I dati della settimana sul coronavirus in Italia
I nuovi casi rallentano, ma i decessi sono ai livelli della prima metà di aprile
Negli ultimi sette giorni – tra venerdì scorso e giovedì – in Italia sono stati registrati 241.522 nuovi casi di coronavirus, un aumento del 16% rispetto alla settimana precedente. Ogni settimana che passa il numero di nuovi casi continua a essere il più alto dall’inizio dell’epidemia, ma l’incremento settimanale sta progressivamente calando: la settimana scorsa era stato del 38%, quella prima del 79%, quella prima ancora del 95%.
Il fatto che la curva dei contagi stia rallentando ha diverse cause. In parte sono gli effetti delle misure restrittive e del cambio delle abitudini che si sono verificati nell’ultimo mese, ma in parte dipende dal fatto che il tracciamento dei contatti ormai raggiunge molti meno asintomatici e anche meno casi sospetti, che non venendo sottoposti al tampone non finiscono nelle statistiche ufficiali. Questo succede sempre, ma soprattutto quando i nuovi casi quotidiani sono tanti come quelli di queste settimane.
Che la situazione dell’epidemia stia in realtà ancora peggiorando lo si vede dal grafico dei decessi, che rispetto ai contagi segue un andamento in ritardo di un paio di settimane. Negli ultimi sette giorni, i decessi sono stati 3.397, il 64% in più rispetto alla settimana prima. Negli ultimi giorni, per due volte il numero dei decessi quotidiani ha superato i 600: non succedeva dalla prima metà di aprile.
È passata una decina di giorni dal Dpcm con il quale il governo ha diviso l’Italia in tre zone con misure restrittive differenti, decidendo di fatto un lockdown più flessibile di quello della primavera in Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Calabria. Gli effetti di quelle misure non sono quindi ancora visibili – servono almeno un paio di settimane – e tantomeno quelli delle successive restrizioni decise in alcune regioni, che sono passate dalla “zona gialla” a quella “arancione” o addirittura “rossa“.
Ma è passato ormai più di un mese dalle prime misure decise per contrastare la seconda ondata di contagi, e i dati mostrano che degli effetti ci sono stati. Nel suo ultimo monitoraggio settimanale, pubblicato martedì, l’Istituto Superiore di Sanità ha calcolato che l’indice di trasmissione nazionale (Rt) al 3 novembre, riferito ai casi registrati tra il 15 e il 28 ottobre, fosse pari a 1,72. Tra inizio settembre e la metà di ottobre, Rt – che serve a stimare la velocità di diffusione del coronavirus – è salito rapidamente, passando sopra la soglia critica di 1 e quasi raddoppiando. Da un paio di settimane continua a crescere, ma meno: un probabile e importante effetto delle misure restrittive.
Ma anche se Rt cresce meno, non vuol dire che i numeri dell’epidemia siano confortanti. L’ISS rileva «una accelerazione del progressivo peggioramento dell’epidemia che si riflette in un carico di lavoro non più sostenibile dai sistemi sanitari». Sono diverse settimane che il contact tracing è stato fortemente ridimensionato in molte regioni, per l’impossibilità di stare dietro alle indagini epidemiologiche richieste da tutti i nuovi casi. Ora l’attenzione si sta concentrando sulle terapie intensive, un altro fondamentale ingranaggio della gestione dell’epidemia, che di nuovo sta riscontrando sempre più difficoltà e che in certe regioni ha già superato abbondantemente le soglie critiche avvicinandosi al collasso.
– Leggi anche: Cosa c’è intorno a un letto di terapia intensiva
Questo vale soprattutto per quelle regioni e quelle province per cui quella in corso è di fatto la prima ondata: in primavera, per via del lockdown, furono sostanzialmente escluse dalle difficoltà ospedaliere, che invece sono arrivate in autunno. È il caso dell’Umbria, della Puglia o della Campania. Le regioni per ora sotto alla soglia del 30 per cento di pazienti Covid nei reparti di terapia intensiva, considerata critica, sono Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Molise e Veneto.
– Leggi anche: In un pezzo d’Italia, questa è la prima ondata
Quelle più in difficoltà, secondo i dati elaborati dal Sole 24 Ore, sono Valle d’Aosta (80%), PA Bolzano (76%), Lombardia (75%), Piemonte (61%), Umbria (59%), PA Trento (59%), Liguria (52%), Marche (52%), Toscana (49%). Va tenuto presente che normalmente il numero di posti in terapia intensiva viene aumentato ogni giorno, e che le regioni dovrebbero avere un certo numero di posti “attivabili” in caso di emergenza.
Il dato sul tasso di positività dei tamponi – cioè su quanti risultano positivi sul totale di quelli fatti – si è assestato di poco sopra al 16%, con un accenno di stabilizzazione dopo alcune settimane in cui era cresciuto rapidamente. Anche se è un indicatore parziale, mostra che le operazioni di test continuano a concentrarsi sulle persone che già manifestano sintomi, e raggiungono sempre meno gli asintomatici.
– Leggi anche: Il tasso di positività dei tamponi, spiegato
Anche questa settimana la Lombardia è la regione che ha registrato più casi: quasi 61mila, che però sono soltanto il 10% in più rispetto ai sette giorni precedenti. I maggiori incrementi ci sono stati in Piemonte (27.474), Campania (più di 26mila) e Veneto (più di 22mila).
– Leggi anche: Quanto ci stiamo muovendo dopo il Dpcm
Le province dove i contagi registrati nelle ultime due settimane rapportati alla popolazione sono stati di più sono quella di Varese (1661 ogni 100mila abitanti), Monza e Brianza (1602), Como (1572), Milano (1486), Bolzano (1446) e Aosta (1387). Le altre in cui è riscontrata una maggiore circolazione del coronavirus sono Prato (1237), Torino (1229), Pisa (1228), Caserta (1167), Cuneo (1078) e Belluno (1072).
Questa settimana sono stati comunicati i risultati di 1.482.857 tamponi, somministrati a 869.854 persone. Secondo il rapporto dell’ISS, nel periodo tra il 19 ottobre e il primo novembre i casi di positività scoperti con le operazioni di screening – cioè con i tamponi fatti a determinate categorie considerate a rischio, come gli operatori sanitari – sono stati il 27%; quelli scoperti con il tracciamento dei contatti sono stati il 20%; quelli scoperti perché il paziente aveva sintomi il 35% (per il 18% dei casi non si sa).