Il caso che potrebbe cambiare il movimento #MeToo in Cina
Le accuse di molestie sessuali che coinvolgono un noto conduttore televisivo sono finite in tribunale: è una cosa rara e ha coinvolto diverse femministe
Lo scorso 2 dicembre a Pechino, in Cina, è iniziato il processo contro Zhu Jun, un noto presentatore del canale televisivo di stato CCTV che è stato accusato di molestie sessuali da Zhou Xiaoxuan, una donna di 27 anni che aveva lavorato con lui nel 2014. All’arrivo al tribunale del distretto di Haidian – a nord-ovest della città – Zhou è stata accolta da decine di donne che erano arrivate anche da molto lontano per sostenerla. Il caso è visto come un momento storico per la Cina: nel paese, le cause per molestie sessuali raramente riescono ad arrivare in tribunale; inoltre la vicenda sta contribuendo a rafforzare il movimento femminista che nonostante finora sia stato represso e abbia avuto pochissimo spazio sui media esiste anche in Cina, ed è politicamente ben organizzato.
Nell’estate del 2018 Zhou aveva pubblicato un lungo post online in cui accusava il presentatore televisivo di averla palpata e baciata forzatamente quattro anni prima. La donna aveva deciso di prendere parola dopo che il movimento #MeToo si era diffuso negli Stati Uniti e in altri paesi in seguito alle accuse di molestie sessuali compiute dall’ex produttore cinematografico Harvey Weinstein: Zhu era il conduttore di un famoso programma di interviste di CCTV e anche un consigliere governativo, mentre Zhou, conosciuta online anche col nickname Xianzi, era una stagista. Le sue accuse diventarono virali quando l’attivista Xu Chao, una sua amica, condivise il post sul suo account di Weibo, l’equivalente cinese di Twitter.
Dopo che il post era stato visto e condiviso, Zhou provò a denunciare le molestie alla polizia, ma – come ha raccontato – venne «scoraggiata» perché Zhu era un personaggio importante. La vicenda ottenne qualche attenzione in più da parte dei media cinesi solo perché il conduttore negò ogni accusa e fece anzi causa a Zhou e a Xu per aver danneggiato la sua reputazione, ma il caso venne archiviato. Ora Zhou è riuscita a portare Zhu in tribunale: chiede che il presentatore le faccia pubblicamente le sue scuse e la risarcisca con 50mila yuan (circa 6.300 euro).
Secondo gli analisti citati da BBC è raro che casi di questo tipo arrivino in tribunale ed è anche per questo che sta ricevendo molta attenzione, anche fuori dalla Cina, indipendentemente dall’esito che avrà il processo. La grossa differenza rispetto al passato è che ha fatto mobilitare decine di attiviste femministe che si sono radunate davanti al tribunale di Pechino dove è iniziato il processo: sono arrivate anche da centinaia di chilometri di distanza per diffondere la consapevolezza che il movimento #MeToo esiste anche in Cina. I loro cartelli dicono: «Forza Xianzi», «Vittoria sicura» o «Aspettiamo insieme una risposta dalla Storia».
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Se in Occidente il movimento #MeToo era partito dal mondo del cinema per poi diffondersi in altri ambienti, come lo sport e la politica, in Cina è iniziato nelle università. L’attivista Li Sipan aveva spiegato che molte studentesse sono esposte a molestie verbali e fisiche o a quotidiane richieste di cenare e bere con i professori: se non lo facessero, la loro carriera accademica sarebbe messa seriamente a rischio. Il caso che fece iniziare il movimento #MeToo in Cina fu quello di Luo Qianqian, una ricercatrice che viveva negli Stati Uniti e che il primo gennaio del 2018 aveva pubblicato sempre su Weibo il racconto delle molestie subite dodici anni prima dal suo professore di informatica, concludendo il suo post con l’hashtag #我也是 (#WoYeShi, cioè #MeToo).
Il movimento #WoYeShi, però, è ancora relativamente giovane, e le attiviste che si sono presentate al tribunale per sostenere Zhou – molte delle quali si aspettavano di essere arrestate – erano comunque circondate dalla polizia, che in passato ha represso alcune iniziative del movimento e arrestato diverse femministe.
Nel 2015 cinque attiviste, che avevano organizzato la distribuzione di adesivi contro le molestie sessuali sui mezzi pubblici di Pechino in occasione dell’8 marzo, vennero fermate e incarcerate per più di un mese con l’accusa di aver «causato problemi e agitazioni», una formulazione molto vaga usata spesso dal governo cinese per incriminare attivisti e dissidenti. Anche Huang Xueqin, una nota rappresentante del movimento, fu arrestata e detenuta per tre mesi nell’ottobre del 2019 con le stesse accuse: aveva partecipato alle grandi manifestazioni a Hong Kong contro la legge sull’estradizione e criticato il governo. Huang ha detto che «più il movimento diventa forte, più è probabile che le autorità lo osserveranno con attenzione per reprimerlo». Ciononostante, ha spiegato che le attiviste stanno prendendo coscienza del loro potere, attraverso diverse iniziative.
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C’è anche un’altra ragione per cui il caso è seguito con attenzione: viene discusso dopo che lo scorso maggio erano state introdotte alcune modifiche al Codice Civile che avevano allargato la definizione di “molestie sessuali” con l’obiettivo di garantire più protezione a chi le subisce.
La definizione di “molestie sessuali” era comparsa nel Codice Civile cinese per la prima volta nel 2005. La legge proibiva le molestie sessuali sul lavoro, eppure fino a pochi mesi fa non esisteva alcuna definizione legale che chiarisse cosa fosse una molestia sessuale, ha spiegato a BBC Darius Longarino, che studia l’evoluzione delle questioni legali legate a questo tema al Centro di studi sulla Cina Paul Tsai della Yale Law School.
Longarino ha spiegato che i casi di molestie sessuali sul lavoro che sono finiti nei tribunali cinesi sono stati pochissimi. Secondo la ONG Beijing Yuanzhong Gender Development Centre, che lotta contro la discriminazione di genere e si occupa del riconoscimento dei diritti per le donne, tra gli oltre 50 milioni di processi svolti in Cina tra il 2010 e il 2017 di cui si conoscono i dettagli, soltanto 34 riguardavano casi di molestie sessuali: solo due partivano da una denuncia delle persone che avevano subito le molestie ed entrambi erano stati archiviati per “mancanza di prove”.
Tuttavia, da qualche tempo ci sono segnali che le cose potrebbero cambiare. L’anno scorso un tribunale aveva stabilito che il fondatore di una organizzazione che era stato accusato di aver violentato una volontaria durante una raccolta fondi nel 2015 dovesse chiedere pubblicamente scusa alla donna. Anche se non c’erano state sanzioni o condanne penali, il South China Morning Post, giornale in inglese che si occupa di Cina e ha sede a Hong Kong, parlò di questo caso come della «prima vittoria del movimento #MeToo in Cina».
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Prima dell’inizio delle udienze contro Zhu Jun, sia l’accusa che la difesa avevano chiesto un processo a porte aperte, ma come ha spiegato il Washington Post l’udienza di mercoledì si è tenuta a porte chiuse e molte delle informazioni sul processo che erano state condivise sui social media cinesi sono state censurate. Non è chiaro fino a quando andrà avanti il processo, ma per ora i giudici non hanno emesso alcun verdetto.
Secondo qualcuno, le modifiche di legge non basteranno a proteggere in maniera adeguata chi subisce molestie sessuali, tesi sostenuta anche da molti movimenti femministi nel mondo che, accanto alla modifica delle norme, insistono sul necessario cambiamento culturale e dell’educazione all’uguaglianza nelle scuole. Anche in Cina è molto radicato lo stereotipo per cui la colpa di una molestia ricade sulla donna che l’ha subita.
Sui media le molestie sessuali vengono spesso soprannominate la “regola nascosta”: il sottotesto, come ha spiegato la femminista Li Sipan, non è dunque che le donne vengano aggredite senza il loro consenso, ma che siano loro stesse ad accettare volontariamente una molestia per ottenere futuri favori. Il discorso è lo stesso di quello che circola anche da noi, in un contesto ancor più difficoltoso: le molestie non vengono prese seriamente e le donne non parlano per timore di ritorsioni, nel peggiore dei casi, e di non essere credute, nel migliore.
Parlando con le attiviste fuori dal tribunale, Zhou ha detto che «anche se non dovessimo vincere a livello legale, sarà già stata una vittoria far sapere alla gente che ci sono vittime di molestie come me». L’attivista femminista Li Tingting, che è una delle donne che sostengono Zhou fuori dal tribunale, e anche una delle cinque che erano state arrestate a Pechino nel 2015, ha spiegato che il verdetto non è importante: «Quello che conta per il movimento è il momento, il processo, il coinvolgimento delle persone che si sono ritrovate qui da tutto il paese e le basi che abbiamo gettato».