Il caso che potrebbe cambiare l’economia norvegese
La Corte suprema sta esaminando dei ricorsi che potrebbero fermare l'estrazione di gas e petrolio in mare, in un paese che si regge sull'estrazione di gas e petrolio
Lo scorso mercoledì la Corte suprema della Norvegia ha iniziato a esaminare i ricorsi di alcuni gruppi ambientalisti che contestano la concessione di licenze per l’estrazione di gas e petrolio in diverse aree del mar Artico. Secondo Greenpeace e Natur og Ungdom, tra gli altri, le attività di estrazione andrebbero contro l’accordo di Parigi del 2015 che prevede la riduzione delle emissioni inquinanti, ma non solo: infatti, gli attivisti sostengono che l’assegnazione delle licenze violi la Costituzione norvegese, che garantisce il diritto a vivere in un ambiente sano e prevede la salvaguardia della natura. Il problema è che gran parte dell’economia della Norvegia dipende dall’estrazione e dall’esportazione di idrocarburi, e attorno a cosa deciderà la Corte suprema è nato un grosso dibattito economico e politico.
La causa portata avanti dalle associazioni ambientaliste è una delle più significative mai discusse in Norvegia. Alcuni media locali ne parlano come del «caso del secolo» perché riguarda il tema della tutela ambientale, ma è anche una grossa questione economica e un caso giuridico: è la prima volta che un caso riguardante problematiche ambientali solleva problemi di natura costituzionale e viene seguito da ben 15 giudici della Corte suprema.
La vicenda sta attirando l’attenzione dei giornalisti, ma anche di analisti politici, avvocati, filosofi e scienziati che si occupano di cambiamenti climatici. Il verdetto dei giudici dovrebbe arrivare alcune settimane dopo la fine delle udienze – il 12 novembre – e potrebbe condizionare fortemente il futuro dell’attività economica più redditizia del paese.
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Esmeralda Colombo, esperta di cambiamenti climatici dell’Università di Bergen, ha spiegato al New York Times che in generale la Corte suprema pende sempre in favore di soluzioni che salvaguardino l’ambiente, ma al momento è difficile fare previsioni sulla decisione finale. Hans Petter Graver, che è un professore di legge dell’Università di Oslo, ha detto che una vittoria degli ambientalisti significherebbe che la Norvegia dovrà rinunciare gradualmente all’attività di esplorazione ed estrazione di idrocarburi, che ha definito «i pilastri» dell’economia norvegese.
La Norvegia è il principale produttore di gas e petrolio dell’Europa occidentale e gran parte della sua ricchezza gira attorno a questo settore. Per dare l’idea, il 20-25 per cento del gas utilizzato in Europa viene prodotto dalla Norvegia, che è il terzo paese per l’esportazione di gas naturale dopo Russia e Qatar. I proventi ricavati dalla produzione e dall’esportazione di petrolio sono peraltro accumulati nel fondo sovrano norvegese, che è il fondo d’investimento sovrano più grande al mondo e vale più di mille miliardi di dollari (circa 850 miliardi di euro).
Le attività connesse all’estrazione e all’utilizzo degli idrocarburi, però, contribuiscono in maniera importante alla produzione di emissioni inquinanti e pertanto ad aggravare la situazione del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici.
Nel 2013 il governo norvegese aveva dato il via libera per la costruzione di impianti per la trivellazione in diverse aree del mare di Barents – la parte di mare Artico che si trova a nord della Norvegia e della Russia – e nel 2016 aveva assegnato ad alcune compagnie la licenza per l’esplorazione. I gruppi ambientalisti contestano il fatto che le licenze siano state assegnate dopo il 2014, ovvero l’anno in cui sono entrati in vigore i nuovi emendamenti della Costituzione che prevedono il diritto alla salvaguardia dell’ambiente: secondo loro, l’assegnazione delle licenze andrebbe contro ciò che sancisce la Costituzione e violerebbe quindi i diritti umani dei cittadini, così come i diritti delle generazioni future.
Oltretutto, Greenpeace sostiene che a suo tempo il ministero del Petrolio e dell’Energia norvegese avesse presentato il progetto come molto redditizio, omettendo però di segnalare i risultati di alcune indagini che avevano invece preventivato che le attività di trivellazione avrebbero comportato risultati economici discutibili, se non addirittura perdite.
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Secondo il capo di Greenpeace in Norvegia, Frode Pleym, «aprire l’Artico alle trivellazioni in questo periodo di emergenza climatica è inaccettabile». Pleym ha detto che il governo norvegese «sa che gas e petrolio contribuiscono alla crisi climatica», e che deve essere ritenuto responsabile perché approvando l’esplorazione per l’estrazione degli idrocarburi contribuisce a far aumentare le emissioni inquinanti.
Tra le altre cose, lo scorso agosto la Norvegia aveva annunciato di voler ulteriormente espandere le esplorazioni alla ricerca di gas naturale in zone ancora intatte del mare di Barents, che lo storico dell’Università di Oslo, Helge Ryggvik, ha interpretato come una risposta alla crisi del petrolio – che negli ultimi mesi è peggiorata in seguito alla pandemia da coronavirus – ma anche come un azzardo, perché l’espansione della Norvegia potrebbe essere percepita come una mossa aggressiva da parte della Russia.
Il sito di notizie The Local ha scritto che secondo il governo l’Articolo 112 della Costituzione norvegese «non vieta […] le attività che potrebbero avere conseguenze negative sull’ambiente o sul clima», ma «prevede l’obbligo che le autorità adottino misure per porre rimedio a eventuali effetti negativi». Il governo ha inoltre detto di aver compensato parte delle emissioni inquinanti con interventi in altre aree del paese.
Prima che la causa arrivasse alla Corte suprema, due tribunali locali avevano respinto la richiesta degli attivisti di invalidare le licenze per l’esplorazione. Tuttavia, entrambi avevano ritenuto legittimo il diritto dei cittadini di appellarsi all’Articolo 112 per sollecitare la questione. Tra l’altro, nell’eventualità che le richieste degli attivisti vengano accolte, la Corte dovrà chiarire se il governo norvegese dovrà essere ritenuto responsabile delle sole emissioni dovute all’estrazione degli idrocarburi, o anche di quelle prodotte dall’utilizzo di gas e petrolio esportati all’estero, che sono di gran lunga superiori rispetto a quelle prodotte nel paese.