L’immunità dal coronavirus è ancora un mistero
Una nuova analisi ha rilevato come gli anticorpi possano svanire in pochi mesi, ma non è chiaro quanto ciò influisca sulla memoria immunitaria contro il virus
Secondo un’analisi che ha interessato centinaia di migliaia di persone nel Regno Unito, i livelli di anticorpi tra le persone risultate positive al coronavirus tendono a diminuire in breve tempo, particolare che aggiunge nuovi dubbi sulla capacità del nostro organismo di sviluppare un’immunità a lungo termine per proteggerci nel caso di una seconda esposizione al virus. I dati sono stati raccolti nell’ambito dell’iniziativa REACT-2, organizzata per testare circa 350mila persone valutando i loro livelli di anticorpi.
In circa quattro mesi, la quantità di individui con anticorpi specifici per il coronavirus è diminuita del 26 per cento. Le analisi condotte tra la fine di giugno e i primi di luglio aveva portato a rilevare in media circa 60 persone con gli anticorpi ogni mille individui testati. I test svolti a settembre, invece, hanno consentito di rilevare la presenza degli anticorpi in sole 44 persone ogni mille testate. Tra l’estate e l’autunno la quantità di persone con anticorpi sembra si sia quindi ridotta di poco più di un quarto.
La diminuzione è stata più marcata tra le persone con più di 65 anni di età, rispetto alle fasce giovani della popolazione. Gli anziani tendono ad avere un sistema immunitario meno efficiente e questo, insieme ad altri fattori, potrebbe spiegare la differenza.
I ricercatori hanno inoltre notato una diminuzione degli anticorpi più rilevante tra gli individui che avevano contratto il coronavirus senza sviluppare sintomi, i cosiddetti “asintomatici”, rispetto a chi aveva poi sviluppato la COVID-19, la malattia causata dal virus.
Sono poi state rilevate differenze in alcune particolari categorie di persone. Gli operatori sanitari, per esempio, hanno mostrato di mantenere livelli più alti di anticorpi rispetto alla media della popolazione. I ricercatori ipotizzano che questa circostanza sia dovuta alla loro costante esposizione al coronavirus, per esempio negli ambienti ospedalieri, e che questa determini una risposta ricorrente da parte del loro sistema immunitario.
I quattro coronavirus più ricorrenti nelle nostre esistenze, e da ben prima dalla comparsa dell’attuale (SARS-CoV-2), sono tra le cause del raffreddore comune e comportano generalmente sintomi lievi e che tendono a scomparire entro una settimana. Diversi studi svolti in passato hanno dimostrato come, con il passare del tempo, il nostro sistema immunitario tenda a dimenticarsi di loro, rendendo quindi possibili nuove infezioni. La durata della memoria e della protezione varia molto da individuo a individuo, ma mediamente è di 6-12 mesi.
Ci sono poi i coronavirus che causano malattie più rischiose come la SARS e la MERS, che siamo comunque riusciti a tenere meglio sotto controllo evitando che causassero una pandemia come la COVID-19. Gli studi condotti finora, seppure su un numero limitato di pazienti, hanno evidenziato che i virus di queste due malattie respiratorie tendono a essere ricordati dal sistema immunitario per 1-2 anni. Considerato che la COVID-19 ha diverse cose in comune con la SARS, i ricercatori confidano in un tempo di protezione naturale analogo.
Stabilire con certezza quale sia la durata della memoria immunitaria contro una malattia non è comunque semplice, e per almeno due ragioni. La prima, che vale in molti ambiti della medicina, è che ciascuno di noi è fatto diversamente e reagisce quindi in modo diverso alle minacce che incontra, come virus e batteri. La seconda, ancora più sfuggente, è che le conoscenze sul funzionamento del sistema immunitario sono ancora limitate e non tutte le variabili intorno alla memoria immunitaria sono note.
Gli anticorpi, come quelli che sono stati misurati nei test nel Regno Unito, hanno per esempio la capacità di legarsi ad alcune proteine del coronavirus, impedendo loro di attaccarsi alle membrane delle cellule, eludere le loro difese e sfruttarle poi per replicarsi e infettare altre cellule portando avanti l’infezione. Ci sono però diversi altri meccanismi di protezione che vengono avviati dal sistema immunitario, alcuni più specifici e altri generalizzati, ma altrettanto efficaci soprattutto nelle fasi iniziali di un’infezione.
Superata una minaccia, le risorse sviluppate dall’organismo contribuiscono alla creazione di una memoria immunitaria, che non è però sempre stabile. Mentre per alcune malattie rimane pressoché costante, per altre tende a svanire, rendendoci potenzialmente vulnerabili alle stesse minacce già incontrate.
È normale che nel corso del tempo gli anticorpi contro specifiche minacce (patogeni) si riducano, man mano che ci si allontana dal momento dell’infezione. Il sistema immunitario mantiene però alcune particolari cellule (B e T) che sono in grado di riconoscere ugualmente la minaccia a distanza di tempo, riattivandosi e moltiplicandosi per aggredirla il più velocemente possibile. Non è però chiaro se queste cellule si formino e per quanto tempo rimangano nell’organismo.
A oggi sono stati segnalati pochi e sporadici casi di individui che hanno contratto per una seconda volta il coronavirus, a indicazione del fatto che in alcuni casi la memoria immunitaria svanisce completamente, aprendo la strada a una nuova infezione. Il numero di casi di questo tipo è per ora molto basso e sono ancora in corso studi per comprenderne le cause. I pazienti con seconda infezione che sviluppano i sintomi sembrano ammalarsi in modo più lieve, segno della permanenza di un qualche tipo di memoria immunitaria.
I responsabili dell’analisi condotta nel Regno Unito invitano comunque a non arrivare a conclusioni affrettate, considerato che ci sono ancora molte cose da capire sulla COVID-19. Una diminuzione della memoria immunitaria potrebbe influire sulla capacità di un vaccino di proteggere dalla malattia, ma anche in questo caso sarà necessario attendere l’esito delle sperimentazioni cliniche in corso sui vari tipi di vaccini finora sviluppati contro il coronavirus. Se da un lato è vero che agiscono stimolando una risposta simile a quella che si avrebbe contraendo il virus vero e proprio, dall’altro influiscono in modo più complesso sul sistema immunitario e sulla sua capacità di serbare un ricordo della minaccia incontrata.
Studi come questi non mettono quindi in dubbio l’importanza di un vaccino, né tantomeno l’urgenza di svilupparne uno e di diffonderlo il prima possibile tra la popolazione. Non si può comunque escludere che, nel caso di un vaccino efficace, diventi necessario sottoporsi a richiami periodici per mantenere la risposta immunitaria.