Quelli che ci fanno i tamponi
Sono soprattutto infermieri, ma non solo, e da febbraio hanno fatto milioni di volte una cosa di per sé semplice, ma fondamentale
Da febbraio a oggi sono stati fatti in Italia più di 20 milioni di tamponi molecolari. E si è parlato molto, in questi mesi, dei tamponi: della loro attendibilità, delle tante e spesso contorte strade per cui si arriva a farli, delle lunghe code nei parcheggi di chi andava a farli con la propria auto. Si è parlato un po’ meno di tutte quelle persone – soprattutto infermieri e infermiere, ma non solo – che i tamponi li fanno agli altri, passando le giornate dietro una visiera e dentro una tuta, infilando e togliendo gli ormai noti bastoncini dai nasi della gente: negli ambulatori, nelle RSA, nei centri privati, nelle case, nelle scuole e, spesso, all’aperto, in qualche drive-through o punto tamponi. Testando a volte anche più di cento persone al giorno.
I tamponi, secondo gli infermieri che li maneggiano, sono di per sé molto simili, nella parte finale, a dei cotton fioc, e, in riferimento al loro materiale, l’Istituto Superiore di Sanità scriveva già a maggio che erano «disponibili anche in materiale sintetico capaci di trattenere molto più materiale organico rispetto ai tamponi di ovatta».
Una volta estratto, il tampone viene immerso nella provetta contenente liquido reagente e spezzato, con una parte (quella vicina alla mano di chi lo ha infilato nel naso altrui) che viene gettata e l’altra, quella entrata a fondo nel naso, che viene lasciata nella provetta.
Fare un tampone (nel senso di eseguire, non di subire) è un’operazione piuttosto semplice, che si faceva già prima della pandemia per diagnosticare la presenza di virus di altro tipo. Ma la grandissima parte di chi da febbraio fa tamponi rinofaringei (che entrano dal naso e arrivano appunto fino alla naso-faringe) fino al giorno prima non ne aveva mai fatto uno, né aveva mai messo a un paziente un sondino naso-gastrico, che segue lo stesso percorso anatomico di un tampone.
Vista la relativa semplicità dell’operazione, e la notevole urgenza dettata dalla pandemia, l’apprendimento è stato molto rapido. Teresa (nome di fantasia) è un’infermiera di un ospedale lombardo, che fino a inizio marzo lavorava in reparto e poi è stata messa a fare tamponi ambulatoriali e successivamente ai drive-through, dopo essere stata «addestrata in un quarto d’ora da una collega infermiera», che a sua volta si era impratichita grazie alle indicazioni di un otorino. Anche Lorenzo – specializzando romano in medicina del lavoro (i tamponi li fanno soprattutto gli infermieri, ma non solo loro) che fa tamponi in ambito ospedaliero – racconta di una rapida formazione fatta da un’infermiera a due sue colleghe. Il giorno dopo – racconta – le colleghe l’hanno insegnato a me; mi sono vestito, sono entrato nella stanza tamponi, il primo l’ha fatto una mia collega, il secondo io». In altri casi, la formazione è stata fatta online, con corsi o video-tutorial.
Nicola Draoli – membro del comitato centrale della Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) – spiega, a questo proposito, che «la conoscenza dell’apparato delle vie aeree superiori e anche l’utilizzo di presidi invasivi che passano dalle vie aeree superiori sono cose che ogni infermiere ha nel proprio bagaglio di competenze» e che il tampone rino-faringeo «rientra nelle capacità tecniche e professionali di ogni infermiere». Sul perché siano gli infermieri a dover fare tamponi, Draoli spiega che «non c’è una normativa di riferimento specifica» ma esiste «una normativa quadro che tiene conto della formazione universitaria, del profilo professionale dell’infermiere e del codice deontologico».
In altre parole, gli infermieri – e con loro altri professionisti sanitari (come i medici del lavoro) – possono fare tamponi, e hanno le competenze per farli. Draoli spiega anche che «non esiste a livello nazionale o internazionale un documento che dica che il tampone è appannaggio di una singola professione sanitaria» e ricorda che FNOPI è contraria alla proposta di chi vorrebbe estendere la possibilità di fare tamponi anche agli operatori socio-sanitari (OSS), cioè a «personale tecnico, che ha fatto un corso ridotto di un anno circa e opera sotto diretta supervisione di professionisti sanitari». Questo perché «è un esame che in mano a un non-professionista, che non padroneggia fino in fondo la conoscenza anatomica e la manualità per poterlo fare, potrebbe non essere adeguatamente sicuro per il cittadino».
«Piuttosto» dice Draoli «meglio aprire la possibilità ad altre professioni sanitarie: dal fisioterapista all’ostetrica, fino ai tecnici di laboratorio; professionisti sanitari con un titolo di laurea e un percorso di studi di un certo tipo». In ogni caso, numeri chiari su quanti infermieri o operatori sanitari siano a oggi effettivamente occupati (in parte o del tutto) in attività legate ai tamponi, non ne esistono. E questo rende impossibile dire cosa facesse prima (e cosa non sta quindi più facendo) chi ora fa tamponi, e quante altre persone servirebbero, eventualmente, se si potessero o volessero farne di più.
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A livello nazionale, le principali linee guida sui tamponi rinofaringei sono in un documento dell’Istituto Superiore di Sanità contenente, da titolo, “Raccomandazioni ad interim per il corretto prelievo, conservazione e analisi sul tampone rino/orofaringeo per la diagnosi di COVID-19“. Il documento è destinato «agli operatori sanitari» e a proposito del tampone rinofaringeo (il «gold standard», quello con «la maggior sensibilità e specificità diagnostica») descrive procedure di vestizione, prelievo, svestizione, smaltimento dei rifiuti, etichettatura, conservazione, confezionamento e spedizione dei campioni. A proposito della parte effettivamente tamponata scrive:
«Il rinofaringe, in inglese “nasopharynx”, è posto in profondità dietro al naso ed è la porzione superiore del faringe, che si divide, dall’alto in basso, in rinofaringe, orofaringe e ipofaringe. Per essere raggiunto, è necessario far avanzare il tampone nelle fosse nasali perpendicolarmente al volto del paziente, appoggiandolo al pavimento delle fosse nasali, per una lunghezza media da 8 a 12 cm».
Nel documento c’è anche il link a un video che mostra, dal punto di vista del tampone, in visione endoscopica, qual è la strada da percorrere per arrivare fino al rinofaringe.
Dopo aver fatto migliaia di tamponi, Teresa – che ha quasi 60 anni ed è infermiera da più di 30 – spiega che, nell’inserire il tampone perpendicolarmente al viso, tiene come punto di riferimento «il lobo dell’orecchio» e che «passando dalle coane nasali e poi accanto all’ugola, arriva al faringe». Nel farlo, dice, «si esegue un movimento rotatorio, per farsi strada e per raccogliere più materiale possibile ». Teresa si accorge che il tampone è arrivato alla fine del suo percorso quando «inizia a curvarsi». A quel punto – spiega sempre Teresa, stando molto alla larga da ogni tecnicismo – «si fa una sorta di grattino». Per tornare indietro, Teresa spiega di far compiere al tampone «una sorta di spirale» il cui scopo è continuare a raccogliere quanto più materiale possibile sulla punta del tampone.
Elena (nome di fantasia) è un’infermiera lombarda da alcuni mesi impegnata in un punto tampone. Da diverse settimane fa tra i 100 e i 200 tamponi al giorno e ai pazienti dice «sempre di respirare, perché la respirazione fa scorrere con più facilità il tampone». Aggiunge che nel caso di bambini (per i quali esistono tamponi più piccoli) è quasi consigliato che piangano, perché anche il pianto aiuta ad aprire le vie respiratorie. Spiega anche che, per chi ci riesce, è meglio tenere gli occhi aperti, perché questo mantiene rilassati i muscoli del viso e più facilmente percorribili le vie aeree da cui deve passare il tampone.
Tra i tamponatori e le tamponatrici sentiti per questo articolo, i racconti di casi particolari sono sempre rari, anche a fronte di un bagaglio personale di migliaia di tamponi effettuati. Un po’ di problemi capitano nel caso di setti nasali deviati (ma, dice Teresa, in quei casi «se da una parte non vai, dall’altra vai come un treno», perché da qualche parte il paziente deve pur respirare), oppure se ci sono poliposi nasali di una certa rilevanza. Può capitare che a qualcuno sanguini (se il sangue sul tampone è troppo, si prova a ripeterlo, magari facendolo oro-faringeo, cioè dalla bocca) e Teresa ha raccontato di aver visto in ambulatorio un po’ di svenimenti («finito il tampone qualcuno cascava giù come una pera»), cosa che però non è capitata di frequente. In generale, i problemi maggiori sono dovuti al fatto che certe persone sono piuttosto spaventate dal tampone, e talvolta che, con un bastoncino infilato o in entrata nel naso, qualcuno fa bruschi movimenti o addirittura prova a toglierselo da solo, il tampone.
Se i tamponi sono praticamente sempre uguali (a patto che si parli di tampone molecolare rinofaringeo), ci sono peculiarità, storie ed esperienze diverse a seconda dei luoghi in cui li si fa. È esemplare il caso di Elena, che ha fatto i suoi primi tamponi drive-through a maggio, in un punto tamponi dove oggi fa un po’ più freddo di allora, e continua a farli dal lunedì al sabato, dalle 7.30 fino a dopo le 15 (dipende da quando finisce la coda di auto). Elena lavora con altre due colleghe, e ricorda che «il record è stato 478 tamponi in un giorno», ma altrove c’è anche chi ne ha fatti più di 500. Oggi racconta di avere «una spalla che non risponde più a furia di fare lo stesso movimento» e che una collega che soffre particolarmente il freddo sotto alla tuta da lavoro («quelle bianche in tessuto-non-tessuto, perché quelle idrorepellenti, con le righe blu, costano troppo») si mette la tuta da sci, e ai piedi indossa «due paia di calze di lana». Lei, invece, si arrangia con una maglietta termica, un maglione e un cappotto, e ai piedi tiene degli stivali: «niente calzari» dice «perché si rovinano troppo in fretta».
Elena spiega che dove lavora lei l’attesa prima del tampone ultimamente è di circa un paio d’ore, e che le lungaggini sono dovute a motivi amministrativi (pratiche da stampare, etichette da mettere) più che al tempo necessario ai tamponi. Il fatto, dice, è che l’ATS da appuntamenti ogni uno o due minuti (già di per sé un ritmo difficile da sostenere), e che poi ci sono «i pazienti che ti manda il medico e, magari, tre intere classi di un asilo». Nel punto tamponi si potrebbe arrivare solo in auto (e qualcuno, infatti, arriva con un’auto a noleggio pur di fare il tampone), ma arrivano anche persone a piedi, in bicicletta o in motorino. Nonostante i problemi di gestione delle code miste tra automobili e persone con altri mezzi, si cerca di «non mandare via nessuno».
La gente magari arriva infastidita dall’attesa o infreddolita (Elena consiglia, a chi deve passare un paio d’ore in un’auto ferma in coda, di portarsi una coperta) ma comunque piuttosto a suo agio, perché essendo nella propria auto «si sente in un ambiente familiare».
I problemi maggiori, dice Elena, si hanno con chi cerca di superare la coda: sono previste corsie preferenziali per certe persone (chi ha con sé una bombola d’ossigeno che rischia di scaricarsi, per esempio, oppure invalidi o persone più evidentemente sintomatiche) ma ci sono molti casi di persone che provano a infilarcisi anche senza averne diritto. «Uno l’altro giorno mi ha detto che aveva le emorroidi» racconta Elena: «gli ho risposto che non era un problema».
Un altro caso ancora è quello di Caterina, infermiera milanese della cooperativa Nursing Project, che fa tamponi per conto del Centro Medico Santagostino, che in questi mesi ha fatto più di 33mila tamponi molecolari, il 5 per cento circa dei quali attraverso prestazioni domiciliari. Alternando i tamponi ad altre legate alla gestione di un poliambulatorio, Caterina ha fatto fin qui «50/60 tamponi domiciliari», che si aggiungono ai circa 50 al giorno che fa in sede: racconta che il suo primo tampone domiciliare è stato «circa tre mesi fa». Si reca a casa delle persone con appositi kit contenenti tutti i DPI (dispositivi di protezione individuale) previsti e i tamponi sigillati. «Al citofono spiego che non entrerò in casa» dice «e, a parte la mascherina FFP2 che ho già messo, fuori dalla porta indosso gli altri DPI e chiedo, se possibile, di aprire almeno una finestra, per far passare l’aria». Dopodiché, Caterina fa il tampone e, spiega, a volte si trovano persone che «vogliono stringerti la mano o ti invitano a fermarti per un caffè» ma, ovviamente, rifiuta sempre. Fatto il tampone e smaltite le altre pratiche, si toglie i DPI usati e li lascia a chi è stato testato, così che sia lui (o lei) a buttarli nell’indifferenziata.
Caterina dice aver fatto un massimo di sei tamponi domiciliari in un giorno, ma che ci sono colleghi che sono arrivati anche a 20. Racconta che ormai si trova ad avere a che fare con persone piuttosto esperte di tamponi e che ultimamente non c’è granché bisogno di spiegare cosa sta per fare, perché ormai quasi tutti conoscono la procedura, ma che è sempre utile specificare che il tampone «non è doloroso ma può essere fastidioso» e che «il trucco è rilassare i muscoli del viso e contare fino a cinque, che poi sarà tutto finito».
Non tutti, tra i tamponatori e le tamponatrici, raccontano di aver visto crescere le loro buste paga per via dell’attività. Qualcuno sta ricevendo un po’ di soldi in più (c’è, per esempio, una piccola indennità “malattie infettive” di poco più di 5 euro al giorno); ma spiega Draoli, «non esiste un’indennità specifica legata all’attività dei tamponi» e gli infermieri «stanno garantendo, nel loro normale contratto di lavoro, tamponi a tutta la popolazione italiana». Qualcuno fa i tamponi perché si è offerto; qualcun altro lo fa senza averlo scelto, ma solo perché c’era bisogno che qualcuno li facesse.
Ilaria – come Lorenzo specializzanda in medicina del lavoro – ricorda che a marzo, in un paio d’ore, «la stanza prelievi (ematici) in cui lavorava diventò in un giorno una stanza tamponi» e che poco dopo, fece «tutta bardata» il suo primo tampone. Da allora ha «perso il conto» e i suoi tamponi stanno nell’ordine delle migliaia, «dai neonati di sei mesi fino agli anziani con l’Alzheimer». Da allora Ilaria ha fatto «tamponi a domicilio, nelle scuole, in strutture sanitarie, nelle RSA, nei Covid Hotel e tramite il 118». La sua esperienza la racconta alle 19.30, in pausa tra una chiamata del 118 e l’altra.