Anche il 118 è in emergenza
Siamo entrati nella sala operativa di una delle province più colpite dalla seconda ondata, tra gli operatori investiti ogni giorno dal primo vero segnale di pericolo: le telefonate dei malati
di Isaia Invernizzi
La porta della sala operativa del 118 si apre, e le voci si confondono nel sottofondo di telefoni che squillano senza sosta. Nella centrale di Villa Guardia, a dieci chilometri da Como, gli operatori non hanno tempo di alzare gli occhi dallo schermo. Da marzo, quando l’epidemia ha sconvolto la Lombardia, hanno continuato a lavorare senza fermarsi. Era difficile immaginare che la situazione potesse peggiorare, invece è successo: da inizio novembre il 118 è di nuovo in emergenza, perché adesso è qui – tra Varese, Como e Lecco – l’epicentro della pandemia in Lombardia, e non solo. Il numero di chiamate aumenta di giorno in giorno, e se fino a qualche mese fa le persone mostravano semplice preoccupazione, adesso al telefono si avverte il timore di non farcela, di non rivedere i propri cari.
La centrale 118 di Villa Guardia è un edificio enorme a forma di “H”. Sembra un’astronave atterrata nei campi, tra la tangenziale di Como e l’autostrada chiamata “dei laghi”. “Dei laghi” è anche il nome dato alla sala operativa, che ha il compito di coordinare gli interventi di emergenza nelle province di Como, Lecco, Varese, e anche nella zona di Legnano, a nord di Milano. Quasi due milioni di persone.
Qui il silenzio è spesso interrotto dal rumore dell’elicottero che atterra e decolla più volte al giorno per raggiungere i luoghi dove è difficile arrivare in ambulanza. All’interno della sala operativa, però, anche il rombo dell’elicottero viene sovrastato dalle voci degli operatori. Codici verdi, gialli e rossi – i colori utilizzati per descrivere la gravità dei casi – si accavallano su uno schermo, accanto a un’enorme mappa che da qualche anno ha lasciato il posto ai navigatori satellitari.
I controlli per evitare focolai sono stringenti. All’ingresso e all’uscita, deve essere compilato un foglio su cui tutti scrivono condizioni di salute e temperatura corporea misurata con un termometro digitale.
Al lavoro ci sono sei tra operatrici e operatori, quattro infermieri e un medico. I turni sono stati potenziati perché, da fine ottobre, il coronavirus è tornato a colpire con forza in quest’area che era stata parzialmente risparmiata dalla prima ondata dell’epidemia. «C’è un aumento importante delle richieste di soccorso», spiega Matteo Caresani, il responsabile della sala operativa. «Di solito riceviamo circa 500 chiamate al giorno per tutte le cause. In questo periodo siamo arrivati a 850. Un aumento del 70%».
L’intervista a Matteo Caresani.
Nell’ultimo mese, Varese, Como e Lecco sono tra le province italiane che hanno registrato il maggior numero di positivi in rapporto alla popolazione. Gli ospedali si sono riempiti di malati e i posti nei reparti di terapia intensiva sono quasi finiti. I pazienti meno gravi vengono trasferiti negli ospedali delle province di Bergamo e di Brescia, che in questa fase hanno un impatto contenuto rispetto al resto della Lombardia.
Nel giro di pochi giorni, gli operatori hanno visto diminuire i codici verdi e aumentare i codici rossi e gialli. Le condizioni cliniche di chi chiama i soccorsi sono quasi sempre identiche: difficoltà respiratorie, stanchezza continua, assenza di gusto e olfatto. Insomma, i chiari sintomi del Covid-19. «Stiamo vedendo un peggioramento clinico dei pazienti. Noi non possiamo far altro che portarli negli ospedali, che però sono in difficoltà perché non riescono ad accogliere tutti», dice Caresani.
L’andamento del numero di chiamate al 118 è il primo vero segnale dell’emergenza. A differenza dall’aggiornamento quotidiano dei nuovi casi positivi, i dati degli interventi di soccorso sono considerati “puliti”: non sono condizionati dalla disponibilità dei tamponi e dalla rapidità con cui vengono elaborati. Significa che questi numeri dipendono solo dalla reale situazione sanitaria: sono più affidabili di molti altri indicatori che vengono analizzati ogni giorno.
Secondo gli ultimi dati forniti dall’agenzia regionale emergenza e urgenza, il picco sembra essere passato. È ancora presto per capire se la curva è davvero in discesa, ma dopo un’intera settimana sempre oltre i 250 interventi al giorno per motivi infettivi o respiratori, nell’ultimo weekend il livello è sceso sotto la soglia dei 200 interventi. I prossimi giorni saranno molto importanti per capire se il calo sarà confermato oppure si tratta soltanto di una pausa.
La speranza che si intravede nei dati, però, ovviamente non si riflette ancora nella situazione nelle terapie intensive. «I nostri ospedali stanno raggiungendo la saturazione, non c’è più posto», ha spiegato il sindaco di Varese, Davide Galimberti. «Da Busto Arsizio a Varese, fino a Tradate, da giorni gli ospedali sono sotto pressione, si è cercato di recuperare posti letto nei vari reparti ma siamo al limite».
A Como, invece, l’Asst Lariana – azienda socio sanitaria territoriale – ha annunciato la sospensione di tutte le visite e gli esami non urgenti. Verranno garantite solo quelle che vengono chiamate “prestazioni non differibili”, cioè chemioterapie, radioterapie, dialisi, esami e visite alle donne in gravidanza.
Per cercare di far calare la pressione sugli ospedali lombardi sono stati attivati tre “check point clinici avanzati”, cioè postazioni dove i pazienti possono essere valutati da un medico rianimatore e da due infermieri direttamente in ambulanza. Una postazione si trova a Milano in via Novara, una all’autodromo di Monza e una a Solbiate Olona, in provincia di Varese. I pazienti vengono sottoposti a un tampone rapido, con esito in 25 minuti. Alla fine della visita, se la persona è considerata non grave viene rimandata a casa, altrimenti viene ricoverata in ospedali fuori provincia. In quest’ultimo caso serve il consenso del paziente. Dopo l’allarme della settimana scorsa e gli ospedali quasi al collasso, sembra che la nuova strategia stia funzionando.
A Varese, Lecco e Como, negli ultimi dieci giorni ci sono state lunghe code di ambulanze in attesa fuori dai reparti di pronto soccorso. Simone De Benetti ha trent’anni di esperienza da soccorritore e non aveva mai visto niente di simile. Più di una volta si è trovato ad essere “in flotta”, cioè nella postazione riservata a chi decide dove inviare i mezzi di soccorso. «Se in una sola mattina lavori al doppio degli interventi rispetto a una giornata normale, capisci che la situazione è davvero al limite», spiega. «Non è più un problema di chiamate, ma di logistica e organizzazione. Ci sono stati giorni in cui, anche ad avere più ambulanze, non sarebbero bastate. Tutto si concentra negli ospedali, dove i mezzi devono attendere ore prima di concludere la missione. È ovvio che non ci possono essere ambulanze all’infinito».
Sembra di rivivere l’emergenza che ha travolto Bergamo e Brescia, anche se oggi sono tutti più pronti rispetto alla scorsa primavera. I morti sono aumentati, ma la crescita è molto lontana dai picchi toccati in marzo e aprile nelle province vicine. Gli operatori del 118 di Como sanno cosa hanno affrontato i colleghi bergamaschi, perché nei mesi dell’emergenza la sala operativa dei laghi ha dato una mano raccogliendo una parte delle migliaia di chiamate che a Bergamo non riuscivano a gestire. «Adesso al telefono sto sentendo le stesse paure che sentivo quando abbiamo collaborato con i colleghi della sala operativa di Bergamo», racconta De Benetti. «Fino a poco tempo fa quella paura non c’era. Prima il coronavirus non aveva colpito in modo così forte questa provincia. Fino a quando non si viene toccati in prima persona, non si può capire».
Aver aiutato Bergamo e Brescia è motivo di orgoglio per gli operatori del 118 di Como. Adesso, però, la stanchezza si fa sentire. L’energia non se n’è andata del tutto, ma dopo tutti questi mesi è difficile trovare la forza per sedersi in postazione e indossare le cuffie. C’è chi, dopo una chiamata emotivamente impegnativa, lascia tutto e va a farsi una camminata. Anzi, spesso sono i responsabili che invitano gli operatori a uscire per scaricare la tensione. «Il carico di lavoro si fa sentire e sta emergendo anche un senso di delusione, perché dopo tutti questi sforzi ci si aspettava qualcosa di diverso», ammette Caresani.
Al telefono non ci sono robot. Negli ultimi mesi, quindi, la figura dello psicologo è stata molto importante per superare i momenti più difficili. «In questa vita estremamente complessa, a cui noi siamo abituati, non ci era mai capitato di avere uno stress così prolungato», racconta Dario Franchi, medico e referente clinico della sala operativa. «La prima ondata ci ha sottoposto a molta tensione per due o tre mesi, e da allora non abbiamo mai abbassato il livello di attenzione. Da quando è partita la seconda ondata epidemica, stress e iperattivazione sono diventati all’ordine del giorno».
L’impegno non è solo tra le mura della centrale del 118. Anche a casa, gli operatori devono stare attenti a non commettere errori che potrebbero compromettere il lavoro di tutti. Una mascherina abbassata può portare il coronavirus nel luogo dove ogni giorno viene gestita l’emergenza. Franchi spiega che tutti hanno dovuto fare «molti sacrifici. Vediamo poco i nostri famigliari per evitare il contagio. Abbiamo la responsabilità morale di mantenere una struttura determinante, come la nostra sala operativa».
Sarà molto difficile tornare alla normalità, sempre che si possa chiamare “normalità”, dopo tutto quello che è successo. La condivisione delle esperienze con i colleghi di tutta Italia aiuterà il 118 a uscire dall’emergenza. È una risorsa in più rispetto alla prima ondata, quando tutti sono stati colti di sorpresa. «È importante scambiare idee per vedere se la direzione presa è quella giusta», continua Franchi. «Il confronto ci aiuta a fare buona medicina, anche se con una patologia nuova è difficile fare buona medicina. Non avere il senso di ignoto, di smarrimento, è già qualcosa».
Fino a oggi questo senso di ignoto è stato pagato a caro prezzo: in Lombardia sono morte migliaia di persone, e anche a mesi di distanza dalla prima ondata, ogni giorno ne continuano a morire centinaia. L’emergenza non è finita e non finirà in breve tempo. Nella sala operativa i telefoni continuano a squillare, gli operatori rispondono, e sperano che questo 2020 diventi presto solo un lontano ricordo.