Chi era Arcuri prima di diventare Arcuri
Il commissario straordinario per l'emergenza coronavirus è un manager di stato con una carriera molto lunga, che ha incrociato ben otto governi differenti
di Eugenio Cau
Fino a pochi mesi fa Domenico Arcuri, uno dei più importanti manager di stato italiani, era conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori. Per chi si occupava di industria, startup, politiche di sviluppo Arcuri era un personaggio noto e famigliare, perché fin dal 2007 è amministratore delegato di Invitalia, l’azienda di stato per gli investimenti e le riqualificazioni. Per tutti gli altri era uno sconosciuto. Le cose sono cambiate nel marzo di quest’anno, quando nel decreto Cura Italia il governo ha nominato Arcuri “Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19”, e gli ha affidato via via enormi incarichi: sulle terapie intensive, sulle mascherine e sul reperimento dei dispositivi medici, sulla firma del contratto dell’app Immuni, sul rientro a scuola dopo la prima ondata, sul piano per la distribuzione dei vaccini contro la COVID-19.
In pochi mesi, Arcuri è diventato una delle persone più discusse d’Italia, sia per la grande quantità di questioni fondamentali che gli è stata affidata sia perché il suo personaggio pubblico è molto polarizzante: ha polemizzato pubblicamente con i suoi critici, ha querelato giornali e altri mezzi d’informazione ed è stato eccezionalmente presente sui media. Se si escludono pochi esponenti in vista del governo, Arcuri è la figura più esposta in questa crisi pandemica: ogni sua decisione è stata sezionata, commentata e tendenzialmente molto criticata. Ma nonostante le critiche il governo ha continuato ad affidargli nuovi incarichi sempre più delicati: mentre Arcuri era impegnato come commissario straordinario contro il coronavirus, a Invitalia è stato affidato anche il compito di gestire la crisi dell’acciaieria pugliese ex Ilva.
Arcuri lavora nel settore pubblico in incarichi di rilievo da anni e, come ha scritto il Manifesto, anche se si considera soltanto il suo periodo da amministratore delegato di Invitalia è il più longevo tra i grandi manager pubblici, secondo soltanto a Giuseppe Bono, capo di Fincantieri dal 2002. La sua nomina a Invitalia è politica, nel senso che dipende dalla volontà del governo in carica, e tutti, dal 2007 a oggi, l’hanno confermato, fino a che il governo Conte non l’ha trasformato probabilmente nel più importante manager pubblico italiano. Il Post ha parlato con numerose persone che lavorano o che hanno lavorato con lui, nel settore pubblico, nel privato e nelle istituzioni, per ricostruire che tipo è Domenico Arcuri.
– Leggi anche: Che fine ha fatto Immuni
Nato a Melito di Porto Salvo, vicino a Reggio Calabria, Arcuri si laureò in Economia e commercio alla Luiss Guido Carli di Roma e cominciò a lavorare alla fine degli anni Ottanta all’IRI, l’Istituto per la ricostruzione industriale, cioè l’ente che si occupava dell’intervento dello stato nell’economia italiana: fondato negli anni Trenta, l’IRI fu fondamentale nel periodo di rapido sviluppo economico del Dopoguerra, anche se in seguito divenne sempre più obsoleto, fino alla chiusura nel 2002. Secondo il Corriere della Sera, che cita Arcuri stesso, fu Romano Prodi, che allora era a capo dell’IRI, a volerlo, assieme ad altri laureati promettenti della Luiss, per occuparsi di nuove tecnologie in varie società del gruppo. Nel 1986 lasciò l’IRI e cominciò un lungo periodo nel settore della consulenza privata.
Nel 1992 Arcuri arrivò in Pars, una joint venture del gruppo Arthur Andersen per la consulenza sulle tecnologie, poi dal 2001 passò in Arthur Andersen. Appena un anno dopo, però, Arthur Andersen dichiarò bancarotta (a seguito di uno scandalo americano) e il business italiano fu rilevato da Deloitte, un’altra importante società di consulenza. Arcuri entrò in Deloitte e fece una carriera molto brillante: nel 2004 era già amministratore delegato. Le società di consulenza aiutano le aziende a fare con risorse esterne quello che non riescono a fare da sole: un progetto di digitalizzazione, un piano di riduzione del personale (che non viene mai chiamato così, ovviamente), la gestione di una fusione societaria, la revisione dei bilanci (questo è un lavoro particolarmente delicato che si chiama audit). Essendo Deloitte una delle più grandi società di consulenza del mondo e d’Italia, Arcuri supervisionò progetti con le più importanti realtà produttive italiane, pubbliche e private.
Nel 2007, il governo Prodi lo nominò amministratore delegato di Sviluppo Italia, una società nata sette anni prima per rilanciare lo sviluppo industriale italiano grazie all’attrazione di investimenti e a finanziamenti da parte dello stato, specie nel Mezzogiorno. Sviluppo Italia — che di lì a breve sarebbe stata rinominata Invitalia — era una società partecipata al 100 per cento dal ministero dell’Economia ma controllata dal ministero dello Sviluppo economico. Allora, il ministro era Pierluigi Bersani: fu lui a nominare Arcuri, ma anche i giornali del tempo scrissero che a sostenere più di tutti la nomina fu Massimo D’Alema.
Nel 2007, Sviluppo Italia era una società obsoleta e in crisi. I suoi obiettivi per lo sviluppo industriale erano disattesi e in un articolo del 2007 Gian Antonio Stella — un giornalista del Corriere della Sera che proprio in quell’anno avrebbe pubblicato assieme al collega Sergio Rizzo il famoso libro La Casta — la definì «Sviluppo Parenti», accusandola di clientelismo ed elencando i figli, nipoti e congiunti di politici che facevano parte dell’organico. Persone sentite dal Post hanno confermato che al tempo la proporzione tra dirigenti e semplici dipendenti era sbilanciata a favore dei primi, e che nelle sedi regionali di Sviluppo Italia, specie al sud, la quantità di omonimie con i politici membri dei Consigli regionali era quantomeno inconsueta. In concomitanza con la nomina di Arcuri, con la legge Finanziaria del 2007, il governo decise di riformare pesantemente Sviluppo Italia, rinominandola «Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa Spa» (Invitalia) e avviando un «piano di riordino e di dismissione delle partecipazioni societarie».
Prendere in mano una società pubblica in profonda crisi e, in quel momento, non particolarmente strategica per cercare di riformarla è un lavoro difficile, con poche prospettive e scarse possibilità di successo. Arcuri in quel momento si assunse una responsabilità che praticamente nessun altro voleva e un compito che pochi altri nel settore pubblico erano in grado di portare a termine. Ma i «piani di riordino» sono ordinaria amministrazione per le società di consulenza: Arcuri cominciò a fare per un’azienda pubblica quello che prima faceva per le aziende private.
La riorganizzazione — e la bonifica, in un certo senso — di Invitalia è probabilmente il più incontestato successo di Domenico Arcuri da manager pubblico. Le 17 società regionali di Sviluppo Italia furono liquidate o chiuse. Le 181 partecipazioni in varie società, spesso fallimentari, furono ridotte enormemente. Chi lavorava in Invitalia in quel periodo racconta che i processi aziendali furono resi più efficienti, aumentò la trasparenza, i manager furono responsabilizzati, furono fatte assunzioni di professionisti stimabili, anche se la pressione del clientelismo è rimasta. Per statuto Invitalia non può fare profitto, ma sotto la gestione di Arcuri la società non è stata praticamente mai in perdita, con l’eccezione di qualche anno. Tra le società concepite per servire la pubblica amministrazione, Invitalia è una delle più efficienti, anche se ci sono alcune controversie. Per esempio, a luglio di quest’anno la Corte dei Conti ha notificato che, a partire dal 2014, Arcuri avrebbe percepito uno stipendio superiore al tetto imposto in quell’anno dal governo per i manager pubblici: tra il 2013 e il 2017 avrebbe guadagnato 1,4 milioni di euro in più di quanto consentito. Anche altri manager di Invitalia avrebbero avuto stipendi troppo alti. Arcuri ha detto che non ci sono state irregolarità.
Oggi Invitalia ha numerose funzioni, tra cui il finanziamento delle startup e delle imprese innovative, il sostegno alla pubblica amministrazione in varie iniziative, tra cui la gestione dei fondi europei, e l’attrazione di investimenti esteri. Nei primi anni della gestione Arcuri soprattutto quest’ultimo ramo di attività ottenne buoni risultati. Secondo il Foglio, tra il 2013 e il 2014 Invitalia ha contribuito all’insediamento in Italia di multinazionali come Rolls-Royce, Unilever e Vodafone, che hanno portato investimenti per 250 milioni di euro, a cui Invitalia ha aggiunto 166 milioni di investimenti pubblici.
A partire dalla metà degli anni Dieci tuttavia in Invitalia cominciò a diventare sempre più importante un’altra funzione, che sul sito dell’azienda è definita di rilancio «delle aree di crisi industriale complessa». In pratica, tutte le volte che una grande azienda italiana entra in grave crisi, Invitalia viene chiamata a cercare di risolvere la situazione. Da Alcoa a Termini Imerese a BredaMenarinibus alla riqualificazione dell’area industriale di Bagnoli, da anni Arcuri è incaricato della risoluzione di problemi apparentemente irrisolvibili, e lui ha detto sempre di sì. I risultati sono stati alterni.
Le grandi crisi industriali
Chi oggi si stupisce della grande quantità di responsabilità e situazioni critiche di cui Domenico Arcuri si fa carico non sa che ormai da anni, anche senza una nomina ufficiale, Arcuri è il commissario straordinario di praticamente tutte le crisi più gravi dell’economia italiana. Chi gli rimprovera di assumersi troppi incarichi troppo onerosi non sa che queste critiche sono note da tempo agli addetti ai lavori nel settore industriale. A partire dalla metà degli anni Dieci, infatti, Invitalia è diventata — o meglio, è tornata a essere — l’ente a cui il governo centrale ha tentato di delegare la gestione di problemi non affrontabili con metodi ordinari: per molti versi, l’Invitalia di oggi è una struttura commissariale permanente.
Le crisi industriali più importanti di cui Arcuri si è occupato sono state, tra le altre, l’impianto di produzione dell’alluminio di Alcoa a Portovesme, la fabbrica Fiat di Termini Imerese, quella di BredaMenarinibus a Bologna, di Irisbus a Valle Ufita, di Bekaert a Figline Valdarno, di Embraco a Riva di Chieri e così via. Da novembre di quest’anno, inoltre, Invitalia ha anche la responsabilità di trovare una soluzione al complessissimo caso dell’ex ILVA di Taranto, assieme agli investitori privati. Le modalità dell’intervento di Invitalia sono più o meno le stesse: una grande azienda di valore strategico è in grave crisi, rischia la chiusura e minaccia migliaia di licenziamenti e l’impoverimento di un territorio. Il governo chiama Invitalia, la quale prepara un piano di recupero/rilancio/valorizzazione che prevede il reperimento di un nuovo investitore che salvi l’azienda, oltre alla partnership della stessa Invitalia, che per rendere il salvataggio allettante e possibile promette di investire centinaia di milioni di euro di denaro pubblico. Ci sono poi moltissime variabili, ovviamente.
Una parte consistente di queste crisi è cominciata anni fa e non è mai stata risolta, facciamo un paio di esempi. A Termini Imerese, vicino a Palermo, nel 2010 l’ad di Fiat Sergio Marchionne decise di chiudere un impianto produttivo che dava lavoro a circa 700 persone, più altre 300 nell’indotto. Il governo e le parti sociali si mobilitarono per cercare una soluzione ed evitare la chiusura, e Invitalia fu uno dei protagonisti della vicenda. Cinque anni più tardi, dopo lunghe vicende (si parlò di vendita a imprenditori cinesi, tra le altre cose), fu individuato il partner privato che avrebbe potuto salvare la fabbrica: la startup Blutec, guidata dall’imprenditore piemontese Roberto Ginatta, che aveva un piano per cominciare a fabbricare automobili elettriche (o meglio: furgoncini Fiat elettrificati). Invitalia finanziò Blutec con 16 milioni di euro, Blutec tolse dalla cassa integrazione alcune decine di vecchi dipendenti, ma dopo anni di tribolazioni a Termini Imerese non è mai stata prodotta neanche un’auto elettrica. Nell’aprile del 2018 Invitalia revocò le agevolazioni concesse; nel marzo del 2019 Ginatta e l’amministratore delegato di Blutec, Cosimo Di Cursi, furono messi agli arresti domiciliari per malversazione ai danni dello stato. La Guardia di Finanza sequestrò la fabbrica. Attualmente, sono allo studio altri piani di rilancio.
Un altro caso notevole è quello del quartiere industriale di Bagnoli, a Napoli, dove fino agli anni Ottanta-Novanta erano ospitate fabbriche enormi e inquinanti, compresa una per la produzione dell’amianto — tutte dismesse. La zona industriale, che affaccia sul mare, avrebbe bisogno di operazioni di bonifica ambientale e di riqualificazione immani, per le quali nel corso dei decenni i governi hanno speso miliardi di euro (e di lire, prima ancora). Nel 2015, Invitalia fu nominata «ente attuatore» della bonifica, e nonostante l’annuncio di piani molto ambiziosi finora è stato fatto poco. In un rapporto della Corte dei Conti di qualche giorno fa si legge che tra il 2015 e il 2018 a Invitalia sono stati assegnati «442,7 milioni di euro, di cui 87,5 effettivamente erogati» per i piani di bonifica, ma che ci sono stati «ritardi» e «criticità sia sotto il profilo della puntuale individuazione delle strutture da realizzarsi, sia anche sotto quello della previsione finanziaria». Secondo la Corte, la bonifica è «ancora lontana dalla sua conclusione, malgrado l’enorme onere finanziario sostenuto nei 25 anni di attività». Invitalia ha preso in mano il progetto soltanto nel 2015.
In generale, la maggior parte dei grandi progetti di riqualificazione presi in gestione da Invitalia è ancora aperta, in alcune circostanze si può già parlare di fallimento, in altre bisogna aspettare: è il caso del rilancio dello stabilimento ex Alcoa, a Portovesme, in Sardegna, che fin dal 2015 la società svizzera Sider Alloys aveva mostrato interesse a rilevare. L’operazione è avvenuta nel 2018, con l’ingresso di Invitalia nel capitale della società, ma la riapertura della fabbrica, se tutto andrà bene, non avverrà prima dell’anno prossimo, dopo molte vicissitudini. Potremmo andare avanti per molto, per esempio citando le enormi difficoltà della bonifica e del rilancio/riqualificazione dell’ex ILVA di Taranto, per cui Invitalia ha assunto l’incarico soltanto da poche settimane. Ma è abbastanza facile capire perché si può dire che Invitalia sia diventata una struttura commissariale permanente, benché informale: spesso molte di queste crisi industriali hanno già un commissario nominato dal governo, ma Arcuri è il commissario di tutte.
Attenzione: pensare che il fallimento o la mancata risoluzione di queste crisi sia da imputare soltanto o soprattutto a Invitalia è eccessivo. Stiamo parlando di situazioni enormemente complesse, con moltissime parti in causa e interessi contrastanti: il governo e i suoi ministeri, le amministrazioni locali, i sindacati, Confindustria, grandi aziende multinazionali, le associazioni che rappresentano la società civile e così via. Alcune di queste operazioni, come Bagnoli e l’ex ILVA, hanno risvolti non soltanto economici e politici, ma anche sociali, ambientali e storici. Il declino industriale dell’Italia è un fenomeno che ovviamente va ben oltre Invitalia, e Arcuri, anzi, ha mostrato abilità manageriali davanti a sfide enormi. Una persona che ha preso parte alle trattative in alcune di queste vertenze dal lato dei sindacati ha detto che Invitalia «non era certo la peggiore» delle parti in causa. Un’altra che ha lavorato con Arcuri dal lato delle istituzioni ha detto che in alcune di quelle situazioni «perfino Marchionne sarebbe stato in difficoltà» — dove Marchionne, l’ex ad di Fiat ed FCA, è indicato come il paragone massimo di successo per un manager italiano. Alcune di queste crisi, è probabile, sono semplicemente irrisolvibili.
L’accumulo delle responsabilità
Negli ultimi cinque anni o poco più, dunque, Invitalia di Arcuri ha accumulato una serie di impegni e responsabilità che vanno dall’intricatissimo all’impossibile, promettendo di trovare una soluzione a tutto — e senza nemmeno considerare la pandemia da coronavirus. Questo è stato possibile a causa di due movimenti coincidenti: da un lato la politica che, seppure con governi di indirizzi politici diversissimi, ha scaricato su Invitalia la gestione di responsabilità terribili. Dall’altro Arcuri, che non ha mai detto a nessuno «questo non si può fare», anzi.
La politica, dal 2007 a oggi (si sono succeduti ben sette presidenti del Consiglio), non ha mai smesso di fidarsi di Arcuri perché Arcuri offre sempre una soluzione. In questo senso, l’operato di Invitalia ricorda quello delle società di consulenza per cui Arcuri ha lavorato decenni fa. Normalmente, le aziende si avvalgono delle società di consulenza per far gestire dall’esterno una crisi o una situazione particolarmente intricata, magari con un obiettivo già precostituito. Per i vari governi che si sono succeduti, Arcuri si è assunto responsabilità che la politica non voleva o non poteva prendersi e ha cercato di rispettare gli obiettivi che gli erano stati imposti. Dopotutto è la ragion d’essere di un’azienda nata per servire la pubblica amministrazione: se la politica dice che una certa fabbrica non può chiudere, si fa di tutto per tenerla aperta e per proporre una soluzione che generi consenso, eviti le manifestazioni dei sindacati, non deprima il territorio.
– Leggi anche: I dati della settimana sul coronavirus in Italia
A volte queste soluzioni sono di breve durata. Alcune delle crisi più complesse gestite da Invitalia sono state dichiarate risolte più volte nel corso degli anni, da vari governi, a volte anche in maniera trionfale, e Arcuri era presente a tutte le conferenze stampa. Poi alcune soluzioni si erano rivelate non sufficienti, le crisi erano state riaperte e si sono trovate soluzioni ulteriori, annunciate dal ministro o dal presidente del Consiglio successivo. Si dice che Arcuri tenda a sostituire il processo con il risultato: l’annuncio di progetti ambiziosi di riforma, bonifica, rilancio viene considerato — e soprattutto comunicato al pubblico — come una vittoria già conquistata, quando invece il processo è appena cominciato. È una tendenza che si può individuare anche in questi mesi di gestione della crisi da coronavirus, e non dispiace alla politica.
Il fatto che Arcuri non dica mai di no e continui ad accumulare responsabilità su di sé è interpretato variamente come sintomo di spirito di servizio, di coraggio (in una pubblica amministrazione che scansa sempre le proprie responsabilità, assumersene così tante è notevole), di un ego molto grande e, ovviamente, di ambizione.
La longevità di Arcuri a Invitalia
Il fatto che Arcuri sia amministratore delegato di Invitalia ininterrottamente dal 2007 è uno dei tratti più notevoli della sua carriera, soprattutto perché, come dicevamo, la sua nomina dipende dalla volontà dei governi, e lui ne ha passati tanti: il secondo governo Prodi, il quarto governo Berlusconi, e poi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e infine i due governi Conte. Alcuni di questi sono stati molto assertivi nel ricambio dei manager pubblici, ma Arcuri è sempre stato riconfermato ed è riuscito a ottenere la fiducia dei governi con cui ha lavorato, nonostante gli scontri con alcuni ministri dello Sviluppo economico e nonostante un carattere decisionista, molto brusco, e uno stile di management con una scarsa propensione alla collegialità (quest’ultima caratteristica è diventata uno dei suoi punti deboli nella gestione della crisi del coronavirus).
Questa longevità in carica è vista da alcuni come un motivo di vanto, che senz’altro è presente: se i governi di qualsiasi indirizzo politico ti vogliono a lavorare con loro, evidentemente non stai facendo un brutto lavoro. Ma, come dicevamo, il rapporto tra Arcuri e il suo committente pubblico è più complesso. Nella prima fase del mandato a Invitalia, ha fatto un lavoro che praticamente nessun altro voleva fare: risanare un’azienda pubblica non di primo piano e in grave crisi. Nel periodo successivo, quando Invitalia è diventata il braccio operativo della politica economica di numerosi governi, si è creato quel rapporto di dipendenza reciproca che abbiamo descritto, e che ha reso Arcuri per certi versi indispensabile: se anche certi ministri dello Sviluppo economico avessero voluto fare a meno di Arcuri, non ci sarebbe stato modo.
Infine, Arcuri ha intrattenuto negli anni ottimi rapporti con la politica, mostrando grande abilità. È stato nominato per la prima volta dal centrosinistra, era vicino soprattutto al partito dei Democratici di Sinistra ma poi ha allacciato rapporti anche con il mondo vicino a Silvio Berlusconi, Gianni Letta in particolare. Di recente, si è visto, ha ottenuto un’enorme fiducia da parte di Giuseppe Conte, che per la gestione della crisi del coronavirus l’ha preferito a figure più note come l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso e l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro: ha scoperto in Arcuri un manager di stato pronto a risolvere tutti i problemi.