Trump potrebbe restare presidente?
La risposta è no, ma questo non vuol dire che non esistano ragioni per preoccuparsi
di Francesco Costa – francescocosta
Rompendo una prassi secolare, e della quale gli statunitensi sono sempre andati particolarmente orgogliosi, il presidente Donald Trump non ha ancora riconosciuto la sconfitta subita alle elezioni dello scorso 3 novembre. Nonostante il risultato non sia in discussione, e il presidente uscente abbia anzi subìto una sconfitta più larga di quella che quattro anni fa inflisse a Hillary Clinton, Trump si considera il vincitore, accusa gli avversari di brogli e sembra voler provare ogni soluzione per restare al potere. Esistono ragioni fondate per pensare che i tentativi di Trump non andranno da nessuna parte, e che il 20 gennaio Joe Biden si insedierà come nuovo presidente: ma le conseguenze sulla democrazia americana possono essere comunque molte e gravi.
La base: com’è andata
Le elezioni americane del 2020 non si sono concluse con un risultato dubbio. Joe Biden è già sicuro di aver abbondantemente superato la maggioranza assoluta dei grandi elettori ed è il probabile vincitore anche in Georgia, con i quali arriverebbe a 306: gli stessi con cui Donald Trump vinse nel 2016 (e che all’epoca i suoi alleati e collaboratori definirono una vittoria “storica” e “a valanga”). E mentre quattro anni fa Trump vinse pur ottenendo tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton, stavolta la vittoria di Biden si accompagna a un vantaggio nel voto popolare che ha già superato i 5 milioni di voti, e che probabilmente sorpasserà i 6 milioni quando tutte le schede saranno contate.
Non esiste alcuna ragione, quindi, per fare paragoni tra le elezioni del 2020 e le elezioni contese del 2000, per esempio, che furono decise da uno scarto di poche centinaia di voti in Florida; né per considerare dubbia o controversa la vittoria di Joe Biden, che è invece inequivocabile.
Cosa succede adesso
Entro l’8 dicembre gli stati devono aver contato tutti i voti, risolto eventuali dispute legali e individuato ufficialmente un vincitore dei grandi elettori messi in palio (se ha vinto Biden, sarà la lista di grandi elettori scelta da Biden; se ha vinto Trump, sarà la lista scelta da Trump). Questo passaggio viene adottato formalmente dai congressi dei singoli stati, e poi certificato dal governatore. Il 14 dicembre i grandi elettori dei singoli stati voteranno per il candidato alla presidenza a cui sono legati. Il 6 gennaio il Congresso si riunirà e conterà i voti espressi dai grandi elettori, certificando il vincitore. Il 20 gennaio a mezzogiorno avverrà l’insediamento del nuovo presidente, e scadranno i poteri del vecchio presidente.
Ma può accadere qualcosa che alla fine porti Trump a restare comunque presidente, pur avendo perso le elezioni? Vediamolo.
I riconteggi
In nessuno degli stati in cui la vittoria di Biden è già sicura il distacco tra i due candidati è tale da far sì che un riconteggio possa realisticamente cambiare le cose; e anzi, in moltissimi di questi non è nemmeno possibile chiederlo. In Pennsylvania, per esempio, il vantaggio di Biden ha superato i 50mila voti: per chiedere un riconteggio serve che lo scarto tra i due candidati sia inferiore allo 0,5 per cento, ma Biden è avanti dello 0,8 per cento. Trump è indietro di 20mila voti in Wisconsin e qui invece potrebbe chiederlo, ma il comitato elettorale non sembra avere intenzione di farlo.
Gli altri stati in cui Trump può chiedere un riconteggio o in cui avverrà comunque – il Nevada, la Georgia, l’Arizona – sono ininfluenti ai fini del risultato finale. E bisogna tenere presente che storicamente i riconteggi spostano al massimo poche centinaia di voti, mentre Biden è in vantaggio di oltre 36mila voti in Nevada, di 14mila voti in Georgia e di 11mila voti in Arizona.
I ricorsi contro brogli e irregolarità
I pochi ricorsi presentati fin qui dal comitato elettorale di Donald Trump – che sostiene ci siano stati vastissimi brogli – non stanno andando da nessuna parte: molti sono stati già respinti, altri contestano al massimo qualche centinaio di voti, alcuni si basano su bufale circolate online. Soprattutto, gli stessi ricorsi non citano quali sarebbero questi presunti brogli. Il comitato Trump ha diritto a presentarli ma, come hanno certificato gli osservatori internazionali e ha osservato la stampa americana in tutto il paese, non esistono prove di brogli o irregolarità nelle elezioni del 2020: tantomeno di brogli vasti e organizzati abbastanza da poter spostare decine e decine di migliaia di voti in cinque stati diversi.
Come non perdere un’elezione persa
Decidere semplicemente di non andarsene, per Trump è impossibile: i suoi poteri scadono automaticamente il 20 gennaio a mezzogiorno. L’ipotesi che possa vincere abbastanza ricorsi e riconteggi da ribaltare il risultato elettorale, come abbiamo visto, è altrettanto impossibile. Un colpo di stato, poi, è tranquillamente da escludere: le forze di polizia sono controllate dai singoli stati, Trump è detestato dai militari, è largamente impopolare e senza alcun controllo sui media, ingredienti fondamentali per questo tipo di operazioni. I recenti licenziamenti al Dipartimento della Difesa si devono a regolamenti di conti e antipatie che Trump aveva notoriamente da mesi, ma che non poteva portare avanti per evitare polemiche in campagna elettorale.
C’è solo una strada teoricamente possibile, per quanto implausibile.
Trascina, trascina, trascina…
Per quanto infruttuosi, il comitato Trump potrebbe provare a presentare ricorsi e controricorsi allo scopo di ottenere due risultati possibili.
Il primo è portare queste cause fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, sperando che a quel punto possa arrivare una decisione in suo favore vista la maggioranza conservatrice dei giudici. Ma ricorsi così infondati difficilmente arrivano alla Corte Suprema, e comunque è già capitato che persino giudici nominati da Trump dessero torto alla sua amministrazione: l’idea che possano dargli ragione pur non avendo alcun elemento concreto, e per giunta non in un solo caso ma in abbastanza casi da invertire la volontà popolare, è quantomeno irrealistico.
La seconda strategia possibile sarebbe mantenere sub judice il risultato fino all’8 dicembre, quando gli stati devono scegliere i loro grandi elettori sulla base dell’esito del voto. Se l’esito del voto fosse a quella data ancora incerto, la Camera e il Senato dei singoli stati potrebbero decidere di non scegliere i grandi elettori, non partecipando alla nomina del presidente. Nessuno dei due candidati potrebbe arrivare quindi ai 270 grandi elettori: in questo scenario l’elezione sarebbe decisa da un voto della Camera, in cui ogni delegazione statale di deputati avrebbe diritto a esprimere un solo voto (un contesto che vedrebbe i Repubblicani in leggero vantaggio). Dato che tutti sono a conoscenza di questa scadenza, però, è molto implausibile che i tribunali permettano qualcosa del genere: e nel 2000 la Corte Suprema non autorizzò ulteriori riconteggi proprio per permettere alla Florida di scegliere i suoi grandi elettori.
Se l’esito del voto fosse incerto, un’altra cosa che potrebbero fare i Congressi locali sarebbe scegliere autonomamente quali grandi elettori nominare, a prescindere dall’esito del voto popolare. Sia in Wisconsin che in Michigan che in Pennsylvania il governatore è Democratico, ma il Congresso locale è controllato dai Repubblicani.
Per quanto teoricamente possibile, anche questa strada però sembra realisticamente impraticabile: i governatori potrebbero mettere il veto, il comitato Biden potrebbe fare causa (e plausibilmente vincere). Inoltre, alcuni di questi stati – come la Pennsylvania – hanno delle leggi che costringono i Congressi locali a dare i grandi elettori al candidato più votato, rendendo questo passaggio esclusivamente formale.
Secondo uno scenario ancora più estremo, poi, i Congressi locali a maggioranza Repubblicana potrebbero dare i grandi elettori a Trump pure se la vittoria di Biden nei loro stati non fosse in discussione: ma anche questa mossa sarebbe con ogni probabilità bloccata dai tribunali. Entrambi questi piani, poi, richiedono evidentemente un numero larghissimo di complici: decine e decine di deputati locali che hanno una carriera in larga parte indipendente dalla rielezione di Trump, e che rischierebbero moltissimo prendendo una decisione così controversa e contestata (“controversa” e “contestata” sono eufemismi: il livello di intensità, durezza e onnipresenza delle proteste popolari che ne seguirebbero farebbe probabilmente impallidire quanto accaduto a giugno dopo la morte di George Floyd).
È il caso di dire, infine, che quanto sopra ha senso come discussione puramente accademica, ma sul piano concreto le variabili e le cose che potrebbero andare storte sono infinite: e lo stesso Wall Street Journal – quotidiano conservatore di proprietà di Rupert Murdoch – scrive che il comitato elettorale di Trump non ha una vera strategia, e procede improvvisando giusto per far contento il presidente. L’infondatezza palese dei ricorsi del comitato Trump, poi, rende molto improbabile che possano trascinarsi così a lungo.
E se i grandi elettori alla fine scelgono chi vogliono loro?
I grandi elettori sono teoricamente liberi di votare per chi vogliono, ed è capitato in passato che uno o due di loro decidessero di votare per un candidato diverso da quello con cui erano stati scelti, ovviamente senza mai ribaltare la volontà popolare. Ma.
Perché venga ribaltata la volontà popolare in questo momento servirebbe un tradimento di oltre trenta grandi elettori, visto il vantaggio di Biden: trenta persone scelte da Biden che decidano improvvisamente di non votare più per lui. Anche se questo avvenisse, poi, è certo che la Corte Suprema interverrebbe immediatamente: qualche anno fa ha stabilito addirittura all’unanimità che sia costituzionale per i singoli stati obbligare i grandi elettori a votare per chi ottiene più voti nel loro stato, teorizzando un nesso evidente tra la volontà popolare e il voto dei grandi elettori.
Quindi bisogna stare tranquilli?
Allo stato attuale si può serenamente escludere che Trump possa restare alla Casa Bianca dopo il 20 gennaio, ma questo non vuol dire che la democrazia americana non stia attraversando una fase particolarmente delicata, se non una crisi.
La cosa di cui stiamo discutendo, infatti, è l’evidente volontà del presidente degli Stati Uniti e dei suoi alleati di ribaltare l’esito di un’elezione democratica che li ha visti sconfitti, e il fatto che soltanto le regole e le leggi gli impediscano di farlo: un fatto straordinariamente grave, e probabilmente unico nell’intera storia statunitense. Se è ragionevolmente certo che Joe Biden sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, è altrettanto probabile che un pezzo della popolazione americana rischi di considerarlo illegittimo, abusivo, prima ancora che eventualmente un presidente da contestare politicamente.
Inoltre, il mancato riconoscimento della vittoria di Biden renderà più breve del solito la transizione da un’amministrazione all’altra, e questa circostanza ha conseguenze potenzialmente pericolose. Quando si avvicendano due governi, negli Stati Uniti non cambiano solo i ministri ma la grandissima parte dei dipendenti: Biden ha bisogno di nominare migliaia di persone, e i passaggi di consegne sono tantissimi. Nel caso della sicurezza nazionale, poi, le persone scelte da Biden devono essere esaminate dall’FBI. Nel rapporto con cui il Congresso indagò sugli attentati dell’11 settembre 2001, una delle cause del fallimento dell’intelligence fu individuata nella breve transizione occorsa a causa della vicenda legale Bush-Gore.
Qual è il vero obiettivo, allora
Sul piano politico, sempre più testimonianze informate su quanto stia accadendo alla Casa Bianca raccontano di come tutti siano consapevoli della sconfitta, eccetto Trump. L’obiettivo di queste cause per lui non sarebbe restare presidente, ma creare una narrazione che gli permetta di rivendicare a vita di essere stato battuto in un’elezione truccata, e provare a lasciare la Casa Bianca senza l’etichetta dello sconfitto.
Il Partito Repubblicano non ha interesse a contraddire pubblicamente Trump su questo fronte per tre ragioni.
La prima è che la base del partito è ancora saldamente dalla parte di Trump: chiunque voglia restare o diventare deputato, senatore, sindaco o governatore con il Partito Repubblicano sa di non poter fare a meno dei voti dei sostenitori di Trump. La seconda è che il comitato elettorale di Trump e il Partito Repubblicano hanno avuto problemi di soldi in campagna elettorale, e si sono molto indebitati: le email con cui i Repubblicani stanno chiedendo fondi per le cause legali spesso servono in realtà a ripianare i debiti.
La terza ragione è che il 5 gennaio si terranno in Georgia due ballottaggi decisivi per stabilire chi avrà la maggioranza al Senato: i Repubblicani corrono il rischio che i Democratici controllino contemporaneamente la Camera, il Senato e la Casa Bianca. Riconoscere la sconfitta di Trump rischia di demotivare gli elettori del Partito Repubblicano, secondo alcuni opinionisti.