Il “golpe Borghese” non poteva riuscire
La storia del tentato colpo di stato di estrema destra che avvenne la notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, e cosa abbiamo scoperto in questi cinquant'anni
di Mario Macchioni
La notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970 a Roma pioveva a dirotto. Sotto la pioggia, un battaglione della guardia forestale e alcuni ex paracadutisti si avviarono in auto verso la sede del ministero dell’Interno, mentre altri uomini si dirigevano verso la sede della Rai di via Teulada e altri ancora verso il ministero della Difesa. Il loro obiettivo era prendere il potere in Italia con un colpo di stato, mettere al bando il Partito Comunista e instaurare un nuovo regime di destra, probabilmente di tipo presidenziale. Tra i loro obiettivi c’erano anche il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il capo della polizia, Angelo Vicari.
Il piano non fu mai portato a termine, nonostante gli uomini fossero arrivati fin dentro al Viminale, la sede del ministero dell’Interno. Non ci sono informazioni certe su questo passaggio, ma sembra che a un certo punto sia arrivata una telefonata che spinse Junio Valerio Borghese, l’ideatore del colpo di stato, a ordinare di sospendere l’azione e fermare tutto. Circa 200 uomini tra paramilitari, forestali ed ex paracadutisti ripresero quindi le proprie auto e se ne tornarono a casa, sempre sotto la pioggia.
In quei giorni sui giornali non ci fu neanche un articolo su quella breve occupazione del Viminale. Passarono più di tre mesi prima che un quotidiano – Paese Sera – uscisse con la notizia, raccontando di «profonda impressione in Parlamento e nel paese» per la scoperta di un «complotto neofascista», lasciando molte domande aperte. A cinquant’anni da quella notte si può rispondere a qualche domanda in più su quello che sarebbe diventato presto famoso come il “golpe Borghese”.
Prima di tutto, chi era Borghese?
Junio Valerio Borghese aveva 64 anni quando tentò di mettere fine alla Repubblica italiana per come la conosciamo. Figlio di Livio Borghese, principe di Sulmona, nei primi anni Cinquanta era stato presidente del partito neofascista Movimento Sociale Italiano (MSI) e prima ancora comandante della X Flottiglia MAS, vecchio reparto di mezzi d’assalto della marina che tuttora viene celebrato e ricordato da nostalgici e nuovi fascisti.
L’esperienza con l’MSI durò poco, perché Borghese era fortemente legato al suo passato militare e viveva con insofferenza la nuova politica del dopoguerra, fatta di regole e procedure parlamentari. Si interessò quindi a quel mondo che cominciava a formarsi fuori dai palazzi istituzionali, diventando una figura di riferimento per la destra extraparlamentare, cioè quel complesso insieme di gruppi e movimenti che tra gli anni Sessanta e Settanta cercarono di sovvertire l’ordine democratico dell’Italia perseguendo la cosiddetta “strategia della tensione”.
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L’inizio di questo periodo viene fatto coincidere, per convenzione, con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. In breve e in estrema sintesi, i gruppi di estrema destra – come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale – cercavano di diffondere il panico organizzando attentati terroristici che avevano come obiettivi luoghi molto affollati: stazioni, piazze, uffici. Il loro obiettivo era di far sentire tutti in pericolo, così da giustificare l’adozione dello stato di emergenza, l’introduzione di leggi speciali e in sostanza la fine della democrazia.
Ma l’estrema destra non agiva come un blocco compatto, e infatti Borghese seguì un percorso diverso. Alla fine degli anni Sessanta cominciò a lavorare per costruirsi rapporti con i servizi segreti, con i militari e con l’ambasciata americana: voleva sondare le possibilità di un’eventuale svolta autoritaria in Italia senza passare per stragi e leggi speciali. Fino ad agosto del 1970 non sembravano esserci spiragli per i progetti golpisti di Borghese, ma poi qualcosa cambiò: una combinazione di fattori aumentarono la preoccupazione di alcuni ambienti militari italiani, notata anche dall’ambasciatore statunitense in Italia, Graham Martin, che la riferì al segretario di Stato William Rogers.
Una parte dei vertici militari vedeva con insofferenza i tentativi della Democrazia Cristiana di formare un governo stabile – impresa che nell’estate 1970 sembrava essere ancora più difficile del solito – e temeva che in autunno ci sarebbe stata una seconda ondata di proteste e rivendicazioni sindacali come era successo l’anno prima, durante il cosiddetto “autunno caldo”. Borghese capì quindi che il momento era favorevole.
Quale fu il ruolo degli Stati Uniti?
Il governo dell’allora presidente Richard Nixon sapeva tutto delle attività di Borghese, ma questo non significa che ebbe un ruolo attivo nel tentativo di colpo di stato. Anzi, secondo alcuni storici fu vero il contrario: i documenti inviati dall’ambasciatore Martin a Washington, ormai desecretati, indicano che gli americani erano contrari ai progetti golpisti. Ritenevano, con buone ragioni, che avrebbe sortito effetti controproducenti, provocando un contraccolpo che avrebbe spostato a sinistra il sistema politico, cosa che gli Stati Uniti volevano evitare per impedire al PCI di arrivare al governo.
Gli americani quindi non si opponevano al “golpe Borghese” per ragioni ideologiche o per difendere la tenuta democratica italiana, ma per una semplice questione politica e di opportunità. Martin era un convinto anticomunista, particolarmente attento agli equilibri di potere e poco interessato alla vita mondana, qualità che lo resero particolarmente adatto a tenere sotto osservazione la situazione italiana per conto del governo. Sulla base di cospicue informazioni che non aveva faticato a raccogliere, Martin pensava che il “golpe Borghese” avesse scarsissime probabilità di successo. Cospiratori e informatori lo contattarono con insistenza per cercare l’appoggio americano, ma lui rimase sempre scettico, perché se anche alcuni militari avessero dato il loro appoggio, c’erano parti troppo ampie dell’esercito regolare, della polizia e dei partiti politici che sarebbero insorte.
Come ha scritto la storica Lucrezia Cominelli nel suo libro L’Italia sotto tutela, Martin divenne particolarmente esplicito riguardo alla sua contrarietà al piano quando uno degli informatori gli chiese rassicurazioni sulla guida americana dopo il colpo di stato, dato che a lui sarebbe spettato il ministero degli Esteri: «Questa affermazione mi ha definitivamente convinto che il golpe fallirà», scrive Martin. «Non sono mai stato tanto fortunato da trovare un ministro degli Esteri disposto a farsi guidare da me».
Ciò che però emerge con chiarezza dalle lettere, è che una parte dei vertici e di alcuni settori militari erano inclini a non ritenere la democrazia un valore assoluto. In una lettera indirizzata al segretario di Stato Rogers, Martin scrive:
Abbiamo stabilito una relazione di crescente intimità e fiducia con l’estabilishment militare italiano, che si è dimostrata molto fruttuosa nell’espandere sensibilmente la nostra copertura di intelligence. Ha anche permesso di stabilire una struttura per il loro uso quale ultima risorsa, nel caso una tale soluzione dovesse mai divenire necessaria.
Può essere confortante registrare la mia conclusione che, se il presidente dovesse chiedermi una «soluzione» militare in Italia, sarei ragionevolmente certo di produrne una […].
Quindi cosa andò storto?
Su questo punto della storia si sono fatte tante ipotesi. Quella che circola di più è che il colpo di stato fallì perché il governo americano aveva imposto come condizione che Giulio Andreotti guidasse il governo nel nuovo regime, circostanza venuta meno la notte tra il 7 e l’8 non si sa bene per quale motivo, se per indisponibilità di Andreotti o per l’intervento di qualcuno dall’alto che fece la presunta telefonata.
Non ci sono molte prove a supporto della tesi di un coinvolgimento di Andreotti, se non la testimonianza di Adriano Monti, un medico di Rieti che sostiene di aver fatto da tramite tra i golpisti e l’assistente di Kissinger, allora consigliere per la sicurezza nazionale statunitense. Peraltro questa versione non combacia con quella che emerge dalle lettere inviate e ricevute da Martin: perché il governo americano avrebbe dovuto da un lato ordinare al proprio ambasciatore in Italia di non dare l’appoggio ai golpisti e dall’altro dar loro la benedizione imponendo un candidato presidente?
Una versione più plausibile l’ha data lo storico Giovanni Mario Ceci, che si è occupato a lungo di storia politica italiana e insegna all’Università di Roma Tre. Secondo Ceci a Borghese «mancò un supporto politico tale da permettere che il colpo di stato andasse a buon fine», supporto che doveva necessariamente arrivare da un pezzo della DC e che probabilmente non arrivò mai. La DC infatti era un ostacolo inaggirabile per chiunque volesse prendere il potere in Italia, e senza dubbio sapeva qualcosa dei preparativi per il colpo di stato: lo stesso Martin, una volta che ne venne a conoscenza nell’estate del 1970, suggerì al ministro della Difesa Mario Tanassi di «aggiornare le sue informazioni in merito al principe Borghese».
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Quale sia stato il motivo che spinse Borghese a fermare il suo colpo di stato è una delle domande che ancora rimangono aperte. Uscita la notizia nel 1971, il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone ordinò l’arresto di sei sospettati del tentato colpo di stato, compreso Borghese. Sulla vicenda indagarono in molti e ci fu un processo con sentenza definitiva emessa dalla Corte d’Assise di Roma nel 1984, che assolse quasi tutti gli imputati: i magistrati accolsero la tesi (sostenuta anche da alcuni storici) secondo cui il “golpe Borghese” fu sostanzialmente un «conciliabolo di quattro o cinque sessantenni». Junio Valerio Borghese non partecipò a nessuna delle udienze, perché poco prima che venisse ordinato il suo arresto fuggì in Spagna. Morì a Cadice il 26 agosto 1974.