Come l’Australia vuole imporre a Google e Facebook di pagare i giornali
Il governo ha presentato un disegno di legge: se approvato, per la prima volta le piattaforme pagherebbero per le news che diffondono
Il governo australiano ha presentato mercoledì in Parlamento un disegno di legge che obbliga le piattaforme internet come Google e Facebook a pagare editori e giornali per i contenuti giornalistici che diffondono. La legge potrebbe essere approvata all’inizio dell’anno prossimo, ed è la prima al mondo a prevedere in maniera così generale questo tipo di risarcimento.
L’idea di base è che le entrate pubblicitarie che le piattaforme digitali ottengono grazie alla diffusione di contenuti giornalistici dovrebbero essere condivise con chi quei contenuti giornalistici li scrive. Secondo gli editori e il governo australiani, questo per ora non avviene, perché il mercato della pubblicità online favorisce in maniera sproporzionata le grandi piattaforme: di 100 dollari spesi in pubblicità su internet, ha detto il ministro del Tesoro Josh Frydenberg, 53 vanno a Google, 28 a Facebook e 19 a tutti gli altri. Negli ultimi anni le entrate di Google e Facebook sono aumentate in maniera vistosa, mentre le entrate pubblicitarie dei giornali collassavano: soltanto in Australia centinaia di testate sono state costrette a chiudere e circa 3.000 giornalisti hanno perso il lavoro. Inoltre le news, sostengono gli editori, hanno un ruolo importante per le piattaforme: senza di esse, Google e Facebook sarebbero molto più poveri di contenuti e meno attrattivi per gli utenti.
Google sostiene invece che i media e il governo abbiano travisato come funziona il mercato della pubblicità online: le piattaforme non guadagnano grazie ai contenuti, ma grazie agli annunci pubblicitari, e quelli inseriti nelle news non sono particolarmente lucrosi. Inoltre, le piattaforme contribuiscono a portare utenti sui siti di news.
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Il disegno di legge australiano ha una lunga storia: il governo ha chiesto all’Australian Competition and Consumer Commission (ACCC), cioè l’agenzia che gestisce le pratiche di violazione della concorrenza, di occuparsi del caso ormai tre anni fa. L’ACCC ha condotto una lunga indagine, e a luglio di quest’anno ha pubblicato una bozza del codice di regolamentazione. La bozza è stata duramente criticata da Google e Facebook, che hanno fatto una campagna molto estesa per contrastarla: Google ha inserito annunci allarmanti sui suoi prodotti dicendo che il governo stava mettendo in pericolo le ricerche online degli australiani e ha mobilitato i creatori di video su YouTube che, come era già successo per la direttiva europea sul copyright, su richiesta della piattaforma hanno pubblicato molti video contro il governo. Facebook ha minacciato di bloccare la condivisione di notizie in Australia se la bozza fosse passata.
Mercoledì, infine, il governo ha presentato in Parlamento il testo di legge definitivo, con alcune modifiche rispetto alla bozza iniziale. Come già previsto, la legge incoraggia le piattaforme e le testate a stringere accordi economici per il pagamento dei contenuti giornalistici, definisce quali sono le aziende che possono qualificarsi come testata giornalistica e come individuare le piattaforme, e poi elabora alcuni criteri per guidare le trattative, tra cui la possibilità per le piattaforme di fare un’offerta comune e per le testate di avviare una contrattazione collettiva. Sono favoriti anche gli accordi economici fuori dai criteri dettati dalla legge, purché accettati da entrambe le parti.
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Soprattutto, la legge prevede che se le due parti non riescono a mettersi d’accordo si devono affidare all’arbitrato di una commissione governativa, che deciderà il tipo di retribuzione dovuto alla testata giornalistica. Se le piattaforme si rifiutano di negoziare, dovranno pagare per ciascuna violazione una multa di 10 milioni di dollari australiani (circa 6,2 milioni di euro), oppure il 10 per cento del loro fatturato in Australia, o tre volte i benefici ottenuti grazie alla diffusione delle news — tra questi tre criteri sarà scelto quello più oneroso. Secondo Google, gli annunci inseriti sulle news hanno fruttato all’azienda 10 milioni di dollari australiani in tutto il 2019.
Un altro punto importante è che le piattaforme sono obbligate ad avvertire le testate con 14 giorni di anticipo se intendono apportare al loro algoritmo modifiche che potrebbero interessare il traffico delle news. Negli anni scorsi alcune modifiche agli algoritmi di Google e Facebook hanno provocato cambiamenti enormi per molti siti di notizie.
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Rispetto alla bozza di luglio sono cambiate alcune cose, in favore di entrambe le parti. La legge adesso include tra le testate giornalistiche anche le reti televisive pubbliche e semipubbliche ABC e SBS, che finora erano state escluse. Inoltre, esclude dalla lista delle piattaforme sia Instagram, proprietà di Facebook, sia YouTube, proprietà di Google. Include però tra i criteri di valutazione nel corso dell’arbitrato anche alcuni benefici che le piattaforme portano ai giornali, come l’aumento del traffico sui loro siti.
Tutti gli editori hanno generalmente accolto con molto favore la proposta di legge, soprattutto News Corp, il grande gruppo guidato da Rupert Murdoch, che da anni fa lobby contro le piattaforme tecnologiche. Google e Facebook hanno detto che continueranno a contrastare la legge e hanno minacciato che, se approvata, potrebbe contribuire a un peggioramento della qualità dei loro servizi.
Frydenberg, il ministro del Tesoro australiano, ha detto che quella appena presentata è una «enorme riforma», e una novità mondiale: «Il mondo sta guardando quello che avviene qui in Australia», ha aggiunto. In effetti, molti altri paesi stanno valutando misure di risarcimento per le testate giornalistiche, ma nessuno è andato avanti come l’Australia. In Francia, l’Antitrust ha ordinato a Google di pagare gli editori per le anteprime delle notizie pubblicate sulle sue pagine. Nel frattempo sia Google sia Facebook stanno stringendo accordi con i giornali di vari paesi del mondo, come per esempio la Francia e il Regno Unito, per individuare delle forme di pagamento, in parte anche con l’obiettivo di evitare l’introduzione di nuove leggi.