Quattro questioni su cui l’Europa deve decidere presto
Dopo quasi un anno passato a gestire la pandemia, bisogna fare i conti con tutto il resto: partendo da Brexit, bilancio pluriennale, Green Deal e rapporti con la Turchia
Dopo quasi un anno passato a cercare di contenere la pandemia da coronavirus, i paesi europei si ritrovano in questi giorni ad affrontare questioni che nei mesi avevano trascurato per avere le risorse e le energie necessarie per affrontare l’emergenza sanitaria, e che non possono più aspettare. Entro la fine del 2020 va trovato un accordo sul nuovo bilancio pluriennale dell’Unione Europea – e quindi anche sul cosiddetto Recovery Fund – su Brexit e sul Green Deal europeo, mentre nell’ambito della politica estera bisogna concordare un approccio alla nuova amministrazione americana di Joe Biden e prendere importanti decisioni sulla Turchia.
Il tutto mentre migliaia di persone continuano a morire ogni giorno per il COVID-19, con gli apparati nazionali che dovranno occuparsi della imminente distribuzione del vaccino e di sventare una potenziale crisi economica e sociale innescata dalla pandemia. La prima occasione per affrontare almeno una parte di questi temi sarà la riunione del Consiglio Europeo, cioè l’organo che comprende i 27 capi di stato e di governo dell’Unione Europea, in programma fra il 10 e l’11 dicembre.
La questione più urgente, almeno per ora, sembra Brexit. Il periodo di transizione in cui il Regno Unito fa ancora parte dell’Unione Europea scade il 31 dicembre, e le trattative per negoziare un accordo commerciale fra le due parti sono ferme da mesi (e fra la primavera e l’estate sono state rallentate dal fatto che entrambi i capi-negoziatori hanno avuto il COVID-19, e che per molto tempo le riunioni si sono dovute tenere in streaming). Gli incontri delle ultime settimane sono stati infruttuosi, e stasera la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il primo ministro britannico Boris Johnson si incontreranno per provare a sbloccare le trattative.
L’accordo commerciale è pronto al 95 per cento, dicono le fonti europee, ma da mesi rimane una distanza su tre punti molto significativi: il diritto dei pescatori europei di accedere alle acque britanniche, il meccanismo per risolvere eventuali controversie e l’impegno del Regno Unito a non sussidiare le proprie aziende in modo che facciano concorrenza sleale a quelle europee.
La situazione viene descritta come molto fluida: «siamo in un territorio inesplorato», ha detto ieri il portavoce di von der Leyen, Eric Mamer. Un no deal sarebbe disastroso a breve termine per il Regno Unito – analisi indipendenti parlano di una riduzione del PIL britannico di almeno il 2 per cento nel 2021 – ma creerebbe molti guai anche ai pescatori francesi e olandesi, alle molte industrie tedesche che esportano nel Regno Unito, e all’intera economia irlandese. Ma un no deal potrebbe paradossalmente rafforzare il governo di Johnson, che da mesi ripete che uscire senza alcun accordo sia meglio che trovare un «cattivo» compromesso e cerca di attribuire ogni inciampo nei negoziati all’intransigenza dell’Unione Europea, appoggiato dai principali tabloid britannici.
Gli esiti dell’incontro ritenuti più probabili sono due: un accordo di massima che permetta ai capi negoziatori di limare i dettagli nei prossimi giorni (difficile, ma non impossibile) oppure l’ammissione di non essere in grado di trovare un accordo. In questo caso Brexit diventerebbe la priorità del Consiglio Europeo di giovedì 10 dicembre.
Al momento la priorità del Consiglio è un’altra, emersa anche questa nelle ultime settimane: trovare un accordo sul bilancio pluriennale 2021-2027 dell’Unione Europea.
Le trattative sul nuovo bilancio sono iniziate più di un anno fa ed erano già entrate in una fase di stallo prima della pandemia: il 20 febbraio un primo Consiglio Europeo sul nuovo bilancio era fallito a causa della distanza troppo ampia fra i paesi che volevano espandere il bilancio e cosiddetti “frugal four”, i paesi più conservatori dal punto di vista economico, che invece puntavano a lasciarlo più o meno invariato. Nei mesi successivi le stesse fazioni si sono scontrate anche sul Recovery Fund, per poi trovare un accordo sull’intero pacchetto alla fine del lunghissimo Consiglio di luglio.
Dato che la quantità di soldi europei in ballo fra bilancio 2021-2027 e Recovery Fund è quasi raddoppiata rispetto al periodo 2014-2020 – 1824 miliardi rispetto a 959 – diversi paesi occidentali hanno preteso di inserire nelle misure di bilancio una clausola che vincoli l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto: un problema enorme per diversi paesi dell’Europa orientale abituati a distribuire i fondi all’interno della propria classe dirigente, per aumentare il controllo sulla politica e l’economia locale. Polonia e Ungheria, due paesi a guida semi-autoritaria, si sono opposti alla nuova clausola e a metà novembre hanno messo il veto all’intero bilancio.
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Se non verrà trovato un accordo entro il 31 dicembre, l’Unione Europea entrerà in una fase di esercizio provvisorio, cosa finora mai successa. Fino all’approvazione del nuovo bilancio, ogni mese potrà spendere un dodicesimo della cifra annuale pattuita nel 2020 per ogni capitolo di spesa. Significa che l’Unione Europea non potrà garantire la continuità dei programmi più consistenti, fra cui per esempio quelli sull’istruzione e la ricerca (Erasmus+ e Horizon) e verranno sensibilmente ridotti anche i fondi di coesione, che vengono distribuiti nelle regioni più povere in Europa.
Da almeno due settimane il governo tedesco – che gestisce la presidenza di turno del Consiglio dell’UE, l’organo dove siedono i rappresentanti dei 27 governi nazionali – sta negoziando per rimuovere il veto di Ungheria e Polonia. Nella trattativa è coinvolta anche la Commissione, che ha detto di aspettarsi delle novità entro oggi: altrimenti proporrà al Consiglio di domani di approvare il Recovery Fund con una procedura di emergenza citata all’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che prevede «un’assistenza finanziaria» speciale in caso di «calamità naturali o di circostanze eccezionali»: in sintesi, un Recovery Fund slegato dal bilancio e a cui non parteciperebbero Polonia e Ungheria.
Ieri il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è incontrato col primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e si è detto ottimista sulla possibilità di trovare un accordo: ma non è chiaro se i due paesi si accontenteranno di una dichiarazione di intenti della Commissione per specificare che esaminerà il rispetto dello stato di diritto senza alcun pregiudizio, oppure se chiederanno più soldi dal bilancio e dal Recovery Fund, riaprendo una discussione che a luglio sembrava chiusa.
Ungheria e Polonia fra l’altro sono anche compresi fra i paesi che si stanno mettendo di traverso al punto che fino a qualche settimana fa avrebbe dovuto essere in cima alle priorità del Consiglio di domani: l’accordo definitivo sulla Legge sul Clima, il pilastro del Green Deal europeo, una serie di misure per rendere più sostenibili la produzione di energia e lo stile di vita dei cittadini europei. Per farlo partire nei tempi previsti dalla Commissione, cioè nel 2021, serve che la Legge sul clima sia approvata il prima possibile: nei mesi scorsi si è già perso moltissimo tempo, dato che in origine doveva essere discussa nel Consiglio Europeo di marzo, poi monopolizzato dalla pandemia.
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La Legge sul Clima serve a includere nei trattati europei l’obiettivo di azzerare le emissioni inquinanti nette in tutta l’Unione entro il 2050, cosa che renderà l’obiettivo vincolante, oltre a fissare specifici obiettivi intermedi. Al momento l’impegno preso dalla Commissione precedente prevedeva una riduzione del 40 per cento delle emissioni nette, ritenuta ormai obsoleta e insufficiente. Fra gli ambientalisti, l’opinione più diffusa è che per fare la sua parte e rispettare gli Accordi di Parigi, l’Unione Europea dovrebbe tagliare le emissioni del 65 per cento.
A settembre la Commissione Europea ha proposto un taglio «almeno» del 55 per cento, lasciando al Consiglio Europeo il compito di trovare un accordo politico fra gli stati. La maggior parte degli stati dell’est dipende ancora da energie poco sostenibili, e chiede più margine e più risorse per gestire la transizione: per ora nel bilancio 2021-2027 e nel Recovery Fund sono stati stanziati 17,5 miliardi per questo scopo, ma non è chiaro se i paesi dell’Est puntino a ottenere più soldi (come del resto avevano chiesto sia il Parlamento sia la Commissione) oppure a includere fra le fonti sostenibili anche il gas naturale o l’energia nucleare, cosa che però esporrebbe l’Unione Europea alle critiche degli ambientalisti e degli esperti di energie rinnovabili.
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto intendere che ha in mente soprattutto la prima opzione. Mercoledì 9 dicembre, in un discorso al Parlamento tedesco, ha detto che il raggiungimento di un compromesso sulla Legge sul Clima «dipende molto dai progressi che faremo sulle questioni economiche», cioè sul bilancio pluriennale.
Infine l’Unione Europea dovrebbe trovare un approccio comune su due grosse questioni di politica estera: sul rapporto col nuovo presidente statunitense Joe Biden – su cui non dovrebbero esserci grandi discussioni in vista di un atteso riavvicinamento con gli Stati Uniti – ma soprattutto sulle eventuali sanzioni da approvare nei confronti della Turchia.
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Ormai da mesi la Turchia ha adottato un atteggiamento sempre più aggressivo nel mar Mediterraneo, conducendo esplorazioni nelle acque di Grecia e Cipro – un’isola su cui fra l’altro reclama una sovranità territoriale – ricche di gas naturale. A ottobre le esplorazioni turche sono riprese, dopo una pausa dovuta probabilmente ai negoziati col governo greco mediati da quello tedesco. «Non abbiamo osservato alcun cambio di direzione», ha detto due giorni fa l’Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, Josep Borrell: «in diversi aspetti la situazione è persino peggiorata».
Per molto tempo l’Unione Europea ha chiuso un occhio sull’aggressività della Turchia nel Mediterraneo a causa del suo particolare status di candidata a entrare nell’Unione Europea, partner nella gestione dell’immigrazione irregolare dal Medio Oriente e paese con fortissimi legami culturali per esempio con la Germania, dove vive una cospicua comunità turca.
Oggi fra i paesi più favorevoli all’introduzione di sanzioni, oltre a Grecia e Cipro, c’è anche la Francia: la sua posizione è stata probabilmente influenzata dalla campagna che il presidente francese Emmanuel Macron sta conducendo ormai da settimane contro l’islamismo politico, di cui il presidente turco Recep Erdoğan è uno dei principali esponenti. Non è ancora chiaro però se tutti i paesi dell’Unione saranno disposti ad approvare sanzioni – che secondo i trattati europei vanno decise all’unanimità – e quali settori dovrebbero riguardare: fonti diplomatiche consultate da Reuters hanno detto che nel caso si trovi un accordo riguarderanno probabilmente il settore dell’energia e delle estrazioni di gas.