“I cancelli del cielo”, disastro e capolavoro

Il film di Michael Cimino, uscito 40 anni fa, è un manuale degli errori che si possono commettere nel fare cinema, ma c'è chi lo ha rivalutato

Il 19 novembre 1980 il critico cinematografico Vincent Canby scrisse che I cancelli del cielo di Michael Cimino era «un inqualificabile disastro», «una nave che affonda al momento del varo». Canby – che un paio di anni prima aveva riempito di lodi Il cacciatore, il precedente film di Cimino – scrisse che I cancelli del cielo era talmente prevedibile da assomigliare a «una visita guidata di quattro ore del proprio salotto» e aggiunse: «il film è un così completo fallimento che viene il sospetto che il signor Cimino avesse deciso di vendere l’anima al diavolo pur di ottenere il successo avuto con Il cacciatore, e che poi il diavolo sia in effetti passato a reclamare il suo acquisto».

Prima di diventare l’oggetto della totale stroncatura di Canby e di una lunga serie di altri critici, prima di palesarsi come un colossale fallimento economico, prima di essere un macigno nella carriera di Cimino, prima di diventare una notevole zavorra per la casa cinematografica che lo produsse, e prima che tutto questo contribuisse a cambiare un po’ il cinema dei decenni successivi, alla fine degli anni Settanta – prima di uscire – I cancelli del cielo era stato l’ambizioso e promettente film di uno stimatissimo regista.

Arrivato a Hollywood dopo essersi occupato di spot pubblicitari, nel 1974 Cimino si era prima fatto conoscere con Una calibro 20 per lo specialista, un thriller con Clint Eastwood, e poi si era fatto apprezzare (da qualcuno, quasi venerare) per Il cacciatore, che nel 1979 aveva vinto cinque premi Oscar, compresi quelli per miglior film e miglior regia. A fine anni Settanta, dopo aver visto Il cacciatore, chiunque avrebbe voluto produrre il terzo film di Cimino: perché i primi due avevano incassato cinque e quattro volte più di quello che erano costati, e perché lui sembrava uno dei più promettenti tra quei registi-autori che si erano affermati nella New Hollywood degli anni Settanta, il decennio del Padrino, di Taxi Driver e di Apocalypse Now.

A spuntarla, tra tante case di produzione interessate, fu la United Artists, che dopo una riorganizzazione aziendale cercava un grande successo per rilanciarsi. Ricordando le fasi precedenti all’inizio delle riprese, Stephen Bach, uno dei suoi dirigenti, avrebbe scritto in seguito: «I cancelli del cielo era il nostro orgoglio. Poteva essere il nostro Lawrence d’Arabia, il nuovo Dottor Zivago, però ambientato in America, nel West».

I cancelli del cielo, sulla cui sceneggiatura Cimino lavorava dal 1971, era in effetti un western epico ambientato in Wyoming – in parte ispirato a una “guerra” della fine del Diciannovesimo secolo – che girava intorno al violento scontro, nato da alcuni furti di bestiame, tra alcuni grandi proprietari terrieri e un gruppo di contadini arrivati dall’Europa dell’est.

Nell’aprile del 1979, pochi giorni dopo la vittoria agli Oscar per Il cacciatore, iniziarono le riprese di I cancelli del cielo, il cui titolo (in inglese Heaven’s Gate) era un riferimento a una pista da pattinaggio della città di Casper, in cui è ambientata la storia. Sembra che secondo gli accordi iniziali il film sarebbe dovuto arrivare nei cinema nel dicembre di quell’anno e che avesse un budget di un po’ meno di 10 milioni di dollari. Ma sembra anche che, in virtù del suo forte potere negoziale e del fatto che allora a un regista come Cimino si tendevano a lasciare molte libertà, nel contratto ci fosse una clausola che gli concedeva considerevole autonomia nell’aumentare le spese e i giorni di ripresa. Fu anche deciso che a curare la produzione sarebbe stata Joann Carelli, molto amica di Cimino.

Già prima delle riprese, comunque, la United Artists aveva avuto modo di capire che Cimino non era disposto a scendere a compromessi. Pare infatti che quando c’era da decidere chi avrebbe interpretato la protagonista femminile, dopo che Jane Fonda e Diane Keaton avevano rifiutato la parte, Cimino si impuntò su Isabelle Huppert, una giovane attrice francese sconosciuta agli americani e ritenuta dalla produzione troppo fredda e inadatta per affiancare, tra gli altri, attori come Kris Kristofferson, Christopher Walken, John Hurt, Sam Waterston e Jeff Bridges. Ricordando in seguito quelle discussioni, Bach scrisse che Huppert era «troppo giovane, troppo francese e troppo contemporanea», e che tra l’altro i provini mostrarono che il suo inglese era elementare e incerto. Ma Cimino si impose, e Huppert fu.


Poi iniziò la produzione vera e propria: con problemi, ritardi, lentezze, incomprensioni, puntigliosità, eccessi e stramberie più volte raccontati o ricostruiti. Gran parte del film, girato su pellicola a 70 millimetri, fu fatta in Montana e in Wyoming, con set costruiti in luoghi difficili da raggiungere: per attori, troupe, figuranti e comparse ma anche, tra le altre cose, per la locomotiva d’epoca che Cimino fece arrivare da un museo di Denver, in Colorado. Cimino fece costruire quasi un’intera città, e si dice che a un certo punto, rendendosi conto che una via era troppo stretta, chiese di smontare gli edifici su entrambi i bordi della strada, così da poterla allargare, e che si oppose – non è ben chiaro perché – a chi gli proponeva di smontare solo gli edifici di un lato, così da spostare solo quelli.


Si racconta anche che spesso Cimino scegliesse di girare le sue scene alla “Magic Hour”, quei pochi minuti in cui il sole sta per tramontare ma non è ancora del tutto tramontato. E che altre volte si impuntasse, facendo rigirare decine e decine di volte scene brevissime, che nel montaggio finale sarebbero diventate giusto uno o due secondi di film.


Pare che Cimino fosse incredibilmente umorale e ostile verso ogni membro della produzione che non fosse Carelli (che a un certo punto fu sostituita in un disperato tentativo della United Artists di riprendere in mano la situazione) e che attori e comparse venissero licenziati con notevole frequenza, senza apparenti motivi. Nella sua estrema ricerca di perfezione in ogni dettaglio, Cimino dedicò grandi spese e svariate ore per assicurarsi che chiunque fosse anche solo inquadrato per un secondo, sullo sfondo, fosse capace di pattinare, cavalcare o fare tutto quello che fosse necessario fare nel film; e si dice anche che nelle scene con decine o centinaia di persone volesse scegliere lui, una per una, le comparse, posizionandole una per una nello spazio che avrebbe inquadrato. Cimino fece costruire anche un intero sistema di irrigazione per far crescere e diventare verde il prato su cui si sarebbe svolta una battaglia. Si parlò molto anche di diversi presunti casi di maltrattamenti di animali.


Ci sono diversi aneddoti anche su come Cimino divenne sempre più geloso del suo set, rendendolo sempre più un contesto chiuso, difficilmente accessibile pure agli emissari della United Artists. Molte critiche al film e molte voci sulla sua problematica produzione arrivarono tra l’altro da un articolo pubblicato dal Los Angeles Times mentre ancora le riprese erano in corso: lo aveva scritto un giornalista freelance che era riuscito a farsi assumere come comparsa, potendo così girare per il set e raccogliere gli sfoghi di diverse persone.

È difficile dire se tutti i si-dice sulla produzione di quel film siano veri, o se lo siano in parte. E spesso ci passa davvero poco tra quello che può essere un aneddoto che celebra la precisione di un regista (per esempio il noto “dettaglio dello sperone“) e un altro che lo fa diventare un ingestibile e intrattabile perfezionista. Ma è certo che, sul set del suo I cancelli del cielo, Cimino si prese moltissime libertà, sotto tanti punti di vista.

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Come conseguenza del dilatarsi dei tempi e delle tante e complicate correzioni in corso d’opera, il budget triplicò e, secondo certe versioni, le spese arrivarono fino a 44 milioni di dollari. È stato scritto che già dopo sei giorni dall’inizio delle riprese la produzione fosse di cinque giorni in ritardo rispetto alla tabella di marcia decisa all’inizio. È stato calcolato che il rapporto tra ore girate e ore effettivamente usate nel film finale fu di 60 a 1, ed è stato calcolato che la lunghezza totale delle pellicole usate per tutte le riprese fosse di circa 400 chilometri. Le riprese durarono 165 giorni e si racconta che John Hurt fece in tempo a lasciare il set, andare a girare tutto Elephant Man e poi tornare in Montana per girare altre scene per I cancelli del cielo.

Una volta finito il film, Cimino si dedicò alla post-produzione, anche questa circondata da diversi aneddoti, come il fatto che avesse delle guardie del corpo fuori dallo studio di montaggio, per evitare ai dirigenti della United Artists di entrarci. A montaggio finito, Cimino si presentò alla casa di produzione con la sua versione del film, lungo più di cinque ore, dicendo che se necessario era disposto ad accorciarlo di una quindicina di minuti. Si dice che in quella versione solo la parte della battaglia durasse circa un’ora e mezza.

La United Artists convinse Cimino a portare il film a una lunghezza di circa tre ore e mezza e il 18 novembre 1980, un paio di settimane dopo le elezioni presidenziali vinte da Ronald Reagan, il film fu presentato alla stampa a New York.


Quella di Canby non fu l’unica stroncatura. Roger Ebert parlò di un film «doloroso e spiacevole da guardare», proprio nel senso che criticò immagini, colori e lenti usate per le riprese. «Non è stato usato nemmeno un colore primario» scrisse «ci sono solo tristi e slavate tonalità seppia. È così fumoso, polveroso, annebbiato e fuori fuoco che viene voglia di passare uno sgrassatore sullo schermo». Ebert, comunque, non ce l’aveva solo con le immagini: scrisse che «svariate scene erano ridicole» e aggiunse che il grande budget del film era stato «gettato al vento» in quello che secondo lui era «il più scandaloso spreco cinematografico di sempre».

Dopo la disastrosa anteprima di New York – a cui pare che la versione tagliata arrivò per un pelo, con Cimino che aveva lavorato al montaggio fino a pochissime ore prima – e dopo che nei suoi primi giorni il film ebbe incassi scarsissimi, la United Artists decise di ritirarlo dalle sale, far calmare le acque e provare a farlo uscire alcuni mesi dopo in una nuova versione. Nell’aprile 1981 fece uscire una nuova versione di circa due ore e mezza, ma anche questa piacque pochissimo e andò malissimo, incassando circa tre milioni di dollari.

Intanto la United Artists, che con quel film sperava di rilanciarsi, era diventata una casa di produzione in crisi ed era stata comprata dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Non fu solo e tutta colpa del notevole sforamento di budget del film di Cimino, ma di certo la cosa non aiutò la situazione già critica della casa di produzione, che era stata fondata a inizio Novecento, tra gli altri, da D.W. Griffith e Charlie Chaplin.

Oltre che sulla casa di produzione, quel colossale fallimento ebbe conseguenze negative sulle carriere di alcuni suoi protagonisti e soprattutto su quella di Cimino, che in un paio di anni era passato dall’essere un regista geniale all’essere raccontato come un mezzo pazzo. Il fallimento di quel film contribuì anche a cambiare il modo in cui funzionava Hollywood (molto in breve: case di produzione più attente e registi meno liberi) e per almeno un po’ di anni dissuase qualsiasi produttore dall’investire seriamente su un film western.

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Nel 1982 Z Channel, uno dei primi canali a pagamento degli Stati Uniti, trasmise più volte una versione “originale” del film (lunga cioè più di tre ore), aiutando a dargli una prima, piccola, nuova vita tra qualche cinefilo. Nel 1985 Final Cut, il libro in cui Stephen Bach parlava diffusamente delle vicende produttive del film, diede un altro contributo: ne parlava male, ma intanto ne parlava e contribuiva ad alimentare la leggenda su quel film.


Poi, in anni più recenti, arrivarono nuove e più concrete rivalutazioni e manifestazioni di apprezzamento verso il film: Thierry Fremaux, direttore del Festival di Cannes, disse che lo si poteva considerare «l’ultimo dei grandi film dei gloriosi anni Settanta». Alberto Barbera, direttore del Festival del cinema di Venezia, che nel 2012 ne presentò una versione restaurata, lo definì «un capolavoro» e parlò del suo fallimento come di «una delle più grandi ingiustizie nella storia del cinema». Michael Epstein, direttore di Final Cut, un documentario del 2004 su I cancelli del cielo, disse: «Se fosse arrivato dall’Italia, diretto da Bertolucci o da Visconti, lo avrebbero accolto come un’opera d’arte».


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