Perché i pianisti sanno così poco del pianoforte?
La maggioranza ignora i dettagli su com'è fatto e come funziona lo strumento, per non parlare di come si accorda: ma hanno varie attenuanti
di @stefanovizio
In questi mesi di distanziamento fisico e di lockdown per la pandemia da coronavirus, di restrizioni sulle attività non essenziali e di prudenze nell’invitare persone in casa, tanti pianisti in mezzo mondo hanno avuto un problema: accordare i propri pianoforti. Se in tanti si accontentano di farlo una volta all’anno, o anche ogni due, i professionisti lo fanno di solito un paio di volte all’anno, normalmente in corrispondenza della primavera e dell’autunno, quando il cambio di temperatura provoca dilatazioni e compressioni nella struttura. Ma è estremamente raro che un pianista lo faccia da solo, e quasi sempre si rivolge a un professionista: cosa che può essere ed è stata complicata, durante una pandemia.
Il critico musicale del New York Times Anthony Tommasini, che è anche pianista, ha raccontato che un pianoforte scordato non gli sembrava un’emergenza, e durante il lockdown primaverile ha preferito non chiamare il suo accordatore di fiducia, rimandando di alcuni mesi. Questa situazione lo ha fatto interrogare su una domanda: come mai i pianisti sanno così poco di come funzionano, di come si mantengono e di come si accordano i pianoforti?
È una cosa che li distingue dalla stragrande maggioranza degli altri musicisti, specialmente quelli con una formazione classica: violinisti, arpisti, clarinettisti e in generale chiunque suoni professionalmente uno strumento musicale ha normalmente una conoscenza approfondita dei suoi materiali, delle sue componenti e dei suoi meccanismi, e si occupa della manutenzione ordinaria. I pianisti no, nella stragrande maggioranza dei casi.
«Sicuramente è vero. Tranne forse per un tre o quattro per cento dei pianisti, che poi sono i grandissimi, come Krystian Zimerman, o Arturo Benedetti Michelangeli, o Paul Badura-Skoda» spiega Giuseppe Sciurti, accordatore e tecnico di pianoforti milanese con una lunghissima esperienza, dalla Scala al Conservatorio Giuseppe Verdi. «Oppure c’è qualcuno che ha un particolare spirito artigianale, che lo rende capace di capire il suo strumento: ma è raro».
Il motivo principale è abbastanza intuitivo: il pianoforte è uno strumento complicatissimo. Normalmente ha 88 tasti, ciascuno dotato di una propria meccanica composta da una trentina di elementi in legno, metallo e feltro, che attraverso un sistema di leve, cavalletti, viti e altri componenti con nomi come “spingitore” e “pilota” aziona un martelletto che fa suonare più corde contemporaneamente, producendo una nota. «In tutto ha 230 corde, non quattro o sei come un violino o una chitarra» spiega Sciurti.
Accordare un pianoforte è un’operazione lunga e delicata, che richiede regolazioni chirurgiche eseguite con strumenti specifici. Concretamente, si tratta di modificare la tensione delle corde associate a ciascun tasto, intervenendo sulle “caviglie”, le sporgenze metalliche a cui sono legate, aiutandosi con un accordatore elettronico di precisione (anche se molti professionisti lavorano “a orecchio”). Per accordare un pianoforte servono normalmente alcune ore, ed è fondamentale un grande orecchio, una profonda conoscenza degli intervalli tra le note, un’ottima manualità e una grande pazienza. A complicare le cose, il pianoforte contiene una specie di paradosso, perché non si può accordare applicando gli intervalli matematici tra le note, e bisogna invece giocare su piccole approssimazioni perché il risultato non sia stonato (è il problema dietro al Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach). Insomma: basta vedere come si fa per capire perché quasi sempre ci si rivolge a qualcuno che lo fa di mestiere.
«Nel lockdown tutti hanno avuto a che fare con questo problema, 99 pianisti su 100 non hanno nemmeno gli strumenti per accordare un piano. Ma anche avendo le chiavi, non saprebbero farlo» spiega Cesare Picco, pianista e compositore di musica jazz, pop e contemporanea.
Ma i pianisti, di solito, non si limitano a non saper accordare i propri strumenti: ne ignorano in larga parte i meccanismi, le componenti e i dettagli del funzionamento, col risultato che spesso non sanno riconoscerne i problemi e i difetti, ancor prima del modo in cui risolverli. «Il 90 per cento dei pianisti non conosce minimamente la meccanica del pianoforte» dice Picco. «Siamo viziati, se c’è un problema chiamiamo il dottore».
Il pianista classico Jeremy Denk ha confessato al New York Times che nemmeno gli interessa approfondire la questione tecnica, «sarebbe solo un’altra cosa di cui preoccuparsi». A mancare, secondo Picco, è un percorso di studi che includa un affiancamento con gli accordatori. Sciurti ricorda che all’inizio degli anni Ottanta, al Conservatorio di Milano, fu organizzato qualcosa di simile, per tecnici e per i docenti di pianoforte: «noi eravamo in quaranta, ma a frequentare tutte le lezioni fu una sola docente».
La complessità dei pianoforti non è l’unico motivo della diffusa ignoranza dei pianisti sul funzionamento dello strumento. A differenza di quasi tutti gli altri musicisti, un pianista, anche professionista, non si esibisce mai con il suo pianoforte, quello con cui studia e si esercita a casa. Trasportare un pianoforte da concerto, che sia a mezza coda, a tre quarti di coda, a coda o a gran coda, ha costi elevatissimi, ed è raro perfino tra i più grandi pianisti al mondo.
Uno che lo fa è Krystian Zimerman, un’altra è la giapponese Mitsuko Uchida, entrambi noti nell’ambiente per una grande conoscenza tecnica dello strumento. Oltre a tre pianoforti principali nella sua casa di Londra, Uchida ne ha uno parcheggiato in Germania, per i concerti nell’Europa continentale. Si portò il suo addirittura in occasione di un tour in Nord e Sud America: i costi logistici non sono normalmente inclusi nei cachet, ma «non ho altre spese pazze, non ho bisogno di case in campagna, di gioielli o macchine costose, non faccio collezioni particolari» ha spiegato al New York Times.
Arrivato alla sala da concerto, quindi, un pianista ha di solito qualche ora per prendere confidenza con lo strumento, e chiedere al tecnico presente di correggere eventuali difetti, sia quelli oggettivi sia quelli che percepisce in base al suo gusto e abitudine. «La sfida è simile a quella di un pilota di Formula 1, che deve saper dire di cosa ha bisogno all’accordatore, che a quel punto prepara il pianoforte sulla base di queste indicazioni» dice Picco.
Questo provoca spesso incomprensioni, ha spiegato Joel Bernache, tecnico della Steinway & Sons a New York che si occupa dei pianoforti alla Carnegie Hall, una delle più prestigiose sale da concerto al mondo. «Mi dicono che il movimento dei tasti è troppo duro», per esempio, ma questo può avere diverse cause, e altrettante soluzioni, da una semplice lubrificata a una regolazione diversa delle meccaniche.
Ogni pianista ha le sue preferenze, e questo rende impossibile una regolazione universale. Certi preferiscono ad esempio tasti più morbidi, che rendono più facili i virtuosismi, altri li prediligono più duri, in modo da permettere maggiori sfumature tra le note suonate forte e quelle suonate piano (la “dinamica”, in gergo). Capirsi non è sempre semplice, spiega Sciurti, «la maggior parte dei pianisti non sa esattamente cosa gli dà fastidio, ma i grandi lo riconoscono e te lo sanno spiegare, e negli anni mi hanno aiutato a comprendere meglio la mia professione».
Questa difficoltà di comunicazione, aggiunge Picco, dà peraltro un gran potere agli accordatori, dai quali dipende in ultima istanza il suono di un pianoforte: «e alcuni quindi pretendono di decidere loro quale sia la migliore regolazione». Succede sovente, quindi, che i più grandi pianisti abbiano un accordatore di fiducia, che li segue ovunque: e talvolta queste collaborazioni diventano leggendarie nell’ambiente, come nel caso dell’accordatore Angelo Fabbrini e del pianista Arturo Benedetti Michelangeli.
Tutto questo rende normale, per un pianista, doversi adattare a uno strumento che non gli piace, per il suono o per le regolazioni della tastiera. Spesso non dipende dalle difficoltà a capirsi con l’accordatore, o dalle eventuali mancanze di quest’ultimo, ma dallo strumento stesso. Quando il grande jazzista Keith Jarrett arrivò all’Opera di Colonia, il 24 gennaio 1975, il Bösendorfer 290 Imperial che aveva richiesto non era arrivato. Al suo posto ce n’era uno della stessa marca ma più piccolo, scordato, con un pedale rotto, che veniva normalmente usato per le prove del coro del teatro. L’accordatura fu in parte sistemata, ma Jarrett non rimase soddisfatto, e dovette suonare prevalentemente nella parte centrale della tastiera, quella che suonava meglio.
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Il Köln Concert, registrato quella sera, è ad oggi uno dei dischi di pianoforte più venduti di sempre, e uno dei più amati della storia del jazz. «La cosa incredibile è che quella musica non sarebbe mai esistita con uno strumento diverso» riflette Picco.