I club di calcio vogliono raccontarsi da soli
In Serie A sempre più squadre si stanno dotando di strutture interne per produrre video e contenuti, utili per motivi diversi
Nel processo che da anni sta trasformando i più famosi club di calcio in qualcosa di simile a grandi brand, marchi con un’identità e un’immagine ben definita e riconoscibile, i social network hanno avuto un ruolo centrale. Sempre più spesso, nel calcio europeo, le società si stanno dotando di divisioni interne che si occupano di pensare e produrre i contenuti pubblicati online dalla società, in precedenza appaltati perlopiù ad agenzie esterne.
Le media house, come vengono talvolta chiamate, sono diventate un elemento quasi imprescindibile per i club più importanti, e sono sempre più imitate anche dalle società più piccole e con meno soldi. Per certi versi, la produzione autonoma di contenuti da parte delle squadre ha sostituito un lavoro che prima veniva svolto dai giornalisti sportivi: a distribuire le immagini, i video e le informazioni sulle squadre sono sempre di più le squadre stesse.
Come in molti altri casi, la Premier League inglese è il campionato in cui le media house sono più influenti e avanzate, grazie alla più solida cultura mediatica del Regno Unito e soprattutto alle maggiori disponibilità economiche dei club. Ma da qualche anno esistono esperimenti e realtà del genere anche in Serie A: hanno strutture simili, anche se spesso un po’ meno organizzate e autonome, tutti i club più importanti, ma quelle che vengono più spesso citate come esempio sono quelle della Roma e dell’Inter.
«La nostra media house nasce alla fine del settembre del 2017» spiega Roberto Monzani, che la dirige fin dall’inizio. «L’idea era quella di unificare la “filiera” della produzione dei contenuti all’interno dell’azienda, di renderla autogestita, come già succedeva alla Roma e in pochi altri club». Tra i passaggi fondamentali per costruire la media house ci fu l’inclusione nella struttura di Inter TV, la televisione monotematica gestita dal club, «che oggi di fatto è una casa di produzione video che fa i video che poi usiamo su 22 canali diversi, tra piattaforme globali e cinesi».
Dal 2016, infatti, l’Inter è di proprietà del gruppo Suning, una holding cinese che fece della media house uno dei suoi progetti per il club. Da allora, l’Inter dedica una parte rilevante delle proprie attività di promozione, comunicazione e marketing al mercato cinese, tanto che quando annunciò l’ingaggio dell’allenatore Antonio Conte lo fece con un video – realizzato dalla media house – pubblicato sui social alle sei del mattino, ora italiana, e all’una di pomeriggio, ora di Pechino. «Pubblichiamo a quell’ora così si inizia ad attivare la fanbase asiatica, e poi pian piano si sveglia il resto del mondo e il post rimane alto nelle interazioni» spiega Monzani.
La distanza economica tra i club del calcio europeo è diventato un fenomeno sempre più evidente negli ultimi dieci anni: tra le italiane, soltanto la Juventus ha un fatturato paragonabile alle principali società europee, ma è abissale anche la distanza tra le squadre di metà e bassa classifica e quelle più vincenti. I proventi dei diritti televisivi italiani sono molto più bassi di quelli inglesi, cosa che rende una squadra da metà classifica della Serie A molto meno ricca anche di una squadra della Premier League con meno storia e blasone. Colmare questo divario è difficilissimo, ma uno dei modi con cui alcuni club ci stanno provando è quello di affiancare all’attenzione alle tifoserie locali quella per la propria fanbase nel mondo, che spesso per quanto ridotta esiste.
«Grazie ai successi degli anni Novanta, anche noi abbiamo un seguito all’estero» dice Nicolò Fabris, responsabile della comunicazione del Parma Calcio dal 2017 e creatore di una versione in miniatura di una media house. «Il primo tassello è stato un fotografo e videomaker, perché i contenuti quasi sempre nascono dalle immagini. Poi è arrivato un disegnatore grafico, poi un social media manager che, oltre a contribuire alle idee, le trasforma in pubblicazioni efficaci, curando il testo di accompagnamento, gli orari, lo stile, e infine un addetto stampa».
La costruzione della squadra ha coinciso con la risalita del Parma dalla Serie B alla Serie A, e da pochi mesi la società ha a sua volta una proprietà straniera, quella dell’imprenditore americano Kyle Krause. Fabris è il primo a riconoscere che la struttura del Parma attualmente non è paragonabile a quelle dei più importanti club italiani, «ma riusciamo a produrre molti contenuti che hanno buoni risultati: un esempio sono i video con cui presentiamo le maglie, che realizziamo in autonomia».
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L’esempio principale sulla comunicazione e la produzione di contenuti in Serie A, però, è considerato praticamente da tutti quello della Roma, che con la dirigenza statunitense di James Pallotta avviò un ambizioso progetto per creare un Media Center dotato di una tv e di una radio, e arrivato a impiegare 70 dipendenti. Quando fu inaugurato, l’allora capo della comunicazione Guido Fienga disse che «un Media Center così non c’è l’ha nessuno, neanche il Manchester».
La Roma è riuscita a costruire un’immagine particolarmente riconoscibile in particolare sui social, tanto da far diventare l’account in Twitter in lingua inglese un esempio imitato da altri club europei, per il tono particolarmente spiritoso e una sensibilità molto al passo con le mode dei social network. Nelle scorse settimane lo storico direttore del Media Center, l’americano Paul Rogers, arrivato con Pallotta nel 2015, dal Liverpool, è stato licenziato dalla nuova proprietà.
Oltre alla costruzione di un’immagine e uno stile quotidiano sui social, uno degli aspetti più importanti e visibili del lavoro delle media house sono i video di presentazione dei calciatori, diventati nel tempo una specie di genere con i propri cliché e i propri temi ricorrenti. Il più visto tra quelli realizzati dall’Inter è stato quello per il centrocampista Arturo Vidal – «700mila interazioni e 2,7 milioni di visualizzazioni tra tutti i social» dice Monzani – che ne contiene diversi, a partire dalle braccia incrociate con grande serietà. Fu diverso dal solito – e accolto con particolari entusiasmi – quello realizzato nel gennaio del 2020 per annunciare il centrocampista Christian Eriksen, girato nel celebre Teatro alla Scala di Milano, davanti a un’orchestra d’archi.
Il fatto che i video di presentazione dei calciatori siano sempre più considerati una necessità dalle squadre, indipendentemente dalla loro importanza e dal loro seguito sui social, è stato dimostrato nell’ultima sessione di calciomercato dalla Reggina. In occasione dell’arrivo del difensore brasiliano Thiago Cionek, la società pubblicò un video piuttosto articolato, che inscenava una tentata rapina al bar societario sventata proprio dal calciatore (che era stato davvero protagonista di un episodio simile a Ferrara). Il video finiva in modo molto strano e violento, e aveva attirato molte critiche, ma a suo modo racconta quanto anche i club più piccoli provino a imitare le produzioni di quelli più importanti.
Dietro agli sforzi produttivi per i video delle media house non c’è solo la volontà di coinvolgere e intrattenere i tifosi e i simpatizzanti, nel proprio paese e all’estero. In piccola parte, i club più grandi riescono a monetizzarli direttamente, grazie per esempio alle pubblicità su YouTube: ma si tratta perlopiù di spiccioli. Più importante è l’inserimento diretto di prodotti per motivi pubblicitari, che può fruttare accordi vantaggiosi con gli sponsor. Ma a convincere i club dell’importanza di sviluppare la produzione di contenuti per i social network è stata soprattutto la sempre maggiore importanza della raccolta dei dati sulle proprie fanbase, il bacino di persone che seguono e interagiscono con gli account della squadra.
«La parte di analisi è fondamentale per quello che facciamo» spiega Monzani, secondo cui «la Media House nasce per ingrandire la fanbase del club e creare i presupposti per vendere biglietti e creare dinamiche commerciali». Per una società di calcio, raccogliere informazioni sulla composizione della tifoseria è sempre più importante per sviluppare i propri servizi di e-commerce, ma anche tutte le proprie offerte a pagamento, dalle app ai fan token, sistemi con cui i tifosi possono partecipare a voti e discussioni comprando dei “gettoni”.
Gli stessi dati, poi, sono sempre più importanti nelle relazioni con gli sponsor, che nella maggior parte dei casi ormai non stringono accordi commerciali senza avere a disposizione dei rapporti dettagliati sulle persone a cui è indirizzata la pubblicità. «Capire il pubblico che intercettiamo è fondamentale, perché per chi si occupa del marketing è il biglietto da visita» spiega Fabris. «Un’azienda deve sapere chi segue una squadra, se vuole investirci».
In un’intervista al sito Digiday, il responsabile delle strategie digitali del Real Madrid Rafael de los Santos aveva detto che «alla fine della fiera siamo una squadra di calcio, dedichiamo la nostra attività al calcio: ma in realtà siamo una società di contenuti, e credo che la nostra grande sfida sia diventarne i produttori». Manifestazioni di questa intenzione sono stati i diversi documentari usciti sulle piattaforme di streaming e girati seguendo per una stagione intera le squadre, i cui reparti media hanno ovviamente avuto un grande controllo sul risultato finale.
La più famosa serie di questo tipo è All or Nothing, prodotta da Amazon Prime Video, che negli anni ha seguito squadre prevalentemente americane di sport diversi, e che ha dedicato due stagioni anche al Manchester City e al Tottenham. In Italia, una produzione simile, seppur con ambizioni e risorse più ridotte, è stata quella dedicata da Netflix alla Juventus – First Team: Juventus – che fu peraltro tra le primissime di questo tipo. Per certi versi, spiega Monzani, «il competitor di una squadra di calcio non è più la squadra rivale, ma proprio Netflix, Amazon: è una partita che si sposta dallo sport puro all’intrattenimento più generale».