Negli sport universitari statunitensi, le uniche a guadagnare sono le cheerleader
Chi gioca nelle squadre di football o basket non può ottenere sponsorizzazioni, ma le cheerleader sì e lo fanno
Negli Stati Uniti gli sport studenteschi sono seguitissimi, e lo sono in modo particolare il football e il basket, i cui atleti di punta diventano spesso celebrità ben prima di diventare professionisti. Attualmente, però, la National Collegiate Athletic Association (NCAA) – l’organizzazione che riunisce i campionati studenteschi più importanti – vieta agli atleti universitari di guadagnare soldi attraverso le sponsorizzazioni e anche se le cose stanno cambiando nel frattempo l’unica categoria di atleti che guadagna con gli sport studenteschi è quella delle cheerleader.
Il cheerleading è una disciplina che sta a metà tra lo sport e il tifo per chi è impegnato in altre gare ed è molto famoso negli Stati Uniti, specialmente in Texas. Viene praticato da squadre che vanno da 5 fino a più di 30 componenti e negli anni si è molto evoluto: da una forma di esultanza e incoraggiamento marginale all’evento sportivo, con i caratteristici “pompon” e le coreografie, è diventato una forma ibrida di sport che mette insieme corpo libero, danza e ginnastica acrobatica, ed è praticata a livello agonistico con campionati nazionali in diversi paesi. Le cheerleader e i cheerleader sono famosi per i loro lanci in aria, le “prese” dalle cadute, l’equilibrio e le acrobazie.
Secondo una statistica dell’università UCLA, le ragazze sono il 97 per cento delle persone che praticano il cheerleading. Per quanto questo sport sia considerato prettamente femminile, però, originariamente i cheerleader erano ragazzi. Il cheerleading iniziò a prendere forma nella seconda metà dell’Ottocento nelle università degli Stati Uniti, quando cominciò a emergere il football americano: allora il ruolo degli “yell leader”, come venivano chiamati i ragazzi che lo facevano, era quello di “gridare”, sia per fare il tifo sia per incoraggiare il pubblico e in qualche modo controllarlo.
Dagli anni Venti il cheerleading iniziò a essere praticato anche dalle ragazze e a partire soprattutto dagli anni Sessanta cominciò a vedersi sempre più spesso anche assieme o in alternativa alle bande scolastiche e ai cosiddetti “drill team”, cioè le parate che precedono le partite per lo più di football. Oggi il cheerleading è considerato uno sport che contribuisce alla costruzione dello spirito scolastico e sportivo, ma anche alla formazione del carattere e all’abitudine alla cooperazione e alla disciplina. Per chi lo pratica al di fuori del mondo universitario, per esempio le cheerleader che si esibiscono durante le partite della National Football League (NFL), è invece un lavoro che richiede parecchi sacrifici e spesso è anche poco retribuito.
Anche se il cheerleading è un’attività sportiva, la NCAA e la maggior parte degli enti federali statunitensi non lo riconoscono come i normali sport universitari: in parte, come ha spiegato il New York Times, questo è dovuto al fatto che le università vogliono incentivare la possibilità di praticare a livello agonistico altri sport, per rispettare le regole sull’uguaglianza di genere. In alcuni casi chi pratica cheerleading può però accedere a programmi simili a quelli riservati agli atleti, per esempio piccole borse di studio, servizi di tutoraggio o sconti sulla retta universitaria se si proviene da un altro stato. Spesso, oltretutto, le cheerleader sono tanto famose quanto i giocatori universitari di football o basket, se non di più.
La grossa differenza è che non essendo uno sport riconosciuto dalla NCAA le cheerleader possono fare cose che sono vietate agli altri sportivi. Tra le altre cose, possono comparire nelle pubblicità, vendere i propri autografi e sponsorizzare prodotti come influencer sui social media. Tutte cose che se fatte da atleti delle squadre universitarie comporterebbero il rischio di sospensioni e multe.
Nel 2011, per esempio, il fatto che alcuni giocatori di football della Ohio State University avessero venduto i loro premi e vari cimeli fu visto come uno scandalo: nove di loro persero la borsa di studio che avevano ottenuto per giocare con la squadra universitaria, l’allenatore si dimise e il team fu escluso dai play-off nel 2012.
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Jamie Andries è stata una delle prime cheerleader ad aver sfruttato la propria popolarità quando era studentessa e cheerleader all’Università dell’Oklahoma. Appena iniziato il college, circa dieci anni fa, Andries strinse accordi pubblicitari con piccole aziende locali che vendevano articoli per cheerleader e iniziò a vendere i suoi fiocchi per capelli autografati; diventando sempre più famosa, riuscì a ottenere sponsorizzazioni con L’Oréal, Nissan e Colgate, tra le altre. Andries ha raccontato al New York Times di non aver mai dovuto chiedere il permesso al proprio team per fare attività di sponsorizzazione e che nessuno le ha mai chiesto di renderne conto, a patto che non saltasse gli allenamenti e le esibizioni. Oggi che non frequenta più l’università e di lavoro fa la social media manager, ha 428mila follower su Instagram e continua a guadagnare attraverso contenuti sponsorizzati.
Atlete come Andries vengono definite “cheerlebrities”, cheerleader così famose (celebrities) e influenti da essere diventate delle celebrità, almeno nel loro giro. Altre cheerlebrities, come Shannon Woolsey, hanno detto che nella maggior parte dei casi un loro post sui social network viene pagato tra i 200 e i 5mila dollari (da 170 euro circa a più di 4mila), ma ci sono anche aziende che offrono prodotti o trattamenti gratis – per esempio nei saloni di bellezza – e che in cambio si accontentano di un commento sui loro profili social.
Come ha spiegato al New York Times Peg Fitzpatrick, che si occupa di marketing sui social media ed è co-autrice del libro “The Art of Social Media: Power Tips for Power Users”, coinvolgere le cheerleader ha un doppio vantaggio per le aziende che vogliono farsi pubblicità: innanzitutto, permette di raggiungere un target demografico ben preciso – quello delle adolescenti e delle ragazze fino ai 25 anni – e inoltre è un’opportunità per sfruttare il richiamo commerciale dello sport senza dover sottostare alle regole della NCAA. Allo stesso tempo, per le cheerleader può essere un modo per guadagnare qualcosa, per pagare le spese universitarie e per trovare altri lavori.
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Di recente negli Stati Uniti il fenomeno delle sponsorizzazioni ha iniziato a riguardare anche gli atleti delle scuole superiori – le “high school” – dove il cheerleading è molto praticato anche dai ragazzi. Fino a ora nessun atleta che gioca nei campionati sportivi che seguono le regole della NCAA ha potuto fare lo stesso, ma dalla prossima stagione le cose cambieranno.
Nell’ottobre del 2019 la NCAA aveva annunciato che avrebbe presto introdotto nuove regole, tra cui proprio quella che permetterà agli atleti delle università di guadagnare soldi con le sponsorizzazioni. La decisione fu presa all’unanimità e arrivò dopo l’approvazione di una legge della California che il settembre precedente aveva aperto la strada alla pratica.
Le nuove regole entreranno in vigore con l’inizio dell’anno accademico 2021-2022. Il New York Times ha scritto che le principali università pubbliche di Texas, Nebraska e Louisiana hanno già iniziato a collaborare con alcune agenzie di marketing, probabilmente per promuovere nuovi accordi di sponsorizzazione con gli atleti universitari: una cosa che potrebbe dare risalto sia alle università, sia agli sportivi, ma anche alle aziende che intenderanno sponsorizzarli.
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