Sette cose successe nel mondo mentre guardavamo le elezioni americane
Oltre al coronavirus: l'insediamento di un presidente, le dimissioni di un altro e l'arresto di un famoso giornalista, tra le altre
La scorsa settimana i media di tutto il mondo hanno dato ampio spazio all’attesa dei risultati delle elezioni presidenziali americane, poi vinte da Joe Biden, e si sono occupati meno del solito di altre notizie. Oltre alla “seconda ondata” della pandemia da coronavirus, che in diversi paesi si sta dimostrando essere peggiore della prima, le notizie negli ultimi sette giorni non sono mancate: ha giurato un nuovo presidente, e un altro si è dimesso, è stato arrestato uno dei più noti giornalisti di una grande democrazia, e sembra poter iniziare da un momento all’altro una guerra civile in uno stato considerato stabile fino a qualche settimana fa.
Abbiamo fatto una selezione delle cose più importanti successe nel mondo mentre guardavamo le elezioni americane: sono sette.
La Polonia ha preso tempo sull’aborto
A causa delle enormi manifestazioni che vanno avanti dall’ultima settimana di ottobre, il governo polacco ha finora rimandato la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della sentenza della Corte costituzionale polacca che vieta l’aborto anche in caso di malformazione del feto. Politico ha scritto che «l’esplosione di rabbia popolare che ha accolto la sentenza che rafforza le regole sull’aborto ha scioccato il governo nazionalista polacco, e gli ha lasciato poche opzioni per uscire dalla crisi».
In altre parole, il governo guidato dal partito di destra Diritto e Giustizia (PiS) sta prendendo tempo, cercando di capire cosa fare. Il problema per Jarosław Kaczyński, leader del PiS, è che la Corte costituzionale è sotto il controllo del suo partito, e la presidente della Corte, Julia Przyłębska, è una sua amica personale: l’opzione di prendersela con il tribunale, per uscire dalla crisi, non sembra quindi praticabile, anche perché il PiS è stato grande sostenitore di regole più stringenti sull’aborto. Intanto le proteste si stanno allargando: oltre ai movimenti femministi stanno coinvolgendo attivamente studenti, organizzazioni per i diritti LGBT+, agricoltori, tassisti, conducenti di mezzi pubblici e gran parte della cosiddetta società civile, con rivendicazioni sempre più ampie.
Il presidente del Kosovo si è dimesso
Hashim Thaçi, presidente del Kosovo dal 2016, si è dimesso dopo essere stato incriminato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità da un tribunale speciale con sede a L’Aia, nei Paesi Bassi, per eventi che risalgono alla guerra di indipendenza del Kosovo contro la Serbia, tra il 1998 e il 1999. Secondo le accuse, Thaçi e altri nove ex comandanti dell’Esercito di liberazione del Kosovo avrebbero commesso, tra le altre cose, uccisioni, sparizioni forzate e torture. Sarebbero responsabili di un centinaio di omicidi di serbi, albanesi kosovari e oppositori politici.
Thaçi ha negato di avere commesso i crimini, ma in passato aveva anche detto che in caso di incriminazione si sarebbe dimesso, per proteggere l’istituzione della presidenza del Kosovo. Giovedì scorso il tribunale che l’ha incriminato, le Kosovo Specialist Chambers, ha confermato che Thaçi era arrivato a L’Aia ed era entrato nel centro di detenzione internazionale che si trova nella periferia della città. Il ruolo di presidente, che in Kosovo è per lo più cerimoniale, è stato assunto dalla speaker del parlamento, Vjosa Osmani, che nel suo primo discorso col nuovo incarico ha accusato i serbi di essere i responsabili per tutte le persone morte in guerra.
In Tanzania c’è un presidente: John Magufuli
Giovedì scorso in Tanzania c’è stata la cerimonia di giuramento di John Magufuli, rieletto presidente il 28 ottobre. Alle elezioni, il partito di Magufuli, il Chama Cha Mapinduzi (Partito della Rivoluzione), aveva ottenuto la stragrande maggioranza dei seggi parlamentari, ma era stato accusato di brogli e violenze dagli oppositori. I leader dei due principali partiti di opposizione, ACT Wazalendo e CHADEMA, erano stati arrestati per avere organizzato proteste antigovernative, chiedendo la convocazione di nuove elezioni. Giovedì Magufuli ha detto che non si presenterà per un terzo mandato, dopo che si era parlato della possibilità del partito di governo di modificare la Costituzione per permettere all’attuale presidente di rimanere al potere ancora per molti anni.
Gli ultimi sviluppi in Tanzania sono rilevanti, anche perché il paese era stato considerato per molto tempo un modello di democrazia e libertà nel continente. Secondo Deprose Muchena, dell’organizzazione Human Rights Watch, oggi la Tanzania starebbe diventando sempre più simile a paesi come lo Zimbabwe, con regime autoritari.
È stato arrestato Arnab Goswami, giornalista televisivo indiano
Mercoledì della scorsa settimana è stato arrestato in India uno dei giornalisti televisivi più famosi del paese, Arnab Goswami. Goswami, di orientamento conservatore, è stato accusato di incitamento al suicidio.
Negli ultimi anni Goswami si era fatto conoscere per avere usato toni molto duri contro i suoi oppositori e per sostenere in maniera talvolta aggressiva il governo del primo ministro nazionalista Narendra Modi. Il suo arresto potrebbe essere stato motivato dalle critiche che Goswami aveva rivolto alla polizia di Mumbai per una recente indagine di omicidio: oppure, sostengono altri, l’ordine di arrestarlo potrebbe essere arrivato dal governo dello stato del Maharashtra, dove si trova Mumbai, controllato da un partito avversario a quello di Modi. «Ciò che hanno fatto le autorità di Mumbai è simile alla pressione che altrove il governo Modi ha esercitato sui giornalisti progressisti», ha scritto il New York Times, parlando di un «generale attacco alla libertà di stampa» in corso in tutto il paese.
In Etiopia siamo vicini a una guerra civile
L’ultima settimana è stata molto agitata per l’Etiopia. Il governo centrale, guidato dal primo ministro Abiy Ahmed, vincitore del premio Nobel per la Pace nel 2019, ha praticamente dichiarato guerra al governo locale del Tigrè, regione settentrionale del paese che confina con l’Eritrea. Le tensioni tra le due parti c’erano da parecchio tempo: erano iniziate con l’esclusione del Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF), il partito dominante della regione, dal governo federale; di recente però si erano intensificate, a causa dell’attacco contro alcuni soldati federali nella caserma principale di Macallé, la capitale della regione del Tigrè (qui la storia completa).
La situazione è così grave che molti hanno parlato del rischio concreto di una guerra civile. Gli scontri militari sono già iniziati e solo in un luogo di frontiera coinvolto negli scontri, hanno detto Medici senza Frontiere, ci sarebbero stati già sei morti e 60 feriti. Circa 100 soldati del governo federale sarebbero stati sottoposti a cure mediche a causa di ferite di armi da fuoco. Domenica l’ONU ha detto che una guerra civile in Etiopia potrebbe portare a una gravissima crisi umanitaria.
Israele ha distrutto un villaggio palestinese in Cisgiordania
Giovedì della scorsa settimana Israele ha distrutto quasi completamente il villaggio palestinese di Khirbet Humsa, in Cisgiordania, lasciando senza casa 73 palestinesi, di cui 41 bambini: secondo le Nazioni Unite, è stato il più grande sfollamento forzato compiuto da Israele da diversi anni a questa parte. Tutte le strutture del villaggio – tende, rifugi per animali, bagni, pannelli solari – sono state distrutte dagli escavatori scortati da mezzi militari israeliani.
Il villaggio di Khirbet Humsa, di cui è rimasto molto poco, è una delle numerose comunità di beduini e pastori che si trovano nella Valle del Giordano, e che vengono prese di mira da operazioni militari israeliane di questo tipo. Dall’inizio dell’anno ad oggi sono state distrutte circa 700 strutture palestinesi in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est, il numero più alto mai registrato dal 2016. Le operazioni hanno lasciato senza casa 869 palestinesi.
Eta, prima uragano e poi tempesta, ha provocato molte morti in America Centrale
Durante tutta la scorsa settimana una fortissima tempesta ha provocato la morte di oltre 100 persone in diversi paesi dell’America Centrale. Eta, così è stata chiamata, era arrivata martedì nel nord-est del Nicaragua come uragano di quarta categoria (la più alta è la quinta). Nei giorni successivi l’uragano aveva attraversato tutto il nord del paese, arrivando in Honduras, provocando piogge torrenziali con conseguenti inondazioni e frane. Era stato declassato a tempesta tropicale e poi a depressione tropicale, prima di riprendere forza e tornare nuovamente tempesta tropicale.
Sabato ha provocato una frana che ha investito Quejá, un piccolo paese nel Guatemala centrale: sono ancora in corso i soccorsi, ma secondo le autorità locali potrebbero esserci almeno 125 morti. Domenica è arrivata sulla costa centro-meridionale di Cuba, dove ha già provocato tempeste e inondazioni, e poi in Florida. Non si sa ancora quante persone siano morte a causa di Eta: probabilmente ci vorranno diversi giorni per avere un bilancio finale.