contestati dal Senato. Se uno stato non li certifica entro quella data, il Senato potrebbe – ma non è affatto detto che succeda – metterli in discussione, se lo richiedono almeno due parlamentari: per invalidarli comunque devono essere d’accordo entrambe le camere del Congresso, e la Camera è controllata dai Democratici.
Tutti gli stati hanno certificato i propri risultati entro martedì scorso tranne il Wisconsin, dove è ancora in corso una causa legale presentata dagli alleati di Trump. Ma anche senza i dieci grandi elettori del Wisconsin, che comunque con ogni probabilità saranno confermati a breve, Biden è ben oltre la soglia di 270 grandi elettori necessari per essere eletto alla Casa Bianca.
Normalmente la data del “safe harbour” sarebbe passata inosservata, ma i tentativi di Trump di invalidare i risultati delle elezioni, sulla base di infondate accuse di brogli e irregolarità, hanno reso questa scadenza particolarmente attesa. Le cause di Trump sono state respinte o archiviate in Arizona, Georgia (dove ci sono stati ben due riconteggi), Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin. Martedì la Corte Suprema ne ha respinta un’altra presentata originariamente in Pennsylvania.
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Ne rimane ancora sostanzialmente una in Wisconsin, dove è stata presentata correttamente e per questo sarà esaminata in una prima udienza la prossima settimana.
Ce n’era poi una diversa dalle altre, presentata direttamente alla Corte Suprema dal procuratore generale del Texas per chiedere di invalidare i risultati in Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, accusati di aver compromesso la regolarità delle elezioni con le misure adottate per tenere il voto durante la pandemia da coronavirus. La legge americana permette che certe controversie tra stati possano essere portate alla Corte Suprema nazionale senza passare dal normale iter giudiziario, che prevede prima un passaggio nei tribunali e nelle Corti Supreme statali. Venerdì la Corte Suprema ha respinto il ricorso.
Come per tutte quelle presentate finora, comunque, gli esperti ritenevano che non ci fossero prove o argomenti perché potesse avere successo. L’invalidazione del risultato in quattro stati con un’unica sentenza era un’ipotesi totalmente implausibile, nonostante la Corte Suprema abbia una solida maggioranza di giudici conservatori.
Lunedì, quindi, 538 grandi elettori sparsi in tutti gli Stati Uniti si riuniranno per fare quella che di fatto è una trasmissione dei voti espressi dai normali cittadini il 3 novembre. Negli Stati Uniti infatti tecnicamente non si vota per un candidato a presidente, ma per la lista di grandi elettori collegata a quel candidato nel proprio stato: in alcuni i nomi dei grandi elettori sono addirittura stampati sulla scheda. Sono scelti mesi prima dai partiti locali, con modalità diverse e talvolta durante le convention statali, e normalmente sono parlamentari statali, leader locali o finanziatori di partito, e il processo di nomina è spesso una questione di favori e posizionamento.
Quest’anno si è discusso a lungo della possibilità che i grandi elettori scelti dal partito vincente possano, una volta riuniti insieme ai colleghi, votare per qualcun altro, o addirittura per il candidato presidente avversario, quello sconfitto nel proprio stato. È tecnicamente possibile e ha anche un nome: “faithless electors”. Nel 2016 lo fecero in sette, 5 Democratici e 2 Repubblicani, scrivendo vari nomi: ma non è plausibile che possano alterare il risultato finale. Anche perché una sentenza della Corte Suprema dello scorso luglio autorizza di fatto gli stati a obbligare i grandi elettori a rispettare la volontà popolare, mentre le leggi di alcuni stati autorizzano a sostituire i voti non allineati, e in certi casi prevedono anche che votare diversamente sia un reato.
Quello che succederà lunedì è piuttosto articolato: gli stati hanno già inviato all’Archivio Nazionale di Washington dei “Certificati di Accertamento” che indicano il candidato vincente, i nomi dei loro grandi elettori nello stato, e il numero dei voti ricevuti. Questi documenti saranno letti lunedì nelle varie sedi in cui si riuniranno i grandi elettori, da un funzionario che guiderà il processo (spesso è il segretario di Stato locale). Dopo alcuni passaggi formali, i grandi elettori esprimono i loro voti – con modalità diverse, barrando schede precompilate o scrivendo i nomi dei candidati presidente e vice presidente su un foglio bianco, e generalmente con voto palese – che vengono poi raccolti e letti ad alta voce.
Ottenuto il risultato, vengono prodotti una lunga serie di certificati in più copie, che vengono inviate al presidente del Senato (cioè il vice presidente degli Stati Uniti), all’Archivio Nazionale, al segretario di Stato e al tribunale distrettuale con la competenza sul luogo dove è avvenuta la riunione.
Il passaggio successivo, l’ultimo, sarà il 6 gennaio, quando le 538 schede espresse dai grandi elettori del collegio elettorale saranno lette al Senato, che certificherà definitivamente il risultato nominando il nuovo presidente, se uno dei due candidati ha ottenuto almeno 270 voti.
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