Dentro il carcere il sesso non ha spazio
Perché non ci sono luoghi né norme che, come raccontano le testimonianze che abbiamo raccolto, lo rendano un vero diritto. Un nuovo disegno di legge potrebbe cambiare le cose
di Giulia Siviero
Nel 2013 l’Economist pubblicò un articolo intitolato “No laughing matter” (“Non c’è niente da ridere”) in cui denunciava il fatto che il Regno Unito non prevedesse le “visite coniugali” all’interno delle proprie carceri, diversamente da molti altri paesi d’Europa e del mondo. Anche l’Italia non ammette che le persone detenute possano avere incontri intimi consensuali con chi desiderano.
Lo scorso settembre alla Commissione Giustizia del Senato è stato assegnato un disegno di legge che introduce e regola le relazioni affettive e sessuali dentro gli istituti penitenziari: prevede il diritto ad una visita prolungata al mese, in apposite unità abitative, senza controlli audio o video. Il diritto alla sessualità nelle carceri è una questione molto seria, aperta ormai da vent’anni nel nostro paese, che rimanda a principi costituzionali e su cui ci sono pronunce autorevoli sia a livello nazionale che europeo.
«Tenere assieme cose che possono apparire impossibili»
La prima iniziativa per il riconoscimento dell’affettività e della sessualità dentro le carceri italiane risale al 1999, quando Alessandro Margara, a quel tempo direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, propose di introdurre la possibilità per le persone detenute di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno degli istituti. Il Consiglio di Stato diede però parere negativo e la soluzione venne stralciata dal testo definitivo del nuovo regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario: secondo il Consiglio di Stato spettava al legislatore il dovere di adeguare su quella specifica questione la normativa penitenziaria.
«Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà», aveva detto Margara durante l’audizione alla Commissione giustizia. Il principio che difendeva è stato ribadito da varie commissioni ministeriali, dal Comitato Nazionale di Bioetica col parere del 2013 intitolato “La salute dentro le mura”, e dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2015. Ma ci sono proposte e indicazioni molto esplicite già dalla fine degli anni Novanta da parte del Consiglio d’Europa e del Parlamento europeo; c’è la Convenzione europea dei diritti umani, che all’articolo 3 vieta i trattamenti inumani e degradanti e all’articolo 8 tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare; ci sono le raccomandazioni delle Regole penitenziarie europee del 2006 e quelle delle “Regole di Bangkok” delle Nazioni Unite del 2010.
C’è, infine, un’ampia giurisprudenza delle corti europee in merito, e ci sono le pronunce della nostra Corte Costituzionale che, nel 2012, ha parlato di «una esigenza reale e fortemente avvertita» che «merita ogni attenzione da parte del legislatore»: la questione, ha scritto, nel nostro ordinamento trova una risposta soltanto parziale ed è invece riconosciuta da un numero sempre crescente di stati. La conclusione della Corte fu, però, che «la previsione dei cosiddetti “permessi d’amore” in carcere» dovesse derivare da «una scelta parlamentare».
Negli anni sono stati presentati vari progetti di legge per il diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute, alla Camera e al Senato. E nessuno ha mai avuto seguito. Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale – organizzati nel 2015 dopo le condanne pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per i trattamenti inumani e degradanti subiti dalle persone detenute – hanno esplicitamente proposto di introdurre un nuovo istituto giuridico, quello dei “colloqui intimi”. Ma la questione è stata accantonata dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018.
Anche per questa radicata resistenza, numerosi e numerose esperte parlano di una «silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto» o fanno riferimento a un efficace e da sempre operante «dispositivo proibizionista».
«Non vi è spazio per la sessualità»
Sul sito di Antigone – associazione che si occupa di diritti delle persone detenute e che monitora le carceri italiane – si dice che nel carcere di Milano-Opera c’è un “appartamento” che in via sperimentale viene messo a disposizione a turno per gli incontri familiari. Abbiamo contattato la direzione per avere maggiori notizie e capire quali possibilità desse quello spazio, ma la risposta, via mail, è stata questa: «Il colloquio avviene con tutta la famiglia, quindi non vi è spazio per la sessualità. Buona giornata».
La legge numero 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario (riformata in alcuni passaggi nel 2018) dice che il diritto delle persone detenute alla relazione affettiva si esercita attraverso la corrispondenza epistolare, le telefonate, la preferenza per la detenzione in un istituto di pena territorialmente vicino alla residenza, i colloqui e i permessi. Tutto questo, almeno in teoria.
Il principale strumento per mantenere in presenza i rapporti affettivi è quello dei colloqui: che hanno però un tempo ridotto (di regola un’ora) e che spesso si svolgono in sale affollate e rumorose dove non è garantita la riservatezza e dove è impedito qualsiasi gesto affettuoso. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha specificato che i locali destinati ai colloqui dovrebbero favorire «ove possibile, una dimensione riservata». La legge continua a prevedere, però, che durante i colloqui sia obbligatorio e inderogabile il controllo a vista da parte degli agenti di custodia, per ragioni di sicurezza.
Svetlana, Gena, Sandra, Licia si domandano: ma chi può pensare che i colloqui bastino davvero a soddisfare il bisogno di amore di una persona detenuta? (…) La struttura carceraria prevede, indicandoli come affettività, i colloqui, ma davvero si può pensare che “il colloquio è affettività”?
Molte volte ci vergogniamo di andare al colloquio con i nostri familiari, tanto è triste e degradante il posto. L’ambiente, ovvero quella stanzetta spoglia che dovrebbe in realtà riunire un nucleo familiare o comunque delle persone accomunate da un legame di affetto, è nettamente diviso in due da un freddo “tavolaccio”. Il tavolo è abbastanza largo da costringerci a faticare per poterci tenere strette le mani. (…)
Quell’ora a settimana, in condizioni così assurde, a noi dovrebbe bastare per sopperire a tutti i nostri bisogni di affetto e alla necessità di comunicare con le nostre famiglie, o comunque con le persone a noi vicine. Senza contatti fisici, senza gesti affettuosi, senza carezze, senza un bacio, perché tutto questo non è previsto dai regolamenti. La realtà poi è ancora più cruda: del tempo consentito, quasi la metà viene trascorsa da entrambe le parti a cercare di camuffare quella sorta di imbarazzo, di disagio (…) il tempo restante è insufficiente per riuscire ad esprimere le proprie emozioni, soprattutto sotto l’occhio vigile di telecamera ed agenti. (…)
(Ristretti orizzonti, testimonianza di alcune donne recluse al carcere della Giudecca, Venezia)
La legge del 1975 prevede anche che per «coltivare interessi affettivi» siano concessi i cosiddetti permessi premio, che permettono alle persone detenute di trascorrere un breve periodo a casa. Questo “beneficio” non viene però dato con facilità e, soprattutto, riguarda una quota minoritaria di persone detenute. La soluzione al “problema” della sessualità – che costituisce una manifestazione della dimensione dell’affettività e che di fatto è rimosso anche semanticamente dalla legge – dovrebbe dunque essere compensato da eventuali parentesi extrapenitenziarie.
In uno studio spesso citato sul tema, il giurista Andrea Pugiotto spiega come la sessualità sia l’unico aspetto della vita intramuraria che non è oggetto di alcuna esplicita disciplina, legislativa o regolamentare: non esiste una norma che tratti l’argomento. Partendo da questa «apparente anomia», Pugiotto sostiene come in realtà sia da sempre al lavoro un dispositivo proibizionista, dimostrato dal fatto che solo in una dimensione extramuraria e solo per pochi possa trovare soddisfazione il diritto alla sessualità: collocando “fuori” la risposta ad un bisogno primario, il sistema penitenziario «finisce per negarlo a quella larga parte della popolazione carceraria cui de jure o de facto è preclusa la fruizione dei permessi premio».
L’apparente silenzio dell’ordinamento penitenziario sulla sessualità delle persone detenute «opera concretamente come se ne prevedesse il divieto», dice Pugiotto: «Non lo ignora semplicemente. Né lo nega soltanto. Proibendolo, lo reprime». E questo produce «diversi e profondi strappi al tessuto costituzionale»: ai diritti inviolabili della persona umana (articolo 2 della Costituzione), al diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari (articoli 29, 30 e 31), alla tutela della salute psicofisica (articolo 32) e al principio della finalità rieducativa della pena e ai suoi principi di umanità (articolo 27).
La pena corporale
La riforma penitenziaria del 1975 fu molto importante. Sostituì definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931 e i principi che lo ispiravano. Il carcere passò dall’essere un sistema basato esclusivamente su punizioni, privazioni e sofferenze ad essere un sistema con finalità rieducative e risocializzanti. Finalmente, sulla carta, la riforma mise in pratica un principio costituzionale rimasto per molto tempo inapplicato, quello contenuto nell’articolo 27 comma 3 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Il nuovo ordinamento penitenziario definì che la pena dovesse avere tra i propri obiettivi il reinserimento sociale, pose alla base del trattamento l’umanità e la dignità e riconobbe alla persona detenuta (chiamata da lì in poi per nome e cognome e non più con un numero di matricola) una propria soggettività, con diritti e aspettative che corrispondevano ai valori tutelati dalla Costituzione. Stabilì, dunque, che la perdita della libertà conseguente alla detenzione non dovesse compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano. E la sfera affettiva, anche nella sua espressione fisica, è tra i diritti inviolabili della persona, cosa che – se non fosse scontata – trova affermazione nella Costituzione, nella giurisprudenza europea e in quella di altri paesi.
Nel 2012, alcuni detenuti dal carcere di Carinola, in provincia di Caserta, scrissero un documento in cui spiegarono che solo dopo una riflessione sulle finalità della pena si potesse esprimere un giudizio obiettivo sulla questione dell’affettività e della sessualità intramuraria:
«Se la pena ha solo una funzione punitiva e retributiva, allora ci sta tutto: privazioni, sofferenze, tortura, castigo e supplizio. Se invece, le finalità che la Costituzione assegna alla pena sono da un lato quella di prevenzione generale e di difesa sociale (…) e dall’altro quella di prevenzione speciale e di risocializzazione sociale del reo, allora l’AFFETTIVITÀ in carcere è uno degli elementi fondamentali del trattamento rieducativo»
Nonostante sulla carta siano stati fissati dei principi e l’istituzione carceraria si sia evoluta, il carattere corporale della pena non è stato espulso dalle galere: il sovraffollamento (parola che è il rafforzativo di un rafforzativo e il cui tasso, dice Antigone, sfiora il 120 per cento), le condizioni igieniche precarie e l’assistenza sanitaria insufficiente (celle con il wc a vista, senza doccia, acqua calda e riscaldamento) sono esperienze che colpiscono quotidianamente i corpi di detenuti e detenute.
E poi c’è la forzata privazione sessuale, che può essere a vita nel caso dell’ergastolo, che colpisce indirettamente i partner che stanno fuori e che viene praticata sistematicamente nonostante nessuna pena la preveda. L’astinenza sessuale coatta diventa allora una vera e propria pena accessoria delle carceri italiane, si trasforma in una punizione corporale di ritorno. Muta la condanna in afflizione e la pena in penitenza.
«Siamo qui per pagare reati, mica peccati».
Secondo alcuni, l’accanimento contro la sessualità nelle carceri ha a che fare con la negazione, in generale, della sua dimensione naturale: è ridotta a vizio e peccato. Ma «noi siamo qui per pagare reati, mica peccati». L’ha detto Marta, durante una discussione su sessualità e affettività riportata su Ristretti Orizzonti, storico notiziario sul carcere. Marta era reclusa alla Giudecca, a Venezia, che un tempo era un ospizio gestito dalle suore per prostitute “redente”. Secondo altri l’accanimento potrebbe nascere «dall’inconfessato desiderio di sterilizzare chi contravviene alla norma sociale, di impedire al recluso ogni attività riproduttiva della specie, di decretarne l’espulsione dalla specie umana». Alla base di tutto, ci sarebbe dunque la nostalgica convinzione che il carcere debba essere castigo o afflizione, e che la perdita della libertà sia solo la premessa della pena. La relazione sessuale sarebbe dunque un lusso, un premio, un privilegio, non un diritto fondamentale: «Mangiano, bevono, hanno la televisione… e che cosa pretendono ancora? Anche il sesso?».
– Leggi anche: Le donne della Giudecca
«La nuda possibilità che un uomo o una donna in gabbia incontri per fare l’amore una persona che lo desideri e consenta. Sarebbe giusto? È perfino offensivo rispondere: certo che sì». Adriano Sofri ha scritto e detto molto sul diritto all’affettività e alla sessualità dentro le carceri, fin da quando la questione lo riguardava direttamente. Ma preferisce non chiamarlo un “diritto”, «un po’ perché la parola è abusata nel nostro tempo», ma soprattutto perché «impedisce di vedere che voler inibire la sessualità ai carcerati è esattamente paragonabile al volergli impedire di sgranchirsi le membra, di dormire, perfino di mangiare. La partita sul sesso in carcere mostra la concezione che una società ha del sesso, dichiarata o no, e si gioca su una contrapposizione: tra chi ritiene la sessualità una dimensione naturale e necessaria della persona, e chi la ritiene una concessione, un di più, un vizio, un peccato».
Vent’anni fa, in un articolo intitolato “Il sesso del prigioniero mandrillo”, Sofri l’aveva spiegato bene: in quanto vizio e peccato «la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo. (…) Desiderio sessuale, e amore, non sono un di più della vita umana, da far comparire e scomparire con misure regolamentari o materiali. Sono altrettanto incancellabili e naturali che il pensiero o il battito cardiaco. Forzatelo, e crescerà storto e forte come una pianta nana».
Riconoscere la possibilità di relazioni sessuali in carcere non sarebbe una concessione né l’attenuazione di una privazione: ma «una necessità finora negata della rieducazione».
«A fare i postriboli in carcere non ci sto»
Fra gli addetti penitenziari, la reazione più diffusa alla possibilità che venga riconosciuto il diritto alla sessualità è che loro non sono tenutari di bordello. Donato Capece, segretario generale SAPPE, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, ci spiega: «Io ritengo che il paese non sia pronto ad avere questo tipo di approccio. Poi è da distinguere l’affettività dalla sessualità: sul primo siamo d’accordo, sul curare i rapporti familiari per non disperdere i legami, ma a fare i postriboli in carcere non ci sto». Capece rafforza la sua argomentazione citando la posizione di alcuni detenuti di Rebbia, come già si faceva vent’anni fa, ci spiega Sofri: «Ad alcuni detenuti all’antica, sembrava un disonore portare in carcere “le loro donne”, esporle allo sguardo degli altri». Ma resta il fatto che quella di una relazione sessuale sarebbe una possibilità, di cui “liberamente” avvalersi oppure no.
Capece ha comunque altre argomentazioni laterali: «Le carceri sono sovraffollate, dovremmo costruire i monoblocchi dove consegnare la chiave al detenuto per ricevere la visita senza nessun controllo? E se succede qualsiasi fattaccio?». Chi pensa che il diritto alla sessualità non debba entrare in carcere usa molto spesso le obiezioni che hanno a che fare con l’inadeguatezza delle strutture e con i rischi per la sicurezza. Il primo argomento, per continuare a negare un diritto “sfrutta” un “problema” strutturale che già da decenni dovrebbe essere risolto (anche secondo Capece). I potenziali problemi di sicurezza sembrano poi essere stati superati – o sembrano comunque non costituire un motivo sufficiente – nei moltissimi paesi che prevedono le visite intime.
Il diritto ad una vita affettiva e sessuale in carcere è garantito in molti paesi europei (in 31 stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa), e del mondo. Si va dalla concessione di colloqui prolungati e non controllati, a modalità più complesse che prevedono specifiche strutture. In Croazia sono previsti fino a quattro colloqui al mese non sorvegliati di quattro ore con il coniuge o il partner. In Albania il regolamento penitenziario prevede otto telefonate al mese e quattro colloqui mensili di breve durata, uno dei quali può essere prolungato fino a cinque ore per le persone detenute sposate. In Norvegia, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi ci sono piccoli appartamenti in cui poter restare senza sorveglianza per un’ora; in Spagna (nella comunità autonoma della Catalogna), esiste la possibilità, due volte al mese, delle “visitas intimas” in apposite stanze non sorvegliate. Poi ci sono le “Unitès de Vie Familial” francesi, appartamenti dove si possono ricevere partner, familiari e amici per un periodo prolungato di tempo e senza controllo. E sono solo degli esempi. Ma anche al di fuori dell’area europea sono diverse le esperienze per il riconoscimento del diritto all’affettività/sessualità intramuraria. In Canada le persone detenute hanno la possibilità di incontrare le famiglie in prefabbricati che si trovano all’interno degli istituti anche per tre giorni consecutivi.
Capece suggerisce però di «preoccuparsi degli “altri” cittadini, i poliziotti penitenziari che non avendo commesso alcun reato scontano comunque una pena. Guarderei insomma ad altre problematiche» dice, «non ai capricci di qualche politico che non conosce il carcere e che lo vede con un occhio solo. Mi preoccuperei di creare strutture detentive dignitose, la sessualità non è un problema. La proposta del sindacato è che vengano dati più permessi in modo che le persone vadano dalle loro famiglie, sul territorio, piuttosto che predisporre il carcere per dar vita a questo tipo di sentimento». E aggiunge: «La sessualità va data ai soggetti meritevoli».
Il sesso che si fa in carcere
Le conseguenze negative che derivano dalla deprivazione affettiva e sessuale sono note da decenni, da quando, all’inizio degli anni Novanta, il medico francese Daniel Gonin studiò in modo dettagliato gli effetti “patogeni” della detenzione nella prigione di Lione. Ci sono moltissimi studi, ricerche e testimonianze.
Il venir meno dei legami affettivi ha un ruolo fondamentale, in tutto questo. Determina profondi cambiamenti nell’identità della persona, toglie risorse, sostegno, compromette il reinserimento sociale, produce una specie di desertificazione affettiva, relazionale e umana.
«Alla pena della reclusione a cui si è condannati si applicano pene accessorie che non vengono scritte nella sentenza, ma di fatto fanno parte della condanna (…) La persona ristretta viene fermata a livello emotivo al momento in cui entra in carcere e, venendole a mancare la possibilità di fare qualsiasi esperienza a questo livello, è abbastanza naturale che regredisca a uno stadio infantile. Quando per anni questo vuoto che si viene a creare non può essere alimentato da momenti vissuti, ma solo da fantasie, nutrite esclusivamente da percezioni raccolte attraverso la corrispondenza, le parole scritte, l’immaginazione, il vuoto diventa un buco nero. (…) Il buco nero che si viene a creare dopo anni di detenzione rende insicuri, indifesi, incapaci di gestire la parte pulsionale ed emotiva di se stessi, che finisce per essere dominata esclusivamente dall’istituzione. Invece penso che le finalità del reinserimento, oltre che nella parte pratica dell’avere un lavoro dovrebbero essere raggiunte anche attraverso la crescita complessiva della persona ristretta. (…) In fondo il carcere è una microsocietà abitata da persone, fatte della stessa sostanza di quelle che s’incontrano fuori»
«Tutte noi che siamo qui siamo dei caratteri forti, forti intellettualmente, esseri razionali, ragioniamo per esempio in questo caso delle emozioni, ma quando ci troveremo di fronte a queste emozioni che reazioni avremo? Per esempio: quando esci dal carcere e ti trovi poi davanti delle emozioni, per poco o tanto che tu ci sia stato distante, ne hai timore se non proprio paura. (…) A livello sessuale uno può avere avuto tutte le esperienze fuori, ma dopo un periodo in cui è stato recluso non è facile ricominciare una vita normale. Ma, al di là del sesso, è a livello emozionale che è un casino. Tu non sai poi relazionarti con le emozioni e ne hai già paura, come se non le conoscessi, fuori o dentro non sono le quattro mura che fanno la differenza, è la negazione, la chiusura delle relazioni quello che ti blocca. La negazione del vivere relazioni normali a qualunque livello, ecco cos’è il carcere. Vivendo recluso, senza esperienze relazionali, è ovvio che quando esci ti trovi nella merda!»
(Ristretti Orizzonti)
Come da tradizione, anche nelle carceri la negazione di una sessualità liberamente vissuta e espressa convive con la tolleranza e il silenzio verso forme di sessualità “compensative” o violente che spesso determinano sopraffazioni e coazioni.
Il contesto unisessuato del carcere può portare a forme di adattamento della propria sessualità, all’omosessualità “indotta”, così viene chiamata: non è il risultato di una libera e consapevole espressione del proprio orientamento sessuale, è legata a un processo di spersonalizzazione e rassegnazione.
L’annientamento imposto della dimensione sessuale in carcere contribuisce poi al processo di regressione e infantilizzazione delle persone detenute (fino al 2017, il modulo per le loro richieste si chiamava “domandina”). Come bambine e bambini, le persone recluse hanno una limitata libertà d’azione, sono sorvegliate a vista, perdono la capacità di autodeterminazione e l’autoerotismo viene consumato in modo non libero e secondo modalità adolescenziali:
«(…) devi pianificare tutto, l‘orario è importante, devi calcolare il tempo che la guardia passa a controllare se ci sei o se ti sei impiccato, e se è passata l‘infermiera con la terapia; poi con passo leggero, oserei dire astuto, ti guardi intorno ed entri in bagno, ti chiudi la porta per modo di dire, perché lo spioncino del bagno deve rimanere aperto per i controlli, ti sbottoni i pantaloni ed inizia la dedicata operazione ma sempre con un orecchio nel corridoio e così inizia la lotta titanica fra la voglia di concentrarsi e la paura che la guardia ti becca in flagranza… Ci sono delle guardie che sono dei sadici nel prenderti in castagna, se vedo che c’è la guardia che passa ogni cinque minuti “rinuncio” e mi faccio una camomilla o una decina di flessioni. Se tutto va bene non devi tirare l’acqua perché in una cella accanto all‘altra si sente tutto ed il tuo compagno a lato, dal tempo passato che ha sentito chiudersi la porta del bagno e da quando hai tirato lo sciacquone, si può immaginare che ti sei masturbato. E dà fastidio il pensiero che un compagno possa immaginare quando ti “fai una sega”. Insomma l’amore in carcere è difficile in tutti i sensi (…) se sei in cella in compagnia persino con tre quattro persone praticamente è impossibile, ti senti osservato da tutte le parti sia dalla parte delle guardie che dai tuoi compagni. È esperienza comune che gli attimi migliori d‘amore sono quando sei in punizione in isolamento».
(Carmelo Musumeci, nella prima delle sue tre tesi di laurea dal titolo “Vivere l’ergastolo“, 2005)
Per Sofri, «la rimozione dell’argomento può nascondere grossi disagi, fino al desiderio morboso, la fissazione maniacale, la masturbazione dolorosa fino all’autolesionismo, l’omosessualità cattiva (captiva) perché imposta e spesso violenta, la ricerca di surrogati fantastici quanto penosi. Questo panorama, che riempirebbe manuali di psicopatologia clinica, ed è l’esperienza viva di carcerati e carcerieri, mostra quanto sia gremita e attiva la cosiddetta “privazione” di una vita sessuale».
Il nuovo disegno di legge
Il disegno di legge n. 1876 interviene sulla legge 354 del 1975, e sul DPR 230 del 2000, che si occupano di ordinamento penitenziario e regolamenti.
Si propone di modificare la norma sulla frequenza e sulla durata dei colloqui telefonici, rendendoli quotidiani per tutte le persone in carcere a prescindere dal reato, e raddoppiandone la durata massima; si ridefiniscono i criteri dei cosiddetti «permessi di necessità» sostituendo il presupposto della «eccezionalità » e della «gravità» attualmente previsto con quello della «particolare rilevanza»: per riconoscere il diritto della persona detenuta a “partecipare” anche agli eventi non esclusivamente legati a morte o malattie gravissime dei familiari.
L’articolo principale del disegno di legge, il numero 1, parla di diritto all’affettività (ampliando dunque la relazione rispetto alla sola famiglia). E dice:
«Particolare cura è dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tale fine i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi».
Il testo è stato elaborato nel 2019 dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà (un’autorità di garanzia indipendente che in Italia esiste dal 2013 e che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà e di intervenire su criticità di carattere generale). È stato sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento. La Toscana, lo scorso febbraio, ha avviato l’iter.
«Tutta l’intelligenza e l’organizzazione carceraria è regolata sulla segregazione ferrata dei corpi. Sa fare questo, aprire, chiudere, sbattere: e vuole continuare a farlo. Che provi in un punto a fare altro: benvenuta». Lo scriveva Adriano Sofri già nel 1998, quando si discuteva della prima iniziativa per il riconoscimento dell’affettività e della sessualità dentro le carceri. Ma come lui stesso raccontava, gli «scrittori carcerari» hanno un vantaggio: «Non hanno bisogno, a distanza di venti, trent’anni, di aggiornare i loro componimenti».