Il voto del 9 dicembre sul MES, spiegato
Il governo rischia di perdere un voto preliminare sulla riforma del MES, cosa che secondo alcuni potrebbe persino farlo cadere
Le cronache politiche degli ultimi giorni stanno concentrando moltissime attenzioni su un voto che si terrà al Senato mercoledì 9 dicembre, e che secondo alcuni osservatori potrebbe mettere in grande difficoltà il governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico.
Mercoledì 9 la Camera e il Senato voteranno sulle comunicazioni del presidente del Consiglio in vista della prossima riunione del Consiglio Europeo – cioè l’organo dell’Unione Europea che comprende i 27 capi di stato e di governo – prevista per il 10 dicembre e del Vertice euro, cioè dei paesi che fanno parte dell’eurozona, del giorno successivo. In quest’ultima riunione, in particolare, verrà approvata la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), un’istituzione europea che ha lo scopo di aiutare i paesi dell’eurozona durante le crisi economiche, su cui il Movimento 5 Stelle è storicamente scettico.
Nel Movimento 5 Stelle proseguono da mesi fortissime tensioni interne fra l’ala moderata e quella radicale che fra le altre cose hanno portato a una scissione del gruppo al Parlamento Europeo: il timore del PD e dell’ala moderata del M5S è che l’ala radicale del partito possa avere i numeri per respingere la comunicazione di Conte. Secondo alcuni un voto del genere sarebbe considerato una specie di mozione di sfiducia all’intero governo, mentre altri osservatori dubitano che il governo possa cadere: ma non è affatto chiaro se l’opposizione riuscirà a raccogliere i voti necessari per porre davvero la questione.
Su cosa si vota
Il Parlamento si limiterà ad approvare o respingere le comunicazioni di Conte, che nel suo intervento spiegherà perché nel prossimo Vertice euro il governo italiano approverà la riforma del MES. Non sarà un voto sulla sua approvazione definitiva, che si terrà nei prossimi mesi nei Parlamenti dei paesi coinvolti se la riforma sarà approvata dalle istituzioni europee, né tantomeno sulla richiesta di accedere ai suoi fondi, più volte smentita dal governo italiano in questi mesi.
La riforma del MES è in corso di discussione dal 2018 e per buona parte del 2019 fu bloccata dal primo governo Conte, quello sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle. Prevede due cambiamenti sostanziali, di cui in ambito europeo si discute da molto tempo: un Fondo di risoluzione unico per aiutare le banche europee più in difficoltà, finanziato dalle stesse banche europee con una disponibilità da 55 miliardi di euro, e l’obbligo per un paese che chiede aiuto al MES di emettere particolari titoli di stato (i cosiddetti “single limb CAC”) che permetterà ai creditori una “ristrutturazione” del debito – cioè una sua riduzione – tramite un solo voto, invece che con le procedure più complesse delle altre tipologie di titoli di stato.
Questo vuol dire che un paese in difficoltà potrebbe restituire meno di quello che deve ai suoi creditori, che è una cosa buona; ma la cosa meno buona – e temuta – è che i creditori, sapendo di questa possibilità, finiscano per chiedere interessi più alti ai paesi che percepiscono più a rischio, come l’Italia.
Al momento però l’ipotesi di una nuova crisi delle banche è considerata molto remota, e tutti i paesi dell’Unione Europea si sono detti favorevoli alla riforma del MES, anche quelli che in passato erano ricorsi alle sue linee di credito.
– Leggi anche: Il MES e la sua riforma, spiegati
Perché allora se ne parla così tanto?
Il MES è da tempo uno dei temi più tossici del dibattito politico in Italia. I partiti populisti ed euroscettici come la Lega e in parte il Movimento 5 Stelle lo accusano di essere uno strumento delle élite europee per imporre riforme drastiche e cessione di sovranità ai paesi più in difficoltà, in cambio di aiuti economici.
L’accesso alle linee di credito del MES prevede in effetti che ciascuno stato si impegni a concordare alcune misure macroeconomiche con i gestori del meccanismo, che nei primi anni Duemiladieci ha significato soprattutto riduzioni drastiche della spesa pubblica e del debito nazionale, con conseguenze piuttosto negative a breve termine (ammesse anche in un report interno del MES pubblicato nel 2020 sul prestito garantito alla Grecia fra 2015 e 2018).
Oggi siamo in un periodo molto diverso: i limiti dei primi prestiti garantiti dal MES sono noti a tutti, e l’approccio rigorista sta diventando sempre più minoritario all’interno delle istituzioni economiche europee. L’ultima linea di credito del MES, quella cosiddetta “sanitaria” per far fronte alle spese richieste dalla pandemia da coronavirus, contiene molti meno obblighi da parte dei paesi che vogliono accedere – anche se per ora nessun paese l’ha utilizzato – e la riforma in discussione in questi giorni è considerata assai poco “connotata” dal punto di vista politico o economico.
La crisi del M5S, l’ambiguità di Forza Italia
Nel dibattito italiano però il MES viene percepito ancora come uno strumento di intrusione delle istituzioni europee nelle dinamiche nazionali, e come tale viene trattato: probabilmente perché alcuni partiti lo hanno descritto a lungo come un male assoluto, anche una sua riforma piuttosto innocua verrebbe percepita come un voto “a favore” del MES.
Il 2 dicembre 58 parlamentari del M5S che appartengono all’ala radicale – 42 deputati e 16 senatori – hanno firmato una lettera in cui motivano la loro opposizione alla riforma, fra cui l’introduzione delle “single limb CAC” e altre critiche più generiche. Due giorni dopo il fondatore del M5S Beppe Grillo ha pubblicato un lungo post intitolato “La MES è finita” in cui propone alternative «che porterebbero un sacco di miliardi nelle casse dello Stato in poco tempo, semmai ce ne fosse bisogno»: di fatto, parlando di una eventuale attivazione del MES, e non della sua riforma, che invece è il tema attualmente in discussione. «È chiaro che il suo post – un intervento nel cuore vivo della polemica politica come non accadeva da mesi – darà copertura e legittimazione alla fronda degli oltranzisti», ha sintetizzato il Foglio, che ha pubblicato per primo la lettera dei 58 parlamentari.
Anche i principali partiti di estrema destra sono contrari alla riforma, con toni ancora più concitati: il segretario della Lega Matteo Salvini ha detto che «la riforma sul MES riesce a peggiorare un trattato già negativo», e che «per i signori di Bruxelles gli italiani dovrebbero pagare senza dir nulla per coprire i buchi di altri», mentre se «fosse l’Italia ad avere bisogno, dovremmo sopportare le conseguenze di una Troika modello Grecia». Secondo Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, «dire di sì alla riforma del MES significherebbe consegnare definitivamente la sovranità italiana ai diktat europei e utilizzare i soldi degli italiani per salvare le banche tedesche».
Meno lineare la posizione di Forza Italia, favorevole all’eventuale richiesta italiana di accedere alla linea sanitaria del MES ma contraria alla riforma attualmente in discussione. Forse perché nei giorni scorsi Salvini e Meloni avevano minacciato di rompere l’alleanza con Forza Italia se avesse votato di nuovo assieme al governo dopo l’approvazione dell’ultimo scostamento di bilancio.
I numeri in Senato
Per essere approvata, la mozione sulla comunicazione di Conte ha bisogno della maggioranza relativa: cioè che i Sì superino i No in entrambe le Camere. Come dall’inizio del secondo governo Conte, il problema sarà la tenuta della maggioranza in Senato, dove attualmente controlla circa 170 senatori su 320. L’opposizione ne conta 149: per respingere una mozione presentata dal governo, insomma, le basterebbe sottrarre alla maggioranza una dozzina di voti.
Non è chiaro quanti senatori del Movimento 5 Stelle voteranno contro la mozione: i numeri che circolano raccontano di un voto piuttosto in bilico. La giornalista Annalisa Cuzzocrea di Repubblica, che segue da anni le dinamiche interne del Movimento 5 Stelle, parla oggi di «almeno dieci» senatori. Secondo la Stampa sono fra sei e otto, mentre per il Sole 24 Ore sono appena sei: quest’ultimo aggiunge che potrebbero invece votare con la maggioranza i tre senatori che appartengono a Cambiamo, il partito del presidente della regione Liguria Giovanni Toti.
Che succede se il governo va sotto?
È già capitato altre volte che il governo abbia perso dei voti al Senato, ma in occasioni molto meno rilevanti. Né Conte né i suoi ministri avrebbero alcun obbligo di dimettersi, dato che il voto non sarà una mozione formale di sfiducia. Nei giorni scorsi però diversi leader del Partito Democratico – fra cui soprattutto il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio – e il leader di Italia Viva Matteo Renzi hanno avvertito che in caso di respingimento della mozione la maggioranza sarebbe di fatto scomparsa.
I capi dell’ala moderata del M5S hanno assicurato però che i voti dei senatori dell’ala radicale non saranno decisivi, e che la mozione sarà approvata. Secondo alcuni commentatori né l’ala moderata né l’ala radicale del M5S avrebbero alcun interesse ad andare al voto, dato che in questo momento il movimento non ha una vera leadership – che si dovrebbe definire nelle prossime settimane al termine degli Stati Generali – e soprattutto è dato dai sondaggi molto lontano dal risultato ottenuto alle elezioni politiche del 2018, quando ottenne il 32 per cento.
Da quando è ripresa la discussione sul MES ci sono state diverse voci autorevoli secondo cui anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ritiene che in caso di bocciatura della mozione di Conte il governo dovrebbe dimettersi: ma non ci sono conferme ufficiali, e non è chiaro cosa potrebbe fare Mattarella in una eventualità del genere.