Da dove viene il disastro della sanità in Calabria
Alla regione col peggior sistema sanitario in Italia sono bastate poche centinaia di casi per ritrovarsi in zona rossa: abbiamo provato a capire come mai
di Luca Misculin
Un vecchio proverbio latino dice che se un orologio ad acqua rimane vuoto non è mai colpa dell’ultima goccia. Con parole diverse, è lo stesso concetto che esprimono i medici e gli esperti di sanità in Calabria quando cercano di spiegare perché una regione con un numero bassissimo di morti e contagiati sia finita fra le zone rosse stabilite dal governo per limitare la diffusione della pandemia da coronavirus.
«Se l’emergenza è difficile da gestire per tutti, figuriamoci per un posto che era già in una condizione di emergenza», sintetizza un medico che lavora nel più grande ospedale della regione, il GOM di Reggio Calabria. Nelle condizioni in cui si trova il sistema sanitario regionale sono bastate poche decine di ricoverati per COVID-19 – di cui appena 26 in terapia intensiva, secondo i dati di sabato 14 novembre – per provocare un collasso del sistema ampiamente prevedibile, per chi conosce la realtà locale.
La Calabria è di gran lunga la regione italiana col peggiore sistema sanitario. È un posto dove gli anni di vita in buona salute sono in media 52,9 contro i 67,7 del Trentino-Alto Adige, l’assessorato regionale alla Salute è sotto commissariamento da prima che gli americani eleggessero Barack Obama, soggetto da anni a durissimi tagli di posti letto (diminuiti del 40 per cento fra 2000 e 2013) e personale sanitario (meno 17,1 per cento fra medici, infermieri e operatori sanitari dal 2010 al 2017). E dove l’azienda sanitaria che serve il bacino più ampio, quella di Reggio Calabria, nel 2019 è stata sciolta per infiltrazioni della criminalità organizzata e definita dagli addetti ai lavori la più indebitata d’Europa.
In Calabria mancano medici, infermieri e operatori sanitari, e quelli che ci sono fanno i salti mortali (secondo i dati più recenti vanno in ferie o in malattia in linea alla media nazionale) ma mancano anche ambulanze, consultori, studi medici. I calabresi lo sanno: nel 2016 uno su cinque si è spostato in un’altra regione per farsi ricoverare in ospedale. Ma la pandemia da coronavirus ha riportato la questione sulle prime pagine dei giornali e nei servizi dei tg: sia per la questione della “zona rossa” sia per alcune dichiarazioni dei commissari nominati dal governo nazionale. Soprattutto quelle di Saverio Cotticelli, che davanti alle telecamere del programma televisivo Titolo V è sembrato ignaro di dover elaborare un piano per potenziare i reparti COVID della regione.
Dall’inizio della pandemia a fine ottobre la Calabria è riuscita ad aggiungere soltanto 6 posti letto in terapia intensiva: ma i problemi del suo sistema sanitario sono tali e tanti che i posti letto in terapia intensiva – al momento sono occupati solo uno su sei – sono l’ultimo di una lunga serie di problemi.
«Il coronavirus non è arrivato coi barconi dei migranti, ma viaggiava in aereo in prima classe», racconta Bruno Cristiano, coordinatore della FIMGG, l’associazione di categoria dei medici di base, nella provincia di Reggio Calabria.
Come molte altre regioni del centro-sud la Calabria era stata quasi del tutto risparmiata dalla “prima ondata” di contagi. Da marzo a giugno erano stati accertati poco più di mille casi su una popolazione di due milioni di abitanti. Nelle Marche, dove vivono 1,5 milioni di persone, i casi positivi erano stati sei volte tanto. Poi era arrivata l’estate – «immagino che nessuno di noi scommetteva [sic] realmente di poter fare l’estate», diceva a luglio la presidente di regione Jole Santelli, morta improvvisamente per le conseguenze di un tumore il 15 ottobre – e con l’estate migliaia di turisti da ogni parte d’Italia. Tanto che alcuni operatori segnalavano un «boom di prenotazioni» con dati superiori all’estate del 2019.
Con una progressione osservata anche in altre regioni del centro-sud, fra agosto e settembre la curva si era alzata leggermente per poi impennarsi un paio di settimane dopo, con la riapertura delle scuole e la ripresa delle normali attività.
La prima barriera contro la diffusione del contagio, cioè l’individuazione di nuovi focolai tramite il test del tampone e le attività di contact tracing, è entrata quasi subito in difficoltà. Nonostante in poche settimane le autorità sanitarie avessero moltiplicato la capacità di elaborare tamponi passando dai 1.200 giornalieri raggiunti al picco della prima ondata ai più di 3.000 di fine ottobre, si sono registrati inciampi e ritardi che durano ancora oggi.
Cosenza ha una provincia da più di 700mila abitanti – poco più di Perugia, poco meno di Genova – eppure si appoggia a un solo laboratorio, quello dell’ospedale Annunziata. I tempi per elaborare un tampone sono talmente lunghi che il 12 novembre il Nucleo Investigativo dei carabinieri ha perquisito il laboratorio per capire come mai ci metta così tanto. A Crotone per mesi l’unico laboratorio aveva a disposizione un macchinario che funzionava solo con kit statunitensi, di cui l’amministrazione Trump ha bloccato l’esportazione. A Reggio Calabria, racconta Cristiano, «capita che i risultati dei tamponi non arrivino nemmeno: e quando noi medici di base telefoniamo al Servizio Igiene dell’Azienda Provinciale Sanitaria (ASP) ci rispondono che ogni tanto alle persone con esito negativo non forniscono i risultati».
Per quanto riguarda il tracciamento dei contatti, già alla fine di ottobre il Corriere della Calabria scriveva che fosse saltato un po’ ovunque. Alla fine della settimana scorsa il governo regionale ha annunciato che potenzierà sia le operazioni di contact tracing sia le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), che al momento sono pochissime, con 64 nuove assunzioni. Ma i problemi non finiscono qui, anzi. I più visibili riguardano le strutture più coinvolte in una fase di picco della pandemia, cioè gli ospedali.
Buona parte delle persone con cui ha parlato il Post concordano sul fatto che la principale attività dei commissari nominati dal governo centrale, che di fatto svolgono il ruolo di assessore alla Sanità, sia stata applicare i vari piani di rientro studiati per cercare di ridurre i debiti pregressi. Secondo una stima della regione nel 2007, appena prima che iniziassero i commissariamenti, ammontavano a 2,16 miliardi di euro.
Ripianare il debito ha significato soprattutto imporre tagli agli ospedali, al personale, ai posti letto, senza però sostituire l’impianto precedente del sistema. «La logica poteva anche essere giusta: chiudere i piccoli ospedali, che a volte erano distanti anche dieci chilometri l’uno dall’altro, e aprire i cosiddetti ospedali di comunità», spiega Lino Caserta, primario di gastroenterologia al Policlinico di Reggio Calabria ma soprattutto fondatore di ACE, un centro medico che fornisce prestazioni gratuite nella periferia della città. «Il problema è che gli ospedali chiusi non sono stati rimpiazzati da altro». Locri, Cariati, San Giovanni in Fiore, Polistena: la lista dei piccoli ospedali chiusi, depotenziati o semi-abbandonati nel corso degli anni è lunga.
Per ospedali di comunità si intendono strutture in cui possono lavorare sia i medici di medicina generale sia medici specializzati che garantiscono prestazioni non urgenti e fanno attività di prevenzione: ecografie, vaccini antinfluenzali e così via. Sarebbero stati importanti per ricostruire la medicina territoriale dopo anni di tagli, peraltro in una regione abitata perlopiù da anziani sparsi in migliaia di piccoli paesi. Della nascita degli ospedali di comunità si parla dal 2011, ma la riforma è ferma per ragioni non chiarissime, nonostante sulla carta sia stata approvata sia dal commissario sia dalla regione.
Il risultato è che ormai da anni per un’emergenza medica appena più grave di una caviglia slogata bisogna andare in uno dei tre grandi ospedali della regione: il GOM di Reggio Calabria, l’ospedale Pugliese di Catanzaro o l’Annunziata di Cosenza.
Essendo gli ospedali più attrezzati, sono anche gli unici ad avere personale e attrezzature adeguate per gestire i pazienti che sviluppano gravi sintomi da COVID-19. Lo fanno però con sforzi enormi e conseguenze che incidono pesantemente sulle attività ordinarie degli ospedali, tutti afflitti da problemi cronici.
Negli ospedali calabresi il problema di gran lunga più sentito riguarda il personale. In tutta la regione mancano medici, infermieri e personale sanitario. Fra tagli, pensionamenti e procedure rigidissime per le nuove assunzioni – imposte dai commissari per evitare nuovi indebitamenti e ogni sospetto di favoritismo – la quasi totalità delle strutture lavorava sotto organico già prima della pandemia, e oggi sono in condizioni ancora più difficili.
«Dopo anni di commissari e relativi blocchi delle assunzioni, i medici e il personale sanitario che hanno cambiato azienda o che sono semplicemente andati in pensione non sono stati adeguatamente sostituiti», spiega Raffaella Spagna, radioterapista oncologa del GOM di Reggio Calabria. «Nel mio reparto abbiamo tutti ore in esubero, e non sono due o tre. Parliamo di numeri che se trasformati in giornate di lavoro sarebbero pari a mesi, e questo vale probabilmente per molti altri reparti». Meno medici significa meno posti letto, liste di attesa più lunghe, visite specialistiche disponibili solo in alcune strutture: magari a decine di chilometri di distanza.
Al GOM i reparti COVID sono ancora nello “scenario 1” dei livelli di guardia: significa che finora non è stato necessario creare dal nulla decine di posti letto nei reparti di terapia intensiva e sub-intensiva, come avvenuto durante la prima ondata negli ospedali delle regioni più colpite. Eppure il centinaio di pazienti nei reparti COVID ha già inciso pesantemente sulla vita dell’ospedale. «Se sdoppi la rianimazione in un reparto COVID e in uno non-COVID, devi garantire il doppio dei rianimatori, e togliere anestesisti dalla sala operatoria e dagli altri reparti. Tutto il resto dell’ospedale si blocca», spiega un medico che lavora al GOM raccontando cosa sia successo nelle ultime settimane.
La radiologia del GOM serve sia i reparti COVID che i reparti non COVID, e dato che dà la priorità ai primi, le richieste di lastre che arrivano per i secondi sono messe in coda. Anche gli operatori sanitari che trasportano i lettini sono gli stessi, e dato che all’ingresso e all’uscita del reparto devono indossare e togliere la tuta protettiva, riescono a trasportare molte meno persone di prima. L’ambulatorio di chirurgia vascolare ha dovuto chiudere per fare spazio ai letti del reparto COVID, e i 4 chirurghi disponibili sui 10 necessari hanno sospeso le visite e lavorano solo sulle emergenze in arrivo dal Pronto Soccorso: nel quale, fra l’altro, il personale è stato potenziato con medici laureati ma non specializzati, a cui viene chiesto di fare diagnosi senza avere esperienze precedenti in corsia.
Spagna ci tiene comunque a precisare che il GOM si è mosso in maniera «impeccabile» con le forze che aveva a disposizione, isolando già a marzo un’intera ala dell’ospedale per i reparti COVID.
Spostandoci più a nord, la situazione non è molto diversa. A Vibo Valentia, una delle province meno colpite in Italia con meno di 400 casi dall’inizio della pandemia, il piccolo ospedale cittadino ha sospeso le visite specialistiche perché in caso di aumenti improvvisi non avrebbe il personale e le strutture necessarie a gestirle. La stessa cosa è successa a Cosenza, dove gli ospedali accettano solo casi urgenti e visite specialistiche per malati oncologici, cardiopatici o donne incinte. Eppure in tutta la regione – una delle meno densamente abitate in Italia, e dove la vita avviene soprattutto all’aperto: due fattori che probabilmente l’hanno tenuta più al riparo di altre – i ricoverati con sintomi da COVID-19 sono 371, di cui appena 26 nei reparti di terapia intensiva. Nelle Marche, in confronto, i ricoverati sono 558 di cui 74 in terapia intensiva.
È facile dirlo oggi, ma la sensazione è che molti di questi problemi si potevano evitare, se si fosse approvata per tempo la riforma dei cosiddetti ospedali di comunità. «A Cosenza era prevista l’apertura di 33 centri di Aggregazione Funzionale e 6 Unità Complesse di Cure Primarie», spiega Antonio d’Ingianna, coordinatore provinciale della FIMMG, usando la definizione tecnica delle nuove strutture: «significa che oggi avremmo avuto quasi quaranta centri dove fare le vaccinazioni e i test rapidi antigenici, e occuparci dei codici bianchi [cioè i malati con un basso grado di urgenza, ndr] che oggi invece devono andare in Pronto Soccorso», contribuendo a intasare gli ospedali. I centri in questione sarebbero stati presidiati dai medici di base, con assunzioni mirate a seconda delle esigenze.
Dato che quella riforma è rimasta inattuata, durante la pandemia il governo regionale e il commissario hanno concentrato i loro sforzi sull’apertura di nuove strutture. Ma senza nuove assunzioni, fanno notare in molti, non ha alcun senso né aprire nuovi reparti COVID negli ospedali meno congestionati né tantomeno costruire interi ospedali da campo, come chiesto di recente dal governo regionale.
«A Gioia Tauro, in provincia di Reggio, hanno speso un sacco di soldi per aprire un reparto COVID da 40 posti ma si sono dimenticati di medici e paramedici», racconta Pasquale Veneziano, presidente dell’Ordine dei Medici di Reggio Calabria. Veneziano si riferisce a un reparto creato in questi mesi grazie a fondi straordinari, ma rimasto praticamente inutilizzato perché l’ospedale non ha medici, infermieri o operatori sanitari necessari per farlo funzionare. L’ASP di Reggio Calabria ha pubblicato soltanto il 12 novembre una manifestazione di interesse per assumere medici e infermieri: ma non è chiaro se e quando avrà successo. Dopo le polemiche il governo regionale ha pubblicato un comunicato stampa in cui addossa tutte le colpe dei ritardi nella riorganizzazione delle strutture al commissario e ai suoi collaboratori.
Rimpalli e accuse reciproche non sono nuovi, in un sistema in cui «tutto deve passare da mille autorizzazioni», spiega Veneziano. Dal 2009 infatti della sanità calabrese si occupa il commissario ad acta, nominato dal governo centrale, che indica anche i commissari straordinari delle singole ASP, le aziende sanitarie provinciali. Ma il governo regionale ha mantenuto il potere di nominare i singoli manager nelle ASP e negli ospedali, che a loro volta nominano anche i primari dei reparti. «Quando avviene la moltiplicazione dei centri decisionali la regola è quella di raccordarli e farli parlare», spiega Titty Siciliano, un’avvocata esperta di gestione della sanità che lavora in Calabria. Spesso però la regione e lo staff del commissario hanno preso decisioni in base a logiche e priorità diverse: e l’attenzione alla sanità è rimasta presa in mezzo.
A questa confusione di partenza, nella pandemia si sono aggiunte la task force regionale guidata da Antonio Belcastro e la struttura del commissario nazionale Domenico Arcuri, incaricata per esempio di stanziare i fondi necessari per potenziare gli ospedali e sbloccare le assunzioni (per la Calabria sono stati stanziati circa 86 milioni in tutto). Arcuri ha detto più volte che i fondi sono stati messi a disposizione delle regioni, e che se non sono stati spesi la colpa è loro: ignorando però che in Calabria la sanità è di competenza del commissario, nominato dal governo centrale. Nel frattempo, dopo le dimissioni di Saverio Cotticelli e il caso nato intorno a Giuseppe Zuccatelli, la Calabria è rimasta senza commissario.
Le persone che lavorano nella sanità calabrese vivono con disincanto l’interesse nazionale per il nuovo commissario regionale, stuzzicato dal fatto che siano circolati nomi molto noti come quelli di Gino Strada e Guido Bertolaso. Nelle conversazioni sui risultati del piano di rientro e delle decine di figure indicate dal governo centrale negli ultimi undici anni, le facce e i nomi si confondono in un unico profilo: maschio, anziano, con una carriera nell’esercito alle spalle, il cui unico obiettivo è quello di risparmiare più soldi possibili per rispettare il piano di rientro, e che per timore di compromettersi o sembrare schierato si isola da tutte le altre componenti del sistema.
«L’ordine dei medici non è mai stato consultato, non ci hanno mai chiesto alcun parere», racconta Veneziano. «Un muro di gomma», è l’espressione usata da Spagna per descrivere l’atteggiamento dei commissari che si sono succeduti. Le priorità di risparmio del commissario, inoltre, sono sempre state condivise dai commissari delle singole ASP. «Nel 2019 nella provincia di Cosenza andarono in pensione diversi medici di famiglia, cosa che comportò per l’ASP locale un risparmio annuo da circa mezzo milione di euro», racconta d’Ingianna. «Chiesi allora dove fossero finiti questi soldi: mi risposero che erano stati utilizzati per il risanamento del debito». Com’è possibile rimettere in piedi un sistema sanitario se ogni euro risparmiato non viene investito meglio ma semplicemente tagliato? «È una situazione kafkiana», commenta d’Ingianna.
Non è l’unica conseguenza paradossale della logica dei tagli. In tutta la regione, ma soprattutto a Reggio Calabria, negli ultimi anni hanno aperto studi privati diversi medici specializzati che lavorano in Lombardia e nel Lazio. Dopo aver guadagnato clienti a causa delle liste d’attesa lunghissime dei pochi ospedali disponibili e di tutti gli altri problemi descritti finora, si fanno pagare cifre ingenti – si parla di 100 o 200 euro per una singola visita, su cui fra l’altro pagano le tasse alla regione di riferimento – e nei casi più gravi spingono il paziente a farsi operare negli ospedali dove sono impiegati. Col risultato che ogni anno la Calabria è costretta a rimborsare la prestazione alla Lombardia o al Lazio, aumentando i propri debiti. Nel 2018 la Calabria ha dovuto versare per questa ragione 319 milioni di euro, a fronte di un debito dell’intero sistema sanitario che si era ridotto a circa 169 milioni di euro, secondo il Sole 24 Ore.
Naturalmente le eventuali responsabilità dei commissari sono precedute da quelle che avevano reso necessaria la loro presenza: la pervasività della ‘ndrangheta, la scarsa qualità della classe politica, l’immobilismo dell’apparato burocratico e amministrativo. Problemi che non sono ancora stati risolti.
In una regione dove il 70 per cento del bilancio del governo regionale riguarda la sanità e in cui la ‘ndrangheta esercita ancora un radicato controllo del territorio, la gestione del sistema sanitario è un affare troppo grosso per passare inosservato. Del resto il più noto omicidio compiuto dalla ‘ndrangheta degli ultimi vent’anni è avvenuto nell’ambiente sanitario.
Il 16 ottobre 2005 due infermieri legati al clan di Locri, Alessandro e Giuseppe Marcianò, uccisero con cinque colpi di pistola l’allora vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno mentre stava votando alle primarie nazionali del centrosinistra. I Marcianò cercavano probabilmente di proteggere gli affari del proprio clan nelle cliniche locali (la storia è raccontata nel dettaglio nel libro Statale 106 del giornalista Antonio Talia).
Nel parere con cui nel 2018 la prefettura di Reggio Calabria chiedeva al governo di sciogliere l’azienda sanitaria provinciale per infiltrazioni della criminalità organizzata, si legge che la ‘ndrangheta fa affari soprattutto grazie agli «acquisti e alla fornitura di beni e servizi a mezzo di reiterate proroghe, rinnovi ed acquisti fiduciari […] a favore di imprenditori contigui alle consorterie criminali».
Traducendo dal legalese, significa che la ‘ndrangheta riesce a pilotare appalti e forniture verso imprenditori fidati, a volte per anni, intascandosi milioni di euro senza che lo stato riesca a farci nulla. A volte alcune aziende, approfittando della rendicontazione deficitaria del sistema sanitario e della connivenza di qualche funzionario, emettono fatture identiche che vengono riscosse più di una volta, intascando il doppio o il triplo della cifra concordata.
«Negli ultimi tre anni [a Reggio Calabria] sono stati segnalati alla Corte dei Conti circa 136 milioni di euro di danno erariale sulla spesa sanitaria», disse qualche mese fa a Presa Diretta il tenente colonnello della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, Andrea Ceccobelli.
Nel suo parere del 2018, la prefettura di Reggio Calabria aggiungeva che l’infiltrazione della ‘ndrangheta era stata resa possibile «dalla presenza di soggetti che hanno messo a disposizione delle cosche di riferimento il ruolo istituzionale ricoperto, in un’ottica di totale asservimento della funzione pubblica». E quando la politica e l’apparato burocratico non sono conniventi, sono perlomeno distratti: ci è voluto un giornalista di Rai3, ha osservato un medico calabrese, prima che qualcuno chiedesse conto al commissario Saverio Cotticelli del piano di adeguamento delle terapie intensive chiesto dal governo centrale.
In mezzo a tutto questo ci sono singole cose che funzionano, soprattutto per la buona volontà e i turni massacranti a cui si sottopone il personale sanitario. A Reggio Calabria si racconta che i tecnici dell’unico laboratorio della città che elabora i tamponi nei momenti di picco facessero turni da 20 ore, attaccando alle 6 del mattino e staccando alle 2 del giorno dopo. A Cosenza i medici di base si sono comprati a loro spese migliaia di mascherine FFP2 per poter continuare a visitare i propri pazienti, dato che l’ASP gliene aveva fornite cinque fra febbraio e settembre: meno di una al mese.
Poi ci sono i centri come l’ACE di Lino Caserta, che negli anni più trafficati ha fornito più di 20mila prestazioni sanitarie chiedendo un contributo solo a chi se lo poteva permettere, coinvolgendo medici volontari ma anche personale regolarmente stipendiato. Caserta assicura che il suo centro non è «una oasi nel deserto», e che per trovare una soluzione bisognerebbe ripartire da quello che funziona: «la nostra esperienza dimostra che si possono fare cose innovative a costo quasi zero, se siamo capaci di applicare dei modelli. E se noi riusciamo a stare in piedi facendo appello soltanto all’impegno etico, vuol dire che la nostra comunità ha risorse, idee e pensiero per trovare le soluzioni che la riguardano: senza bisogno di generali».
Anche i medici ospedalieri continuano a fare il proprio lavoro: sotto organico, fra mille difficoltà, un po’ arrabbiati e un po’ rassegnati per quello che vedono. «Non possiamo permetterci di provare sfiducia», racconta Spagna: «Siamo sempre più ostinati ad aiutare i pazienti, senza fermarci, consapevoli di essere potenzialmente veicolo di contagio per i nostri parenti più cari, nonostante i giorni di isolamento senza vedere i nostri figli aspettando l’esito del tampone. Non abbiamo molto tempo per fermarci a pensare a quale sia il nostro umore».