Conservare il potere perdendolo, in Sud America
Alcuni leader populisti spesso rimangono influenti anche dopo essere stati sconfitti o rimossi, racconta l’Economist: l’ultimo è Evo Morales
Per i leader populisti e autoritari, un modo efficiente per mantenere il potere preservando le apparenze della democrazia è usare un prestanome. Il caso più celebre è probabilmente quello della Russia: nel 2008, Vladimir Putin aveva esaurito il limite dei due mandati consecutivi che la Costituzione russa prevedeva per i presidenti e fece candidare al posto suo il primo ministro, Dmitri Medvedev. Tra il 2008 e il 2012, Medvedev fu il presidente e Putin il primo ministro, e alle elezioni successive, grazie alla pausa di una legislatura, Putin poté candidarsi di nuovo, senza aver mai davvero perso il potere (in seguito il limite costituzionale è stato abolito). Ma la regione dove questi fenomeni si verificano con più frequenza e provocano più problemi, ha scritto l’Economist, è l’America Latina.
È successo pochi giorni fa in Bolivia, dove Evo Morales è stato presidente dal 2006 fino al novembre del 2019, quando fu costretto a fuggire dal paese dopo accuse di brogli alle elezioni e proteste molto violente che lui ha sempre descritto come un golpe. Morales è rimasto in esilio circa un anno, fino a che alle elezioni dello scorso 18 ottobre non ha vinto Luis Arce, esponente dello stesso partito di Morales e suo ex ministro delle Finanze. L’8 novembre Arce è entrato in carica, e il giorno dopo Morales era già tornato in Bolivia, accolto da una folla enorme e molto vivace.
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Durante la campagna elettorale, Arce ha detto di essere un politico indipendente, ed effettivamente nel suo governo sono pochi i ministri che possono essere descritti come fedeli a Morales. Ma è indubbio che il politico più popolare e influente, tra i due, sia l’ex presidente, e bisogna vedere se e come Morales cercherà di influenzare il governo del suo ex ministro.
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In America Latina ci sono altri ex presidenti che continuano a esercitare il potere tramite persone a loro fedeli pur non avendo cariche di governo. In Colombia Álvaro Uribe, presidente tra il 2002 e il 2010, l’ha fatto due volte: dapprima, nel 2010, sostenne l’elezione del suo ex ministro della Difesa, Juan Manuel Santos. Poco dopo la sua vittoria, però, Santos tradì la fiducia di Uribe e i due divennero oppositori politici feroci: a dividerli c’era soprattutto la decisione di Santos di aprire trattative di pace con i guerriglieri delle FARC, alla quale Uribe era molto contrario. A Uribe è andata meglio la seconda volta: nel 2018 è riuscito a far eleggere un altro suo protetto, Iván Duque, che è al governo da più di due anni e subisce in numerosi campi l’influenza del suo mentore, che nel frattempo passa guai giudiziari.
In Argentina Néstor Kirchner, presidente dal 2003 al 2007, promosse nel 2007 la candidatura di sua moglie Cristina Fernández de Kirchner (nota come Cristina Kirchner). Lei vinse le elezioni e al tempo si disse che i due progettassero di alternarsi alla presidenza per molti anni. Il progetto fu interrotto quando Néstor morì per arresto cardiaco nel 2010. Ma Cristina Kirchner rimase presidente fino al 2015. Le elezioni di quell’anno furono vinte da Mauricio Macri, politico di centrodestra e avversario di Kirchner. Ma dopo la pausa di Macri, Kirchner è tornata al potere: alle elezioni del 2019 ha sostenuto e fatto eleggere Alberto Fernández, ex capo di gabinetto sia suo sia del marito Néstor. Lei si è presa la carica di vicepresidente. Fernández è un politico con più esperienza di quanto non sia il colombiano Duque, ma rimane comunque oscurato dall’influenza di Kirchner. Quest’estate nel paese ci sono state proteste in strada dopo che il governo aveva presentato un progetto di riforma del sistema giudiziario che sembrava pensato apposta per salvare Kirchner dalle accuse di corruzione a suo carico.
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In Ecuador le cose sembrano simili alla Colombia: Rafael Correa, presidente tra il 2007 e il 2017, aveva sostenuto l’elezione nel 2017 del suo vicepresidente, Lenín Moreno, sperando di poter continuare a controllare la vita politica del paese. Moreno però si è rivoltato contro di lui, e Correa è stato costretto a fuggire in Belgio, anche per evitare processi giudiziari (è sotto accusa per non essersi presentato in tribunale durante il processo sul rapimento di un suo oppositore politico, ed è stato condannato in un’altra indagine per corruzione). Ma in Ecuador ci sono di nuovo elezioni nel 2021, e Correa ha già scelto un altro candidato: Andrés Arauz, un economista che è stato ministro nei suoi governi. Inizialmente Correa avrebbe dovuto partecipare alla campagna elettorale come candidato alla vicepresidenza, ma la commissione elettorale gliel’ha impedito perché vive all’estero. Arauz adesso dice che se vincerà le elezioni Correa non sarà il suo vicepresidente, ma il suo «principale consigliere».
In alcuni casi i tentativi di cedere il potere a persone fedeli non hanno funzionato. In Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, presidente tra il 2003 e il 2011, sostenne l’elezione di Dilma Rousseff, sua alleata, che gli rimase vicino nonostante molti dissidi, ma perse il potere nel 2016 perché fu destituita dal Parlamento controllato dall’opposizione, con una procedura di impeachment basata su accuse che poi si rivelarono infondate.
Gli accostamenti tra queste storie non vogliono metterle tutte sullo stesso piano, o equiparare leader diversi con vicende personali e politiche molto diverse: ma è un fatto che in America Latina i leader politici facciano sentire la loro influenza anche per molti anni dopo la fine dei loro governi. Questi leader forti e spesso con tendenze autoritarie che tornano al potere (o ci rimangono) tramite persone a loro fedeli hanno alcune caratteristiche comuni, nota l’Economist: hanno tutti assunto il potere all’inizio del secolo e hanno guadagnato popolarità e sostegno politico grazie a politiche di redistribuzione economica rese possibili dall’aumento dei prezzi delle materie prime e degli idrocarburi negli anni Duemila (unica eccezione è il colombiano Uribe, unico politico di destra del gruppo). Morales in Bolivia, Lula in Brasile e Correa in Ecuador hanno ridotto le disuguaglianze economiche nei loro paesi grazie alle entrate garantite dalle materie prime, mentre la propaganda argentina vuole che Nestor Kirchner fu in grado di risollevare il paese dopo la crisi a cavallo del secolo (gli esperti sono divisi). Quando il prezzo delle materie prime è crollato, la carriera politica di tutti questi leader populisti ne ha risentito, e molti hanno avuto problemi giudiziari legati a uno stile di governo che spesso sconfinava nell’autoritarismo. Ma tutti sono riusciti a rimanere molto vicini al potere, o almeno ci hanno provato, seppure con molte differenze sia in termini di efficacia sia in termini di rispetto del processo democratico.