Lo snobismo di Parigi non è un cliché
Nel nuovo numero di The Passenger, la scrittrice Blandine Rinkel racconta la durezza e i pregiudizi della capitale francese contro la provincia
Parigi è la seconda città, dopo Berlino, ad avere un numero interamente dedicato di The Passenger, il libro-rivista sui viaggi della casa editrice Iperborea. Si apre con una riflessione dell’architetto e critico d’arte Thibaut de Ruyter sul Centro Pompidou e sulla tradizione dei presidenti francesi di regalare un grande progetto alla città; prosegue con una serie di ritratti della comunità cinese, la più numerosa d’Europa ed estremamente discriminata; continua con il racconto della rinascita dei bistrot, del fiorire del movimento dei sapeur – il dandysmo portato dagli immigrati congolesi – e con la distruzione del mito della donna parigina: bianca, benestante, eterosessuale, in tacchi alti, capelli spettinati, rossetto rosso, bici vintage e borsa di paglia.
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Tutte le foto del numero sono state scattate dalla fotoreporter Cha Gonzalez, nata a Parigi, cresciuta a Beirut, in Libano, e tornata nella capitale per studiare fotografia e videomaking. È specializzata nel racconto delle feste techno, le sue opere sono state esposte in mostre collettive e all’Institut des cultures d’islam di Parigi nel 2019 e saranno incluse in un libro per il centenario della fondazione del Libano. Ha lavorato, tra gli altri, per il Wall Street Journal, Elle, Libération e Le Monde; la si può seguire su Instagram.
I numeri di The Passenger usciti finora hanno parlato di Svezia, Turchia, India, Brasile, Berlino, Norvegia, Grecia, Portogallo, Islanda, Paesi Bassi e Giappone. Oltre che sul sito, potete seguire la rivista su Instagram, Facebook e Twitter.
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Di seguito, un estratto del racconto in cui la scrittrice e giornalista francese Blandine Rinkel racconta la ruvidezza e lo snobismo di Parigi, scoperto ogni giorno da molti turisti e vissuto da lei stessa quando, dalla provincia, si trasferì a studiare nella capitale. Rinkel collabora con le riviste Gonzaï, Citizen K e La matricule des anges, e con la radio France Inter. Il suo primo romanzo, L’abandon des prétentions, uscito nel 2017, fu selezionato per il premio Goncourt, il più importante premio letterario francese, per l’opera prima. Il suo ultimo romanzo si intolata Le nom secret des choses ed è stato pubblicato l’anno scorso.
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La sindrome di Parigi
di Blandine Rinkel
Traduzione di Ester Borgese
1
È stata un’amica a parlarmene la prima volta. In metro avevamo appena assistito a un movimento di folla violento: una donna anziana era stata calpestata sulla banchina per non essere riuscita a salire sul treno abbastanza in fretta. Davanti alle porte automatiche la gente si spintonava, si urlava addosso e, immobile in mezzo a tutto questo, la donna era caduta a terra. Poveretta.
Tra lo choc e il disincanto per questa scena comune, avevo mormorato alla mia amica: dev’essere difficile per i turisti scoprire che Parigi è così, immagino che non se lo aspettino. Sicuramente no, aveva risposto Anne. E, da brava parigina che non sa trattenersi dal fare una citazione, aveva aggiunto: sai, esiste una sindrome psichiatrica legata alla delusione che prova uno straniero quando sbarca a Parigi. Si chiama «sindrome di Parigi». È una patologia controversa in ambiente psichiatrico, aveva aggiunto, ma è interessante da un punto di vista, diciamo, letterario. Si riferisce a un insieme di disturbi accusati da alcuni viaggiatori in Francia, in particolare dai turisti giapponesi. Stati deliranti, allucinazioni, manie di persecuzione, ma anche tachicardia, sudorazione… E, davanti ai miei occhi strabuzzati, aveva riso di quel risolino che da lontano somigliava all’orgoglio, e aveva concluso: sembrerebbe proprio che scoprire Parigi sia una faticaccia.
Lo avevo trovato affascinante.
La sera stessa avevo fatto delle ricerche per saperne di più. Secondo Wikipedia, il disturbo in questione colpisce una cinquantina di persone all’anno e scaturisce dall’abisso esistente tra l’immagine idealizzata che i giapponesi hanno di Parigi e la città che invece scoprono nella realtà. Il reale, scriveva Lacan, è quando ci sbatti contro. I visitatori giapponesi avrebbero un crollo perché non hanno mai pensato alle ombre della città delle luci. Perché un’aggressione a Pigalle è per loro qualcosa d’impensabile. Perché si aspettano che tutte le donne somiglino a Audrey Tautou e gli uomini ad Alain Delon. Perché da loro nessuno getterebbe i mozziconi per strada né vi spintonerebbe sulle scale mobili.
Perché, infine e soprattutto, non si aspettano che nessuno o quasi a Parigi abbia il tempo di aiutarli a capire i cartelli, a decifrare il francese. «Se non parlate la lingua, la gente fa come se voi non esisteste» racconta una turista in un articolo al riguardo su L’Express. Non facevo fatica a immaginarlo.
O piuttosto: immaginavo la fatica. Mi rattristava anche un po’. E, a forza di rimuginare, mi rendevo conto che se questa sindrome appena evocata mi aveva colpita era perché a modo mio un tempo ne avevo sofferto io stessa.
2
Ero appena arrivata a Parigi, avevo 18 anni, avevo lasciato da poco la mia famiglia e l’infanzia. Per me era un mondo nuovo. Come gli altri 332mila studenti a Parigi (un parigino su dieci è studente), ero «salita nella capitale» per imparare e perché pensavo che lì avrei potuto mettere a frutto le letture della mia infanzia a Rezé, una piccola città dell’Ovest.
Non sapevo che la mia città sarebbe stata presto rinominata «provincia». D’altronde non conoscevo l’esistenza d questa parola che comprende tutte le città della Francia all’infuori di Parigi – e se non ricordo la prima volta che l’ho sentita, ricordo però che mi faceva ridere, tanto la trovavo vaga. Non si poteva in nessun caso racchiudere in un unico termine Lione, il Giura e il paesino bretone di Plougasnou: non aveva senso. Eppure, a Parigi ne aveva.
La cultura, qui, era una cosa ben precisa: non era quella francese nella sua integrità. Era una forma particolare che il sociologo Pierre Bourdieu, come imparavo, aveva definito «cultura legittima» e che nei concorsi delle grandes écoles si chiamava «cultura generale».
Non mi aspettavo che mi intimidisse. Non mi aspettavo di dover nascondere i miei gusti. Di vergognarmi per aver sinceramente amato le commedie musicali, Il favoloso mondo di Amélie o il talent show Star academy. Non mi aspettavo la violenza di Parigi. Né che questa città mi alienasse. Non mi aspettavo, infine, di alienarmi
io stessa.
Dai 18 ai 22 anni, scoprendo Parigi ho vissuto anni da mimo. Ho imparato a usare le espressioni «pensiero marxista», «pubblicazione in edicola», «cinema d’autore». Ho imparato non ad amare bensì a conoscere le mostre, a far finta di detestare la metro, a lamentarmi. All’università, l’imitazione è diventata presto il mio passatempo principale.
Fingevo di comprendere i testi letti a voce alta e le citazioni scagliate in aria durante gli scambi mondani che seguivano i corsi; fingevo di giorno, poi recuperavo il ritardo di notte, consultando Wikipedia fino a ore impossibili. Maurice Béjart, Simone Weil, Paul Nizan, tutti questi nomi che non avevo mai sentito li cercavo su Google e immagazzinavo le informazioni.
Il ritardo culturale era un orco mai sazio, uno di quei pozzi senza fondo che si rivelano sempre più vuoti a mano a mano che li si riempie. E più facevo lo sforzo d’imparare dati nuovi, più riuscivo a misurare fino a che punto le mie conoscenze generali fossero e sarebbero rimaste provinciali. Da intendersi: medie. Delle classi medie.