La storia dei doughnut, ciambelle non americane
Arrivano dai Paesi Bassi, all'inizio non avevano il buco, diventarono popolari tra le truppe americane in Francia e forse le conoscete come donut
I doughnut o donut sono le ciambelle dolci, fritte e glassate di Homer Simpson, portate in Italia dalle grandi catene di fast food americane e ora comuni anche al bar sotto casa; negli Stati Uniti se ne mangiano 10 miliardi all’anno (una media annuale di 31 a testa) e spuntano da sacchetti da asporto e piattini in innumerevoli film e serie tv: sono, insomma, un simbolo dell’America e della sua egemonia gastronomica, ma come molti cibi dalla stessa fama furono inventati oltreoceano.
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La tradizione di friggere un impasto nell’olio o nel grasso animale e di ricoprirlo di sostanze zuccherose si perde nei millenni: lo facevano i Greci, i Romani (che glassavano con miele o aspra salsa di pesce) e anche i Nativi americani dell’epoca preistorica, 5.000 anni fa. Lo scrittore gastronomico Michael Krondl racconta nell’Oxford Companion to Sugar and Sweets, che la prima menzione di un impasto fritto in olio d’oliva e ricoperto di miele è dello scrittore egizio Ateneo di Naucrati, nel III secolo d.C., ma dolcetti fritti di varie forme e dimensioni si ritrovano poi un po’ in tutto il mondo: dai cinesi youtiao nati sotto la dinastia Song (960–1279) – che ricordano i churros spagnoli – agli sufganiyot ebraici, bomboloni fritti farciti con marmellata e ricoperti di zucchero a velo, nati nel Medioevo. Nel XII secolo gli europei assaggiarono dolcetti simili, comuni nel mondo arabo: erano piccole porzioni di impasto non zuccherato, fritte e poi inzuppate nello sciroppo. Si diffusero nel Nord Europa, soprattutto in Inghilterra, Paesi Bassi e Germania; qui, in mancanza dello zucchero, erano spesso salati e imbottiti di carne e funghi.
Dal Quattrocento, nei Paesi Bassi si preparavano le olykoeks (si pronuncia così), letteralmente palle d’olio, che erano tonde frittelle fritte nell’olio, fatte con impasto lievitato di uova e farina, a volte arricchite con frutta secca e mele. È da loro che nacquero i doughnuts americani: secondo gli storici gastronomici furono portate dai Padri Pellegrini nel Nuovo Continente o più semplicemente dai coloni olandesi che si stabilirono a New Amsterdam, la cittadella fondata nel 1625 a Manhattan che sarebbe poi diventata New York. I coloni avevano quasi certamente con sé qualche copia del De Verstandige Kock (Il cuoco avveduto), un celebre ricettario olandese stampato nel 1667 e rivolto ai nobili che, come di consueto allora, avevano abbandonato la vita insalubre delle città per quella sana e prospera della campagna, dove coltivavano gli ortaggi e la frutta e pescavano il pesce delle loro tavole. Il libro contiene la più antica ricetta delle olykoeks.
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Fino all’Ottocento almeno, negli Stati Uniti i doughnut rimasero confinati nella comunità olandese e fu sempre olandese il primo negozio a venderli, aperto nel 1673 dalla signora Anna Joralemon a Broadway. Lo testimonia anche un passo del libro A History of New York di Washington Irving, uscito nel 1809: «A volte la tavola era impreziosita con immense torte di mele, piattini pieni di pesche e pere sciroppate, e non mancava mai un enorme piatto di palline di impasto zuccherato, fritte nel grasso del maiale e chiamate dough-nuts e olykoeks: un tipo di dolce delizioso, al momento poco conosciuto in questa città tranne che nelle autentiche famiglie olandesi». La prima ricetta di un dolce chiamata Dough Nut risale invece al 1802 e si trova nell’appendice all’edizione americana del libro di cucina The Frugal Housewife.
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Fino a quel momento, tutti i doughnut erano preparati con il lievito di birra o con il lievito naturale: erano un impasto di farina, zucchero, sale, lievito, acqua o latte, a volte uova, burro e olio; lo si lasciava lievitare per ore, lo si arrotolava, tagliava e ancora a lievitare prima di friggere nell’olio bollente. Le cose cambiarono dal 1829, quando arrivarono sul mercato i primi lieviti chimici, come il bicarbonato di potassio. Preparare i doughnut divenne più rapido: si faceva una pastella di farina, latte o acqua, sale, zucchero, a volte uova e bicarbonato di potassio che si poteva friggere subito, permettendo ai doughnut di diffondersi facilmente nelle case americane.
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Ancora oggi i doughnut si differenziano in base al lievito usato. I cosiddetti yeast doughnut (quelli con il lievito di birra) sono solitamente più grandi, hanno una superficie satinata più facile da glassare o ricoprire di cioccolata e hanno una struttura soffice a nido d’ape che li rende ideali per essere farciti. I cake doughnut (con il lievito chimico) sono più duri e compatti, reggono meglio zuccherini e frutta secca in superficie, sono spesso impastati con altri aromi e, non avendo bisogno di tempi per la lievitazione, sono decisamente più adatti per la produzione industriale. Perfetti per essere inzuppati nel caffè, divennero presto la colazione e lo spuntino ideale della classe media e operaia. Attenzione: il modo giusto di inzupparli è uno e uno soltanto, come insegna Clark Gable nel film Accadde una notte del 1934.
Per arrivare alla popolarità degli anni Trenta bisogna però incrociare la storia del capitano Hanson Gregory e poi attraversare la Prima guerra mondiale. Fino a metà Ottocento i doughnut erano semplici striscioline o palline, senza buco. L’idea di farlo, si racconta, venne nel 1847 al capitano Gregory, che guidava una nave nel New England. Sua madre Elizabeth aveva preparato scorte di doughnut per lui e la sua ciurma: erano sferici, impastati con scorze di limone e spezie e avevano noci e nocciole al centro, dove l’impasto, soprattutto quello che prevedeva le uova, restava più crudo. Pare che un giorno il capitano infilzò il doughnut che stava mangiando su una maniglia del timone, o per assaporarlo più lentamente o perché era scoppiata una tempesta e aveva bisogno di entrambe le mani libere per pilotare: così sarebbe nata la forma a ciambella. Una spiegazione più semplice è che le noci costavano parecchio e che per evitare che l’impasto non si cuocesse bene al centro si finì per rimuoverlo del tutto. O forse, nonostante le premure della madre, al capitano Gregory non piacevano le noci.
La Prima guerra mondiale contribuì enormemente alla diffusione dei doughnut in tutto il Paese. Fu merito delle volontarie dell’Esercito della Salvezza in Francia, che friggevano i doughnut – a volte persino negli elmetti – e li distribuivano ai soldati ancora bollenti e fumanti, per farli sentire un po’ a casa. Diventarono famose come “doughnut lassies”, le ragazze dei doughnut, e anche i soldati americani che ancora non li conoscevano portarono in patria l’abitudine di mangiarli. Nel 1938 l’Esercito della Salvezza organizzò una raccolta fondi per i bisognosi della Grande Depressione vendendo doughnut: l’iniziativa portò alla nascita del National Doughnut Day, che si festeggia ogni primo venerdì di giugno. Qui trovate la loro ricetta.
Nel frattempo la richiesta di doughnuts era in crescita e Adolph Levitt, un rifugiato ebreo scappato dalla Russia zarista che aveva un forno a Harlem, inventò la prima macchina per farli automaticamente, nel 1921. La chiamò “Wonderful Almost Human Automatic Doughnut Machine” (la macchina fantastica e quasi umana per fare i doughnuts automaticamente) e la mise in vetrina per affascinare i clienti, mentre sfornava una sessantina di dolcetti all’ora. Levitt iniziò a vendere il macchinario e mise in piedi un affare da 25 milioni di dollari in uno dei momenti più difficili della storia Americana.
I doughnuts intanto, al moderato costo di un nichelino l’uno, divennero uno dei pochi sfizi della Grande Depressione; erano così popolari che gli immigrati arrivati a Ellis Island erano accolti soltanto con due cose, un doughnut e una coperta. Nel 1933 vennero dichiarati “Hit Food of the Century”, il cibo del secolo, alla Fiera mondiale di Chicago. Nello stesso anno, il 19enne Vernon Rudolph aprì il negozio Krispy Kreme Doughnut Company a Nashville, in Tennessee, con suo zio Ishmael, che aveva imparato la ricetta dei doughnut a base di lievito di birra da un cuoco di New Orleans di nome Joe LeBeau. Rudolph si trasferì a Winston-Salem, in North Carolina, e aprì un negozio da solo che chiamò Krispy Kreme. Fu il primo della possente catena Krispy Kreme: a fine anni Trenta vendeva all’ingrosso in tutto lo stato, 20 anni dopo possedeva 29 fabbriche in 12 stati. Ora ne ha più di 350 e oltre mille negozi in tutto il mondo, dove offre 40 tipi di doughnuts diversi, più versioni stagionali (come quelle natalizie) e in formato mini.
Durante la Seconda guerra mondiale, anche le volontarie della Croce Rossa si misero a friggere e distribuire doughnut e vennero soprannominate Doughnut Dollies, le bambole dei doughnut, come ricorda lo scrittore Andrew Pipanne; tornati a casa, molti veterani aprirono i primi negozi di doughnut in America. In quegli stessi anni William Rosenberg, trentenne nato in una famiglia di ebrei immigrati dalla Prussia, vendeva snack e caffè in camion di seconda mano all’uscita delle fabbriche di Dorchester, in Massachusetts. Si accorse che le vendite di caffè e doughnut rappresentavano il 40 per cento del totale e nel 1948 aprì un negozio che offriva solo quello, chiamato Open Kettle, a Quincy, sempre in Massachusetts. Il suo sogno era trasformarlo nella «più grande catena di caffè e prodotti da forno al mondo» e ci riuscì. Due anni dopo ribattezzò l’azienda Dunkin’ Donut e cinque anni dopo aprì il primo negozio in franchising vicino a Worcester; nel 1963 Dunkin’ Donut aveva più di 100 caffetterie negli Stati Uniti, nel 1979 erano diventate più di mille, ora sono oltre 5000 in 37 paesi.
La rivalità tra Krispy Kreme e Dunkin’ Donuts non è solo territoriale, economica e qualitativa (i primi usano il lievito di birra, i secondi quello chimico) ma è anche una guerra dei nomi: doughnut contro donut. Quest’ultimo è una variante che si diffuse da metà Novecento e che, probabilmente, riflette la tendenza americana a semplificare e a scrivere un termine come lo si pronuncia, come dissero Benjamin Franklin e Noah Webster, autori del famoso dizionario Webster’s.
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La prima occorrenza stampata di donut si trova nel romanzo Bad Boy and his Pa di George W. Peck, pubblicato nel 1883, dove un personaggio dice che «non aveva molta fame, avrebbe preso solo un caffè e mangiato un donut». John T. Edge scrive in Donuts, an American passion (2006) che la semplificazione venne introdotta quando la Doughnut Machine Corporation, l’azienda di Levitt che vendeva i macchinari per fare il dolce, cambiò nome in Donut per renderlo più facile da pronunciare ai clienti stranieri. L’occorrenza compare anche in un articolo del Los Angeles Times del 10 agosto 1929, in cui il giornalista Bailey Millard scherzava sugli errori di ortografia del tempo dicendo che «non poteva ingoiare un wel-dun donut», un “donut ben coto”.
Doughnut resta comunque la forma più utilizzata, circa due volte su tre. Forse, scrive il sito letterario LitHub, perché molti collegano la parla donut al marchio Dunkin’ Donut o forse, come scrisse il giornalista William Safire sul New York Times: «quelli anziani tra noi… definiscono le paste circolari doughnuts perché sono “made of dough, not do” (un gioco di parole: dough vuol dire impasto).