In Italia ci sono pochi asili nido, ed è un problema
I dati dicono che negli ultimi anni la situazione non è migliorata, e la carenza di posti per i bambini ha conseguenze su molte cose, tra cui l'occupazione femminile
Ogni anno migliaia di famiglie non hanno la certezza di trovare posto all’asilo nido per i loro figli: i posti gestiti dai comuni non bastano ad accogliere tutti i bambini, le graduatorie per l’assegnazione hanno criteri complessi e le alternative private sono costose. Queste incognite rendono difficile l’organizzazione della vita familiare e lavorativa di milioni di persone, e ad essere penalizzate sono soprattutto le donne, che sono spesso costrette a dover scegliere tra lavoro e accudimento dei figli. E a causa della pandemia da coronavirus, le cose sono peggiorate.
Non ci sono posti per tutti
Secondo gli ultimi dati Istat riferiti all’anno educativo 2018/2019, in totale in Italia i posti autorizzati negli asili nido sono 355.829, distribuiti in 13.335 strutture.
Il dato più importante riguarda la disponibilità dei posti rispetto al totale dei bambini sotto i tre anni: in Italia è al 25,5%, in leggera crescita rispetto al 24,7% dell’anno educativo 2017/2018. Significa che negli asili nido italiani ci sono 25,5 posti ogni 100 bambini sotto i tre anni. Questo numero, però, è ben più basso della soglia del 33% fissata dall’Unione Europea per «sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro». Questo obiettivo è stato indicato nel 2002 dal Consiglio europeo di Barcellona, con la raccomandazione a tutti gli stati di raggiungere il traguardo entro il 2010. A dieci anni dalla scadenza, l’Italia è ancora lontana dal 33%.
Ma non basta guardare i dati nazionali. La situazione è complessa nelle diverse aree del paese, nelle regioni e anche nelle singole province. Ci sono differenze anche all’interno delle città, per esempio tra l’offerta garantita nei quartieri del centro rispetto a quelli periferici. Alcuni dei motivi che incidono sono la storica attenzione al tema da parte dei diversi territori, la capacità di spesa dei comuni e lo sviluppo delle reti sociali.
In questa mappa si possono visualizzare i dati dei posti disponibili in tutti i comuni italiani
Sia le regioni del nord-est che del centro Italia – con un tasso di copertura rispettivamente al 33,6% e 33,3% – sono sopra l’obiettivo europeo. Il nord ovest manca l’obiettivo di poco: 29,9%. Molto distaccate, invece, le regioni del sud (13,3%) e quelle delle isole (13,8%). A livello regionale i livelli di copertura più alti sono in Valle D’Aosta (45,7%), Umbria (42,7%), Emilia Romagna (39,2%), Toscana (36,3%) e nella Provincia Autonoma di Trento (38,4%).
L’offerta si concentra nelle aree più sviluppate economicamente, e nelle città. Firenze (48,2%), Bologna (46,9%) e Roma (44,0%) sono oltre il 40%, mentre le città del sud e delle isole sono tutte con livelli inferiori al 15%: l’unica eccezione è Cagliari, con il 26,5%.
Anche il leggero aumento dei posti disponibili che c’è stato in Italia negli ultimi anni è un numero che va interpretato con cura e non è per forza una buona notizia. Secondo lo stesso istituto nazionale di statistica, infatti, il recente miglioramento di questo dato è un effetto del calo delle nascite e non di un reale incremento dell’offerta. Se diminuisce il numero di bambini tra zero e tre anni, insomma, la percentuale di copertura sale anche senza una crescita del numero degli asili nido. Vista dalla parte delle famiglie “escluse”, la copertura del 25,5% significa che oltre 74 bambini su 100 non hanno un posto negli asili nido.
A fine 2019 è stato approvato un emendamento alla legge di bilancio, presentato da Italia Viva, per stanziare 2,5 miliardi di euro per i prossimi 15 anni. A metà ottobre 2020, la conferenza stato-regioni ha definito come verranno spesi i primi 700 milioni di euro, destinati per il 60% alle aree svantaggiate.
Quanto costano gli asili nido
Biljana Prijic è una mamma single che abita nel quartiere Savena di Bologna, in Emilia-Romagna, una delle regioni storicamente più attente al tema della prima infanzia. Prijic spiega che il tema del costo delle rette pesa molto sul bilancio famigliare. «Il mio quartiere confina con San Lazzaro di Savena, un comune che ha deciso di non far pagare la retta dell’asilo nido ai genitori», dice. «A un chilometro di distanza da dove abito, la mia retta passerebbe da 570 euro al mese a zero. In tre anni riuscirei a risparmiare molti soldi».
La gestione degli asili nido è comunale, e ogni amministrazione stabilisce l’importo delle rette. Le regioni e lo stato, invece, sostengono i costi delle famiglie con alcuni bonus. Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, ha spiegato al Post le misure di sostegno che il governo ha approvato per aumentare l’offerta dei posti negli asili nido e sostenere i costi delle famiglie. Nella prossima legge di bilancio, per esempio, verrà confermato il “bonus asilo nido”, che prevede un contributo a seconda del reddito Isee. Fino ai 25 mila euro di Isee il contributo annuo è di 3.000 euro, da 25 mila fino a 40 mila euro cala a 2.500 euro, e nella fascia dai 40 mila euro in su è di 1.500 euro. Anche il contributo da 3.000 euro, però, in molti casi non è sufficiente a coprire un anno di retta.
L’offerta dei posti, la possibilità di iscrivere i bambini agli asili nido e la capacità economica delle famiglie sono tre temi strettamente correlati. L’Istat spiega che il «reddito netto annuo delle famiglie con bambini che usufruiscono del nido è mediamente più alto (37.699 euro) di quello delle famiglie che non ne usufruiscono (31.563 euro)». Esaminando nel dettaglio le fasce di reddito, solo il 14% dei bambini che appartengono alle famiglie povere frequentano l’asilo nido. La percentuale sale al 20,2% e 25,6% rispettivamente nella terza e quarta classe di reddito, fino a raggiungere il 35,1% nella fascia più abbiente.
Più volte negli ultimi anni è stata annunciata l’intenzione di non far pagare le rette rendendo l’asilo nido gratuito per tutte le famiglie, ma la misura non è stata ancora approvata. «Il bonus asilo nido», spiega la ministra Bonetti «non può essere considerato definitivo. Nella legge chiamata Family Act abbiamo introdotto il principio di sostenere le spese educative fino a renderle gratuite, attraverso un rimborso, oppure una decontribuzione della leva fiscale. Al momento la cifra per sostenere il bonus non è altissima, 400 milioni di euro, ma è legata anche all’attuale offerta dei posti, che aumenteremo».
Secondo un’analisi dei docenti universitari Francesco Figari e Mariacristina Rossi, pubblicata su LaVoce, per garantire gratuità e universalità degli asili nido servirebbe un investimento di 5,5 miliardi ogni anno. «Se consideriamo uno scenario più realistico, nel quale universalità e gratuità sono garantite per il terzo anno di età, mentre per il secondo anno di vita la gratuità è riservata soltanto ai figli di genitori entrambi occupati (o in cerca di occupazione), avremmo un costo lordo a carico dello stato di 4 miliardi» – scrivono i docenti universitari. Nel 2018 la spesa corrente sostenuta dai comuni per i servizi educativi ammontava a circa 1 miliardo e 501 milioni di euro, di cui il 19,5% rimborsata dalle famiglie con le rette mensili.
I costi per gli asili nido, però, sono anche quelli sociali, in un paese come l’Italia dove le donne hanno un tasso di occupazione del 54,1% contro il 70,8% degli uomini, secondo gli ultimi dati Istat relativi al 2019. Analizzando i dati provinciali dei posti negli asili nido e quelli relativi all’occupazione femminile, infatti, sembra esserci una forte correlazione: più posti ci sono negli asili nido, più alta è l’occupazione femminile nella fascia 25-34 anni. Ferrara è la provincia dove questo rapporto è più solido: negli asili nido ferraresi ci sono 46 posti ogni 100 bambini sotto i tre anni, e il tasso di occupazione femminile tra i 25 e i 34 anni è al 68,68%.
Il modello emiliano
Reggio Emilia è un’altra delle province in cui questa correlazione è più solida. Nel comune di Scandiano, nel 1969, fu inaugurato il primo asilo nido comunale, il “Leoni”, intitolato ad Alessandro Leoni, giovane partigiano ucciso dai tedeschi. Ogni anno, educatori provenienti da tutto il mondo arrivano a Reggio Emilia per studiare il modello educativo della prima infanzia, chiamato “Reggio Emilia Approach“.
Uno dei principi dell’approccio emiliano dice che «l’educazione è un diritto di tutti, delle bambine e dei bambini e in quanto tale è una responsabilità della comunità. L’educazione è un’opportunità di crescita e di emancipazione della persona e della collettività, è una risorsa per il sapere e per il convivere, è un terreno di incontro dove si praticano la libertà, la democrazia, la solidarietà e si promuove il valore della pace».
Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia, delegato al welfare dell’Associazione nazionale comuni italiani, è uno degli amministratori più preparati sulle politiche per la prima infanzia. Vecchi dice che l’Italia ha ancora tanta strada da fare, e che servono nuovi finanziamenti: «l’esperienza di Reggio Emilia viene da lontano, e funziona. Investiamo ogni anno 21 milioni di euro per la prima infanzia, il 16% del nostro bilancio».
Secondo Vecchi uno degli aspetti più importanti, sottovalutato o ignorato dal dibattito pubblico, è il rapporto tra scuola dell’infanzia e famiglia. «Spesso manca la corresponsabilità tra mamma e papà nel servizio educativo. A Reggio Emilia, per esempio, ci sono centinaia di genitori eletti nei “Consigli infanzia città”».
In ogni asilo nido e scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, infatti, è presente un Consiglio Infanzia Città a cui partecipano genitori, insegnanti, operatori e pedagogisti. Sono spazi di incontro e dibattito tra le famiglie, per discutere dell’esperienza pedagogica. «Il nostro caso, molto particolare, dimostra che non è solo una questione di investimenti economici, ma culturali», dice Vecchi. «I dati dicono che quando si investe – economicamente e culturalmente – nella prima infanzia, ci sono ricadute positive sulla scolarizzazione e l’occupazione femminile. Ma servono risorse economiche e scelte radicali».
Con il coronavirus, le cose sono peggiorate
L’epidemia da coronavirus ha reso tutto più difficile, anche e soprattutto per le famiglie. Con la chiusura delle scuole, dallo scorso marzo fino a settembre, le famiglie hanno dovuto badare ai propri figli in autonomia. Nel caso dei più piccoli, senza l’alternativa – parziale – della didattica a distanza.
Gli asili sono stati riaperti solo a inizio settembre, con un protocollo di rigide norme anti contagio. La nuova organizzazione è stata chiamata «a bolle»: ogni gruppo di bambini non deve entrare a contatto con altri gruppi e tutti gli spazi devono essere sanificati almeno una volta al giorno. Con la seconda ondata molte città o intere regioni – è il caso della Campania – hanno deciso una nuova chiusura per cercare di far calare i contagi. Molti asili nido hanno dovuto tagliare posti, aggravando il problema.
Myriam Sabolla vive a Milano insieme al marito e alle due figlie di cinque anni e 18 mesi. In due momenti della sua vita, Sabolla ha vissuto con molta ansia il problema di trovare un posto per le figlie all’asilo nido. Le incertezze c’erano già prima del coronavirus, e adesso sono aumentate. «Il problema principale è proprio trovare posto», dice. A Milano, dove ci sono 36,4 posti negli asili nido ogni 100 bambini con meno di tre anni, sono molto frequenti le coppie in cui entrambi i genitori lavorano e la richiesta di posti negli asili nido è altissima. «La scorsa estate», dice Sabolla «molti bambini sono stati inizialmente esclusi dai nidi comunali perché sembrava che si dovessero tagliare posti a causa delle norme anti contagio. I criteri delle graduatorie non sono immediati e ho passato notti ad aspettare la mail del comune per capire se c’era posto per mia figlia».
Sabolla è una libera professionista e le incognite della scorsa estate hanno pesato sull’organizzazione del suo lavoro. «Non sapere se a settembre avrebbero riaperto i nidi è stato pesante. Serve tempo per programmare il lavoro».
Nel piano di rilancio post epidemia studiato dalla task force governativa guidata da Vittorio Colao era stata prevista «l’estensione dell’offerta di nidi raggiungendo in 3 anni il 60% dei bambini eliminando le differenze territoriali tra Centro, Nord e Mezzogiorno» e anche «un’organizzazione dei servizi con orari flessibili e aperture anche nei giorni festivi in modo da garantirne la dovuta flessibilità nell’utilizzo». Il piano non è mai stato preso in considerazione dal governo.