Per un visitatore esterno in un giorno di fine ottobre, la “hospital street”, l’enorme corridoio principale del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’ospedale che durante la prima ondata dell’epidemia da coronavirus era stato al centro del mondo, sembra essere affollata. Sembra, ma non lo è: prima che la pandemia sconvolgesse reparti, piani e umori, la “hospital street” era davvero stracolma di gente. Pazienti, accompagnatori, visitatori, si aggiravano tutti al piano terra del Papa Giovanni, come viene chiamato l’ospedale, ricco di piante e di luce che entra dalle vetrate, progettato da un architetto francese, Aymerich Zublena, che aveva in mente qualcosa di luminoso e positivo che neutralizzasse i timori verso la malattia e la sofferenza. Oggi è tutto diverso.
Gli accompagnatori possono entrare solo in circostanze eccezionali, e i visitatori per lo più non sono ammessi. Sono stati allestiti punti triage all’ingresso degli ambulatori, dove un operatore chiede a chi deve accedere per le visite di farsi misurare la temperatura, e se sia risultato positivo a un tampone, o sia un contatto di un positivo; e sono stati allestiti box riservati ai pazienti oncologici, per favorire il distanziamento con le altre persone durante l’attesa di una visita. I reparti riservati ai pazienti Covid non si vedono dal corridoio: si riconoscono dai cartelli di “ingresso vietato” appesi in bella vista sulle porte di accesso, ma sono inaccessibili a personale non autorizzato.
La direzione sanitaria ha adottato tutte queste norme per contenere la diffusione del coronavirus, per evitare focolai interni e proteggere i pazienti e il personale sanitario: finora sono state norme non estremamente invasive, lontanissime da quelle in vigore durante la prima ondata, quando tra i corridoi del Papa Giovanni c’era solo silenzio, perché l’accesso all’ospedale era vietato a tutti. Allora si sentivano solo i passi dei medici che entravano e uscivano, ha ricordato una dipendente (non sanitaria) dell’ospedale, con tutte le ansie e i timori che un’emergenza di quella portata poteva comportare.
Nei mesi di marzo e aprile i racconti dei medici e degli infermieri completamente travolti dall’arrivo di malati con gravi insufficienze respiratorie, e le immagini delle bare dei morti sui camion dell’esercito, avevano fatto il giro del mondo. L’ospedale era arrivato ad avere da solo un numero di pazienti ricoverati in terapia intensiva che avrebbe mandato in sofferenza un’intera regione italiana con risorse limitate: 100 pazienti, tutti intubati, più altri 450 ricoverati nei reparti, tra cui diversi che in situazioni normali, e con posti letto liberi, sarebbero stati a loro volta trasferiti in rianimazione.
A quei numeri, ha raccontato Luca Lorini, direttore del Dipartimento di emergenza urgenza e area critica (quindi anche delle terapie intensive), ci si era arrivati grazie a enormi risorse, maggiori di quelle di molti altri ospedali italiani, a un grande senso di responsabilità collettivo, e a un particolare modo di pensare: «Nonostante la rapidità degli eventi fosse impressionante, abbiamo una struttura che ci aiuta tantissimo, una forma mentis che ci aiuta tantissimo, un rigore che usiamo da tanti anni: tre caratteristiche che aiutano a montare e smontare velocemente il sistema. Abbiamo lavorato tutti in sintonia, come una bella orchestra: è stato complicato, non lo voglio rendere facile, però si è fatto bene».
Oggi la situazione è molto diversa. Per il momento i numeri di Bergamo permettono di non prendere decisioni drastiche.
A cavallo tra marzo e aprile, quando la capacità di individuare i positivi era enormemente ridotta rispetto a oggi, i casi positivi nella provincia di Bergamo erano una volta e mezzo quelli della provincia di Milano in relazione alla popolazione: in due settimane ne erano stati riscontrati 282 ogni 100mila abitanti. Nelle ultime due settimane nella provincia di Bergamo ne sono stati registrati 131 ogni 100mila abitanti, contro gli 834 di Milano, gli 881 di Monza e Brianza e i 760 di Varese, le tre province lombarde più colpite (questa concentrazione si vede anche nell’immagine qui sotto, che è più blu nelle zone più colpite nella seconda ondata).
Rispetto alla prima ondata, oggi l’ospedale Papa Giovanni non è più interamente destinato ai pazienti malati di Covid-19.
Attualmente i ricoverati malati di Covid-19 sono 19 in terapia intensiva, 49 fuori. L’obiettivo è rimanere «ospedale hub per tutte le patologie tempodipedenti, quindi per la cardiochirurgia, la neurochirurgia, per incidenti, bambini, politraumi, tumori: non possiamo non avere le rianimazioni», ha detto Lorini. Il piano è iniziare a ricoverare pazienti malati di Covid-19 all’ospedale da campo allestito alla Fiera di Bergamo, in modo da garantire il normale funzionamento di almeno tre delle quattro terapie intensive del Papa Giovanni.
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Nonostante i numeri apparentemente sotto controllo della provincia di Bergamo, negli ultimi mesi la situazione al Papa Giovanni non è mai tornata davvero alla normalità. Piano piano, decisioni che erano state prese in via temporanea – a partire dalla pubblicazione di annunci speciali sul sito dell’ospedale – sono diventate definitive: è come se l’emergenza si fosse “normalizzata”, almeno in parte. Oggi quelle misure servono a far fronte alla seconda ondata, che sta spingendo l’ospedale di Bergamo, così come molti altri ospedali già colpiti, a prepararsi al ritorno dell’emergenza.
C’è un’aria di attesa, tra medici, infermieri e dirigenti del Papa Giovanni, e molta preoccupazione che possa iniziare nuovamente un periodo durissimo, con le fatiche e le paure conosciute durante la prima ondata: «Si sapeva che ci sarebbe stato un ritorno, ma non ci ho mai voluto credere fino alla fine», ha detto Ave Vezzoli, infermiera coordinatrice di un reparto dedicato ai pazienti malati di Covid-19. «Indirettamente, involontariamente, oggi siamo più pronti rispetto alla scorsa primavera. L’unica cosa che spaventa è quanto durerà. E questa previsione non può farla nessuno».
La preoccupazione è grande, così come la paura che l’emergenza torni a riempire tutto, dopo la lunga e faticosa transizione estiva.
«Non è stato facile tornare all’attività ordinaria», ha raccontato Vezzoli. C’era molta stanchezza, e finita l’emergenza è stato necessario riorganizzare tutto, decontaminare gli ambienti, senza potersi mai riposare, perché le attività normali dovevano riaprire e serviva ripristinare nel più breve tempo possibile il sistema rivolto a tutti i pazienti non Covid, come per esempio i malati cronici. Per molti medici, tornare al proprio lavoro normale significava moltissime cose. Nel caso di Vezzoli, per esempio, significava sostituire il rumore dei macchinari con le voci delle persone: «Dopo un mese non mi sembrava vero: finalmente entravo nell’unità che coordino, e non mi sembrava vero non vedere la riga rossa che delimitava la parte contaminata da quella pulita. Finalmente sentivo le voci. Non più solo i fischi delle CPAP [un tipo di ventilatori polmonari, ndr] e nessuno che parlava».
L’esperienza della prima ondata, il successivo ritorno alla normalità e ora l’attesa di un probabile nuovo significativo aumento di ricoveri, hanno reso l’ospedale di Bergamo un posto speciale: un posto che a detta di diversi medici e infermieri sentiti dal Post ha guadagnato molto in competenze, sia organizzative che mediche, ma potrebbe avere perso in energie.
Da una parte, l’esperienza ha prodotto maggiore consapevolezza: oggi si sa a cosa si va incontro, se anche a Bergamo la situazione dovesse peggiorare notevolmente, e si sa di avere molte più competenze rispetto al passato. Per settimane, durante le fasi iniziali della prima ondata, la direzione dell’ospedale di Bergamo aveva garantito corsi di formazione al personale sanitario che era stato dirottato nei reparti dei malati Covid, nonostante non avesse le competenze per trattare pazienti così complessi. Quegli insegnamenti sono rimasti: ci sono più operatori che sanno gestire i caschi CPAP, per esempio, e più rianimatori e infermieri di terapia intensiva che sanno pronare un paziente, riuscendo alla stesso tempo a intervenire su eventuali complicanze. Si è capito qualcosa di più anche sulla ventilazione, uno dei maggiori problemi a livello di trattamento clinico affrontato dai medici durante la prima ondata.
«Abbiamo imparato che è molto importante restare fermi», ha raccontato Gianmario Bortolotti, anestesista rianimatore dell’ospedale di Bergamo, con 35 anni di esperienza: «La spinta che c’è di fronte a un paziente che non va come vorremmo, che è modificare, tentare, cambiare – ed è assolutamente naturale – in questo caso ci ha fatto capire che non sempre produce risultati e che a volte accontentarsi di quello che si ha, e lasciare che la malattia faccia il suo corso anche verso un recupero, può essere una soluzione più utile».
Dall’altra parte, la prima ondata ha prosciugato molte energie e oggi la preoccupazione è che ne siano rimaste poche per i mesi che verranno: come se uno si preparasse per correre i 100 metri, e poi scoprisse di dover fare una gara di fondo. Gli sforzi straordinari esercitati dal personale dell’ospedale durante la prima ondata erano, per l’appunto, straordinari: nel lungo periodo non possono diventare la regola.
Bortolotti ha raccontato che la prima ondata era stata una «botta fortissima», ma che il fatto di non conoscere quello che si aveva di fronte, e l’illusione che ci potessero essere soluzioni dietro l’angolo, aveva creato un’intensa «energia di risposta». Si era vista in particolare una forte «capacità di fare gruppo tra tutti i colleghi», ma in generale tra tutti: amministrativi, medici, infermieri, specializzandi, ma anche esterni molto coinvolti nella vita quotidiana del Papa Giovanni, come ha raccontato Mirko Panattoni, il gestore del ristorante e dei bar dell’ospedale.
Il problema, ha detto Bortolotti, è che quel tipo di energia oggi potrebbe essere difficile da ritrovare, perché si è visto che la soluzione dietro l’angolo non c’è, così come non c’è la capacità di curare i malati in tempi brevi: «Si sa che si entra in uno scenario che si conosce: si conosce per la pesantezza, per la pericolosità, per tutto quello che è successo nella prima ondata; ecco, io penso che per l’ospedale questo potrebbe essere un problema».
«Oggi c’è una maggiore sicurezza dal punto di vista medico, il trattamento di questi pazienti si è un po’ standardizzato», ha detto un’anestesista specializzanda che ha preferito rimanere anonima, assunta dall’ospedale di Bergamo con i contratti Covid: «Ma siamo stanchi, siamo provati dalla prima ondata. All’inizio dicevamo: magari sarà così per un mese, poi inizieremo a tirare il fiato, riapriranno tutto. Adesso sappiamo che potrebbero aspettarci mesi di chiusure. Però credo che alla fine le energie verranno, da qualche parte devono venire».
L’impatto emotivo della prima ondata – ma anche la stanchezza per avere fatto turni molto più pesanti della norma, e il fatto di avere dovuto lavorare ogni giorno bardati dalla testa ai piedi con i dispositivi di protezione individuale – ha provocato conseguenze che continuano a esistere ancora oggi, anche se poco raccontate: per esempio gli effetti psicologici dell’aver vissuto mesi pieni di paure, per sé e per le proprie famiglie, di incertezze sul futuro. Molti medici e infermieri si sono trovati da un giorno all’altro ad affrontare pazienti gravissimi, con una intensità e frequenza che non avevano mai sperimentato nella loro vita professionale: per esempio gli infermieri che per anni avevano prestato servizio solo negli ambulatori, o i medici cardiologi, radiologi, chirurghi plastici.
Sono le stesse esperienze che stanno affrontando oggi moltissimi operatori sanitari di altri ospedali, di altre regioni, costretti a fare un lavoro diverso dal loro e molto spesso impreparati a trattare con i familiari di pazienti gravi, o familiari di pazienti morti.
Durante e dopo il picco dell’epidemia diversi ospedali colpiti, tra cui il Papa Giovanni, avevano messo a disposizione del proprio personale alcuni servizi gratuiti di sostegno psicologico. È difficile dire quante persone ne abbiano usufruito, ma l’impressione, parlando con medici e infermieri, è che non siano state troppe.
Secondo Bortolotti, il tema della pressione individuale subita dagli operatori sanitari durante l’emergenza è stato dimenticato. Una soluzione avrebbe potuto essere quella di rendere obbligatori certi percorsi psicologici, costringere tutti ad affrontare gli effetti dell’emergenza: «Non occuparsi di questo, non considerarlo un problema, secondo me è un grosso errore, una visione “disumana” della professione. […] È culturalmente difficile che il sanitario – e parlo soprattutto del medico, meno degli infermieri – ammetta di avere bisogno di essere aiutato. C’è ancora una visione un po’ antica, superata, per cui bisogna essere al di sopra di queste cose, ma è una visione completamente illusoria: si è dentro nelle cose, non si è sopra».
Oggi l’ospedale di Bergamo è tornato a lavorare in una situazione di semi-normalità, con gli ambulatori aperti, le sale operatorie funzionanti e quasi tutti i reparti “puliti”, senza pazienti positivi al coronavirus. Lorini, così come altri suoi colleghi, continua a ricevere telefonate da medici italiani e di altri paesi del mondo, che chiedono consigli sulle linee guida da applicare per trattare i pazienti più gravi malati di Covid-19. Anche lui, come i medici e gli infermieri del suo ospedale, non vorrebbe in nessun modo tornare indietro ai mesi dell’emergenza, perché potrebbe iniziare un periodo ancora più duro da un punto di vista psicologico: «È faticoso, è più faticoso della prima volta. Perché sappiamo quello che ci aspetta».
Da qualche settimana i numeri hanno iniziato a salire e la direzione sanitaria si è già trovata a prendere decisioni importanti sulla gestione delle terapie intensive e sulla graduale riapertura di spazi riservati ai pazienti malati di Covid-19. Si naviga un po’ a vista, si fanno poche previsioni e ci si prepara per quello che verrà.
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