Il giorno in cui nacque “la questione morale”
Quarant'anni fa il segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer dichiarò la fine del compromesso storico con la DC e dette un nuovo significato a una vecchia categoria politica
Il 27 novembre del 1980, a pochi giorni dal disastroso terremoto che colpì l’Irpinia, Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, convocò una riunione straordinaria della direzione del partito a Salerno in cui dichiarò ufficialmente la fine del compromesso storico con la Democrazia Cristiana. E fece riferimento a una categoria che divenne poi famosa e che fu, soprattutto, una questione politica, non di governo: «La “questione morale” è divenuta oggi la questione nazionale più importante», disse.
In realtà Berlinguer non era il primo a tirare in ballo una “questione morale”. Così si intitolava un vecchio scritto di Giuseppe Mazzini, del 1866, e si parlò di “questione morale” anche in riferimento al caso giudiziario nato intorno alla morte di Wilma Montesi, la ragazza 21enne trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, in provincia di Roma, nel 1953. Il primo a farlo fu Pietro Ingrao, scrivendo sull’Unità che il caso – in cui era coinvolto il figlio di un noto esponente democristiano, Attilio Piccioni – era diventato «una seria questione morale» a causa di un «torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga, di corruzione, che sconfina nel mondo politico ufficiale».
Quando Berlinguer parlò di “questione morale”, quasi trent’anni dopo, il contesto era molto mutato, così come il significato che si attribuiva a quella categoria: era il tempo in cui la lottizzazione del potere aveva trovato la sua prassi nel “manuale Cencelli”, e la spartizione di cariche e il clientelismo erano diventati piuttosto vistosi.
Fino a lì
Dal 1972, il Partito Comunista Italiano (PCI) – che era nato nel gennaio del 1921 a Livorno come Partito Comunista d’Italia e che durante la Seconda guerra mondiale (con Palmiro Togliatti) diventò un importante partito nazionale, promuovendo e organizzando la Resistenza contro i tedeschi e il fascismo – era guidato dal segretario Enrico Berlinguer. Con lui, il partito cominciò a sviluppare una politica sempre più autonoma dalle direttive generali dell’Unione Sovietica nella convinzione che la rivoluzione comunista dovesse diventare «un processo interno allo sviluppo della democrazia».
Per il PCI, il 1976 fu un anno fondamentale. Cominciò in Italia con una crisi politica: il presidente del Consiglio Aldo Moro aveva dimostrato, nel governo che presiedeva dal novembre 1974, di essere disponibile a un’apertura nei confronti del Partito Comunista. Al contempo Francesco De Martino, il segretario del Partito Socialista – che sosteneva Moro –, aveva elaborato la tesi dei cosiddetti “equilibri più avanzati”, secondo cui l’intera sinistra andava coinvolta nella maggioranza, quindi anche i comunisti: alla fine del 1975 annunciò in un articolo pubblicato sull’Avanti che l’alleanza di centrosinistra tra PSI e Democrazia Cristiana era da considerarsi finita. Poco di più un mese dopo la DC formò un nuovo governo, questa volta solamente con ministri democristiani: il presidente del Consiglio, per la quinta volta, fu ancora Aldo Moro. Ma il governo durò poco più di cinque mesi.
In quei giorni, peraltro, la Democrazia Cristiana dovette affrontare due scandali, oltre alla difficile situazione politica. Il primo a gennaio, quando sui giornali americani vennero fuori notizie di presunti finanziamenti degli Stati Uniti a esponenti democristiani di primo piano come Andreotti e Donat Cattin. Il secondo, che ebbe molto più risalto, fu il cosiddetto “scandalo Lockheed”, con l’accusa ad alcuni politici italiani di aver ricevuto tangenti per acquistare alcuni aerei da trasporto militari. Il caso arrivò a coinvolgere il presidente della Repubblica Giovanni Leone e l’ex presidente del Consiglio Mariano Rumor: sotto pressione crescente, il governo Moro si dimise e il presidente della Repubblica sciolse in anticipo le Camere. Nel frattempo, la situazione economica italiana era in costante peggioramento, dopo la crisi petrolifera che aveva investito tutto l’Occidente.
Si arrivò quindi alla campagna elettorale del 1976 con la sensazione diffusa che il PCI potesse per la prima volta portare a termine uno storico “sorpasso” sulla Democrazia Cristiana, ovvero ottenere più voti. L’8 giugno del 1976, solo dodici giorni prima delle elezioni, il procuratore generale della Corte d’Appello di Genova Francesco Coco venne ucciso insieme alla sua scorta. L’uccisione di Coco venne rivendicata dalle Brigate Rosse con un comunicato letto nell’aula del tribunale di Torino dai leader in carcere, durante un’udienza del processo al cosiddetto “nucleo storico” delle Brigate Rosse. L’episodio fece grandissima impressione sull’opinione pubblica.
In questo clima teso e complicato si arrivò alle elezioni politiche, il 20 giugno 1976, le prime in cui l’età minima del voto venne abbassata da 21 a 18 anni. Lo spoglio diede al PCI il suo massimo risultato storico alle politiche, con il 34,4 per cento, ma il “sorpasso” non ci fu, perché la Democrazia Cristiana prese il 38,7 per cento. Senza una maggioranza parlamentare chiara – all’epoca si votava con un sistema proporzionale puro – si aprì comunque il problema di come formare il governo.
Il PCI non entrò a farne parte, ma nelle trattative politiche che seguirono, aperte a tutti i partiti meno che al Movimento Sociale Italiano, si decise di spartire le massime cariche istituzionali dello Stato tra i diversi partiti in base al loro peso elettorale, con la partecipazione del PCI: il democristiano Fanfani diventò presidente del Senato, il comunista Pietro Ingrao, invece, presidente della Camera (il primo del PCI nella storia della Camera dei deputati). Era la prima volta che si procedeva a questa mediazione, che poi proseguì negli anni successivi (a Pietro Ingrao successe Nilde Iotti, la prima presidente della Camera). Quanto al governo, ci si accordò infine su un governo monocolore (ovvero con tutti i ministri dello stesso partito) della Democrazia Cristiana, guidato per la terza volta da Giulio Andreotti. Berlinguer disse in Parlamento, il giorno del giuramento del governo – 10 agosto 1976 – che il PCI aveva scelto l’astensione perché aveva messo il bene del paese davanti alle questioni di opportunità politica.
Quel governo, che sarebbe durato fino al febbraio 1978, passò alla storia come il “governo della non sfiducia” o “delle astensioni”. Oltre al PCI, non parteciparono al voto socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali: il governo partì avendo ottenuto più astensioni che voti favorevoli. Dato che al Senato l’astensione equivale a voto contrario, molti “astenuti” abbandonarono l’aula, ma non tutti in modo da non far mancare il numero legale.
Per un anno e mezzo, quindi, il governo Andreotti fu costretto a contrattare tutti i principali provvedimenti con il PCI, in una continua opera di mediazione che aveva per protagonisti Giulio Andreotti da una parte e Enrico Berlinguer dall’altra. Il PCI teneva a freno il sindacato e le possibili proteste sociali più estese, e con questo sostegno sempre un po’ riluttante il governo Andreotti poté approvare alcuni provvedimenti impopolari per cercare di mettere in ordine i conti pubblici.
Questi sottili equilibrismi entrarono in crisi alla fine del 1977, quando ci furono alcune grandi manifestazioni contro il governo Andreotti. Nei cortei della sinistra extraparlamentare era chiamato addirittura “governo Berlingotti”. A metà gennaio del 1978 si aprì la crisi di governo, che durò circa due mesi e si concluse nel marzo 1978 con un altro governo Andreotti, il quarto. Questa volta, però, i comunisti avevano accettato di votare a favore del governo (un altro monocolore democristiano). L’Andreotti IV si costituì l’11 marzo 1978: cinque giorni dopo, il 16 marzo, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e uccisero gli uomini della sua scorta, poche ore prima della presentazione del nuovo governo al Parlamento. Il quarto governo Andreotti ricevette la fiducia quello stesso 16 marzo, poco dopo che i parlamentari seppero del rapimento, e rimase in carica fino al 31 gennaio 1979: dato il momento, il Partito Comunista sostenne il governo con un “appoggio esterno”, per la prima volta nella sua storia.
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La questione morale
La questione morale esplose dopo il terremoto che colpì l’Irpinia il 23 novembre del 1980. Gli aiuti ai terremotati non furono tempestivi e il governo non riuscì a controllare la situazione: e Berlinguer decise che era quello il momento giusto per rompere definitivamente con la classe dirigente della DC. Il 27 novembre convocò una riunione straordinaria della direzione del partito a Salerno – a cui il giorno dopo l’Unità, organo di stampa ufficiale del partito, avrebbe dato ampio risalto – durante la quale parlò sì del terremoto, ma fece riferimento anche agli scandali, alla corruzione e all’amoralità che, per il segretario comunista, erano i veri colpevoli della crisi:
«Il Pci è ben consapevole che la vicenda tragica del terremoto, all’indomani delle risposte deludenti e negative del governo di fronte alla catena di scandali, di deviazioni negli apparati dello Stato e di intrighi di potere, ha fatto emergere con estrema acutezza i problemi dell’efficienza, della correttezza e della moralità della direzione politica. Il Paese è profondamente colpito da questi comportamenti: sono sempre più manifesti la sfiducia e lo sdegno. (…)
La verità è che tutto ciò chiama in causa non semplicemente le responsabilità di uno o più ministri, o dell’attuale governo, ma un sistema di potere, una concezione e un metodo di governo che hanno generato di continuo inefficienze e confusioni nel funzionamento degli organi dello Stato, corruttele e scandali nella vita dei partiti governativi, omertà e impunità per i responsabili. La questione morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante».
Alcuni mesi dopo, il 21 luglio 1981, Berlinguer rilasciò una lunga intervista a Eugenio Scalfari su Repubblica in cui ribadì i concetti di Salerno, tornando sulla “questione morale”:
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. (…) Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. (…) Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.(…) La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano».
In quella stessa intervista, Berlinguer spiegò la “diversità” del suo partito, rispetto agli altri:
« (…) noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni.
(…) Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
(…) Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati».
Un anno dopo, durante una Tribuna politica, Berlinguer approfondì la questione della diversità del PCI dalla DC e il tema della questione morale. Rispondendo a una domanda di Sergio Turone de Il Messaggero, ribadì la necessità di mettere fine «alla commistione tra funzioni di partito e funzioni statali».
La svolta di Berlinguer inaugurata con la “questione morale” creò dubbi e malcontento all’interno del suo stesso partito: fu criticata da Giorgio Napolitano, ma anche da Alessandro Natta, allora vice di Berlinguer, che in privato disse: «Le cose sono dette in modo irritante: gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C’è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». Le parole di Berlinguer sono state interpretate e criticate anche oltre l’immediato. Alcuni hanno visto nella “questione morale” la comparsa dell’antipolitica, altri l’affermazione di una presunta superiorità antropologica dei comunisti rispetto agli altri. Ma per altri ancora, quello della questione morale e dell’etica pubblica divennero nuovi paradigmi politici.
Berlinguer lì ribadì e li portò avanti fino all’ultimo. Nella sua ultima intervista televisiva, fatta poche ore prima del malore avuto durante il comizio di Padova del 7 giugno 1984 (morì l’11 giugno), parlò della necessità «di aprire la strada» a governi che guardassero agli «interessi generali» e non fossero «caratterizzati dalla conflittualità continua tra i partiti e tra le loro fazioni».