I problemi col certificato di malattia per il COVID-19
Riguardano soprattutto i contatti stretti dei positivi: dovrebbero essere le Asl a rilasciare il certificato utile ad attivare la tutela Inps, ma non tutto funziona come dovrebbe
Nelle ultime settimane in diverse regioni si segnalano problemi e ritardi nell’emissione dei certificati di malattia per alcune categorie di persone costrette a isolarsi in quarantena per via della pandemia da coronavirus. Il problema sembra riguardare soprattutto i contatti stretti e asintomatici dei positivi accertati: una categoria di decine di migliaia di persone che secondo le norme attuali deve rispettare una quarantena di almeno dieci giorni – e quindi rimanere in casa, per legge – e ha bisogno di una giustificazione ufficiale per non presentarsi al lavoro. Negli ultimi tempi, mentre i numeri dei contagi aumentano praticamente ovunque, la giustificazione arriva con grande ritardo o non arriva mai causando grossi problemi sia ai contatti stretti sia ai loro medici di base.
La procedura prevista dal decreto legge 18 del 17 marzo 2020, poi aggiornato ad aprile, prevede che per ogni persona sottoposta a un periodo di isolamento – perché mostra sintomi compatibili col COVID-19, perché è un caso positivo accertato, perché è un contatto stretto di positivo accertato – l’azienda sanitaria locale emetta un provvedimento che dispone la quarantena, cosa che a sua volta permette al medico di base di generare un certificato di malattia e quarantena che consente alla persona sia di sospendere il proprio lavoro sia in seguito di ricevere tutte le tutele previste dall’INPS per le persone in quarantena, cioè sostanzialmente i giorni di malattia riconosciuti in busta paga.
Per i casi di sospetti sintomatici o di positivi accertati i problemi hanno a che fare soprattutto coi tempi per accertare la positività: la tutela viene emessa e arriva a destinazione a seconda dell’efficienza della regione e dell’ufficio INPS di riferimento. In caso di ritardi nella procedura il lavoratore è comunque coperto dal certificato di malattia del proprio medico di base, che certifica i sintomi oppure la positività del suo paziente.
Il collo di bottiglia riguarda i contatti stretti asintomatici di persone positive: in tempi di numeri bassi, l’ASL li rintraccia col tracciamento dei contatti, li include nell’elenco delle persone a rischio e di conseguenza emette il provvedimento della quarantena, che a sua volta consente al medico di base di certificare la malattia. Se però l’azienda sanitaria non emette il provvedimento di quarantena perché oberata dal resto del lavoro di tracciamento, sorveglianza dei contatti e programmazione dei test – come oggi capita a tantissime aziende in varie regioni – si bloccano tutti i successivi passaggi. «In questo periodo le ASL iniziano a non arrivare a tutti i casi» di contatti stretti asintomatici, spiega Nicola Calabrese, segretario provinciale di Bari dell’associazione di categoria dei medici di base (FIMMG) nonché vicepresidente nazionale: «si crea così un problema sociale per questi lavoratori che devono stare a casa ma si trovano scoperti dalle tutele dell’INPS».
Se ad esempio il marito e convivente di una donna risultata positiva non viene preso in carico dall’ASL e non riceve alcun provvedimento di quarantena, in linea teorica sarebbe libero: ma in pratica sarebbe quasi certo di avere contratto il coronavirus, e se andasse al lavoro potrebbe dare origine a un focolaio. Un ulteriore problema è dato dal fatto che, in assenza di sintomi, il suo medico curante non potrebbe emettere un certificato medico di malattia: a meno di forzare le procedure, e magari firmare un certificato “falso” che permetta al suo paziente di rimanere a casa in attesa di essere preso in carico dalla propria azienda sanitaria.
Un altro caso problematico è stato descritto oggi dal Sole 24 Ore: se a un contatto stretto viene imposta la quarantena al telefono – dall’ASL, dalla guardia medica locale, da un eventuale call center regionale – senza che venga ufficialmente preso in carico dall’ASL e sia emesso il provvedimento della quarantena, sia il datore di lavoro che il lavoratore si trovano davanti a una «impasse»: «da un lato il dipendente non può andare al lavoro, e dall’altro è privo di una certificazione».
C’è poi una ulteriore area grigia. La comunicazione numero 3653 emessa il 9 ottobre dall’INPS prevede che nel caso l’ASL disponga la quarantena nei confronti di un contatto stretto, questa persona può continuare a lavorare da casa – senza quindi ricevere alcuna tutela – «sulla base degli accordi con il proprio datore di lavoro». È una situazione in cui un lavoratore potrebbe ricevere pressioni dal datore di lavoro per lavorare da casa, quando magari non ha l’attrezzatura adatta oppure deve badare a un convivente sintomatico.
Una possibile soluzione sarebbe ridurre un passaggio e dare la possibilità agli stessi medici di base di emettere provvedimenti di quarantena, come nei giorni scorsi è stato deciso da alcune regioni fra cui il Veneto. Per dare immediatamente questo potere ai medici di base la regione li ha resi ufficiali sanitari, una figura soppressa negli anni Settanta quando quelle competenze furono assorbite dalle aziende sanitarie regionali. «Al momento però non sappiamo ancora se sia legale», spiega Maurizio Camarzi, segretario provinciale della FIMMG di Bologna: «non è chiaro se le regioni abbiano l’autorità per farlo, e non sappiamo nemmeno se sia possibile gestire una cosa del genere per via delle competenze che dovrebbero sviluppare i medici».