Pandora sta per tornare
Negli ultimi anni i suoi braccialetti con ciondoli personalizzabili avevano annoiato, ma l'azienda danese ha reagito e ha ringiovanito la sua clientela
C’è stato un tempo in cui gli inconfondibili braccialetti di Pandora sovraccarichi di charms (cioè i ciondoli) personalizzati erano ovunque, desiderati dalle ragazzine come dalle signore di mezza età. Poi, dopo anni di successo e dominio sul mercato, la formula prese ad annoiare, si affacciarono aziende rivali e i gioielli di Pandora iniziarono a impolverarsi sui comodini. Quest’anno, dopo un piano biennale di ristrutturazione e sotto la guida di un nuovo amministratore delegato, Pandora sta rimontando nelle vendite e conquistando una nuova fascia di clienti, nonostante l’anno estremamente difficile a causa del coronavirus.
La ripresa è dimostrata dai risultati del terzo trimestre, che sono stati presentati il 3 novembre: le vendite online sono aumentate del 90 per cento e il marchio è cresciuto in cinque dei suoi sette mercati chiave, tra cui il più importante, gli Stati Uniti. Da inizio anno, il valore delle azioni è aumentato del 90 per cento ed è risultata l’azienda con il miglior risultato nell’indice azionario della Danimarca. Soprattutto, i fondi speculativi hanno smesso di scommettere contro il titolo, a cui erano interessati dal 2018: in quell’anno era crollato del 61 per cento rispetto al 2017, in cui era già diminuito del 27 per cento. È un segno importante: dalla sua entrata in borsa, nel 2010, Pandora era stato «uno dei titoli nordici più venduti, ora è diventata una delle più grandi storie di successo aziendale della regione», ha scritto il sito di moda Business of Fashion.
La storia di Pandora iniziò nel 1982 quando l’orafo Per Enevoldsen aprì una gioielleria a Copenaghen con sua moglie di allora, Winnie Enevoldsen. Compravano i gioielli in Thailandia e li rivendevano a prezzi abbastanza economici poi, dal 1987, divennero esclusivamente rivenditori all’ingrosso. Nel 1989 assunsero il primo disegnatore di gioielli e iniziarono a produrli in Thailandia: il primo fu un anello in argento. La svolta arrivò nel 2000, quando Pandora mise in commercio i braccialetti e i charms, sotto brevetto: ebbero un successo enorme, perché grazie ai prezzi contenuti consentivano quasi a chiunque di permettersi un braccialetto (ora costa da 49 euro in su) a cui aggiungere ciondoli personalizzati che potevano essere comprati in un secondo momento o ricevuti in regalo da amiche, fidanzati, nonni in svariate occasioni. Un braccialetto Pandora permetteva, in un certo senso, di esprimere la propria personalità e i propri gusti, e di avere sempre con sé qualcosa che facesse pensare a chi l’aveva regalato. Inoltre il braccialetto poteva essere modificato nel tempo, aggiungendo nuovi charmes o cambiandoli.
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L’altra idea vincente di Pandora fu di inserirsi tra la bigiotteria di fascia bassa, come per esempio quella di H&M, e le aziende di gioielli medio alte, come Swarovski e Tiffany che, pur non avendo i costi esorbitanti di un Cartier, facevano spendere parecchio. Parte del suo declino successivo si deve anche all’arrivo di oreficerie rivali, che offrono gioielli abbordabili con linee originali e che si avvalgono di Instagram per farsi pubblicità.
Nel 2005 Pandora inaugurò il primo stabilimento produttivo interamente di sua proprietà nella periferia di Bangkok e l’anno seguente aprì il suo primo concept store ad Amburgo, in Germania. Dal 2007 al 2017, quando si faceva anche la fila per entrare nei suoi negozi, le vendite aumentarono più di dieci volte, con una crescita dei ricavi fino al 15 per cento di anno in anno; divenne la terza catena di gioielli al mondo in termini di vendite, dopo Cartier e Tiffany.
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Nel 2010, Pandora entrò in borsa dopo una IPO di 2,1 miliardi di dollari (1,8 miliardi di euro attuali), nel 2011 in tutto il mondo si vendeva una media più di un suo gioiello al secondo. Nel 2016 le vendite iniziarono a calare negli Stati Uniti e in Cina, poi il 2017 fu l’ultimo anno d’oro: nel 2018 il titolo crollò in borsa e la crescita iniziò a rallentare, con un calo del 3 per cento del fatturato, pari a 3 miliardi di euro, e poi dell’8 per cento nel 2019. Nell’agosto del 2018 l’amministratore delegato Anders Colding Friis si dimise per gli scarsi risultati, a ottobre venne lanciato il programma NOW, che prevedeva una ristrutturazione radicale di due anni per riportare l’azienda in crescita. Tra le altre cose, c’erano piani per migliorare la personalizzazione, la digitalizzazione, l’e-commerce, di apertura di nuovi negozi e di riduzione di quelli in franchising, oltre al taglio di spese e di alcuni posti di lavoro.
Il programma venne preso in mano da Alexander Lacik, il nuovo amministratore delegato nominato nel febbraio del 2019 e all’opera da aprile. Lacik, svedese di 54 anni, ha una lunga esperienza nel far crescere marchi di beni di consumo a livello globale e aveva lavorato per 13 anni con diversi ruoli nella multinazionale americana Procter & Gamble. In molti attribuiscono la ripresa di Pandora alla sua energia e alla sua franchezza nell’analizzare i punti di deboli dell’azienda, a partire dal fatto che «era diventata un po’ noiosa» e che aveva «perso il contatto con i suoi clienti». Lacik riorganizzò il personale semplificando alcune posizioni e assumendo nuove figure in incarichi chiave, poi passò allo svecchiamento del marchio: ordinò un nuovo logo e nuovi colori distintivi – il grigio e il rosa – e organizzò un evento a Los Angeles con 600 ospiti per annunciare il «nuovo capitolo» dell’azienda, simboleggiato dalle strade attorno tutte dipinte di rosa brillante.
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Lacik si è impegnato anche sul fronte della pubblicità e ha assunto nuove testimonial: la cantante Shakira, le modelle Halima Aden e Georgia May Jagger, e l’attrice Millie Bobby Brown, famosa per Stranger Things. Ha migliorato l’esperienza in negozio e ha abbandonato la politica di sconti, che indeboliva il prestigio del marchio. Infine ha cercato di attirare una clientela più giovane, in particolare le adolescenti, con la linea Pandora Me – che ha charms con cuoricini, unicorni e smile –, con gli anelli con le pietre portafortuna e con le collaborazioni con Disney e Warner Bros, che hanno portato alle linee dedicate a Harry Potter, a Star Wars e ai personaggi Disney. Inoltre Lacik può contare su un sistema di produzione efficiente: gestendo le fabbriche in Thailandia direttamente, può portare rapidamente un prodotto sul mercato o fondere e riutilizzare quelli non venduti.
Nel 2015 Pandora aveva cercato di spingere anche le vendite di anelli e collane ma secondo Lacik deve restare concentrata sul suo punto di forza, cioè i braccialetti e i charms, che rappresentano il 70 per cento delle vendite: «francamente non mi importa vendere un po’ di anelli in più, per cui al momento siamo molto concentrati sui charms e i braccialetti». Lacik ha voluto mantenere la formula vincente di Pandora, la personalizzazione, rendendo l’offerta più fresca e più vicina ai desideri delle persone: serve «un marchio che dia voce a quello che le persone amano – ha spiegato – che sia quelle persone, le loro passioni o un modo per esprimersi» e ha aggiunto che «Pandora ti dà la tela, qualche pennello e un po’ di ispirazione ma alla fine sei tu a creare il quadro. Invece, non sei tu a definire Tiffany & Company: è Tiffany a definire uno spazio e tu puoi scegliere se farci parte o no. Oggi però sempre più persone, di tutte le età e provenienze, hanno voglia di risaltare sulla folla». Nel settembre del 2019, Pandora vendeva circa 100 milioni di pezzi all’anno ed era il più grande gruppo di gioielli per volume.
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I buoni risultati erano proseguiti a inizio 2020. Nei primi due mesi dell’anno le vendite stavano andando meglio del previsto, soprattutto quelle dei charms e dei braccialetti, e l’e-commerce stava ingranando. Erano aumentate le spese pubblicitarie e la presenza fisica in tutti i negozi, tranne che in Cina, dove le chiusure erano iniziate già a febbraio. A marzo chiuse l’80 per cento dei suoi 7.400 punti vendita in tutto il mondo, con gravi conseguenze, ma il mese successivo l’e-commerce aveva visto una crescita a tre cifre. Per comprendere a pieno se il lavoro di Lacik reggerà, bisognerà aspettare la fine dell’epidemia: non basterà svecchiare l’offerta e avere una nuova organizzazione, bisognerà vedere se le persone avranno voglia di comprare gioielli. Secondo una ricerca condotta ad aprile da McKinsey, i gioielli erano tra i primi prodotti che i clienti avevano intenzione di abbandonare.