Come sta andando lo smart working in Italia
Gran parte delle aziende lo ha sperimentato per la prima volta in questi mesi, scoprendo che la produttività è più alta, la creatività a volte meno: ma non è per tutti la stessa cosa
di Arianna Cavallo
Nei prossimi mesi molti italiani lavoreranno ancora di più da casa anziché in ufficio, come hanno stabilito il decreto ministeriale del 19 ottobre e il DPCM (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) del 24 ottobre per contenere il contagio da coronavirus: le attività professionali sono incoraggiate e i datori di lavoro privati sono fortemente raccomandati a servirsi del cosiddetto lavoro agile, dove possibile, mentre nell’amministrazione pubblica il lavoro da casa riguarderà almeno il 50 per cento del personale le cui mansioni si possono svolgere in questa modalità, anche se la percentuale potrebbe aumentare in base alla situazione epidemiologica. Prima dell’arrivo della pandemia, il cosiddetto “smart working” era poco utilizzato in Italia, valeva solo per poche categorie professionali ed era visto con più di una riserva da direttori del personale e manager: l’arrivo del lockdown ha costretto, spesso con difficoltà, a farci i conti e potrebbe aver modificato per sempre il modo in cui lavoriamo e in cui intendiamo il lavoro.
Da dove arriva lo smart working in Italia
Il mondo del lavoro italiano è cambiato di fatto il 23 febbraio del 2020, con l’approvazione di un decreto legge che, per rispondere all’emergenza da coronavirus, rendeva automatico il ricorso allo smart working, o lavoro agile, per le aziende nelle zone a rischio che potevano svolgere attività a domicilio e a distanza. Fino a quel momento il lavoro a distanza era molto raro: era richiesto dal singolo lavoratore all’azienda e sancito con un accordo individuale, ai sensi della Legge 81 del 2017. Dopo l’annuncio del lockdown nazionale, il 9 marzo scorso, per molte aziende divenne l’unico modo per restare aperte; in pochi mesi dipendenti, manager e datori di lavoro ne esplorarono benefici, potenzialità e difficoltà. La situazione ora è estremamente variegata: ci sono dipendenti felici per il tempo risparmiato negli spostamenti e altri sfiancati da un flusso di riunioni virtuali e pasti da preparare alla famiglia; grandi aziende che non hanno mai riaperto gli uffici e altre medie e piccole che hanno chiesto di ritornare in sede all’attenuarsi dei contagi.
La prima cosa da ricordare è che in questi mesi non c’è stato un vero smart working, ma una sua versione forzata dalle circostanze. Lo smart working vero e proprio venne introdotto in Italia nel 2017: ed era un’evoluzione del telelavoro, il lavoro fatto a casa seguendo gli stessi orari che in ufficio e una postazione simile, spesso fornita dall’azienda. Lo smart working invece comporta flessibilità, e prevede – in teoria – che non ci siano precisi vincoli di orario o di luogo del lavoro: si può lavorare dove si vuole, scegliendo i propri orari e muovendosi per obiettivi. Il contratto italiano prevede anche che siano indicati i tempi di lavoro e riposo, il diritto alla disconnessione e che sia il datore di lavoro a garantire la salute e la sicurezza del dipendente.
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La forma che si è vista durante il lockdown è un adattamento emergenziale del lavoro in ufficio dentro casa: prevede gli stessi orari e si svolge sempre nello stesso luogo, solo che il luogo non è l’ufficio. Lo smart working invece prevederebbe anche dei giorni in ufficio, fissi o quando ce ne sia bisogno, e l’uso di spazi di co-working, comodi da raggiungere, dove lavorare e incontrare altre persone senza rischiare l’isolamento e l’alienazione. Come spiega Lea Rossi, giuslavorista e partner dello studio milanese Toffoletto De Luca Tamajo, «il telelavoro non ha successo perché è troppo rigido, lo smart working è un mix e prevede flessibilità, ma il datore di lavoro può anche chiamarti in ufficio con un preavviso di 24 ore: significa che non puoi andare a lavorare dove ti pare. Lo smart working 5 giorni su 5 è l’eccezione».
Un po’ di dati
Secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, dal 2013 al 2019 la quota di lavoratori in smart working è quasi quadruplicata, passando da 150mila persone a 570mila. Si trattava, però, soprattutto di telelavoro e lo smart working era visto come una concessione al dipendente, spesso avversata dall’uso insufficiente della tecnologia, dall’assenza di digitalizzazione e da una questione culturale, che misurava il lavoro in base alla presenza e al tempo, più che ai risultati. «Prima della pandemia il panorama in Italia era drammatico, lo smart working era arretratissimo», racconta Alessandra Meloni, manager di OpenKnowledge, società del gruppo BIP (una nota società di consulenza con oltre 3.300 dipendenti in 20 paesi) che si occupa di innovazione digitale. «Noi avevamo introdotto una giornata settimanale di smart working a richiesta due anni fa ed eravamo davvero avanti. Le grandi multinazionali italiane non avevano queste prassi oppure le prevedevano per fette molto piccole di dipendenti».
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Le cose sono state stravolte dal lockdown. Secondo una ricerca appena pubblicata da Microsoft, in seguito all’emergenza sanitaria la quota di imprese italiane che ha adottato il lavoro flessibile è passata dal 15 per cento del 2019 al 77 per cento. Dati simili arrivano da una ricerca dell’ISTAT uscita a giugno: il 90 per cento delle grandi imprese italiane (cioè con più di 250 addetti) e il 73 per cento delle imprese di dimensione media (50-249 addetti) hanno introdotto o esteso lo smart working durante l’emergenza, contro il 37 per cento delle piccole (10-49 addetti) e il 18 per cento delle microimprese (3-9 addetti). Per dare un’idea, a gennaio e febbraio 2019 il personale a distanza era l’1,2 per cento del totale, a marzo aprile era diventato l’8,8 per cento.
Grandi aziende dove lo smart working funziona
Il passaggio improvviso allo smart working è stato spesso complicato, anche per le aziende più grandi che erano già abituate a gestirlo. «Ci sono società che in 24 ore hanno messo in smart working 2.500 persone che prima non lo avevano mai fatto e che magari avevano solo il computer fisso», spiega Rossi.
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Renato Mannozzi, direttore delle Risorse umane a IBM Italia, filiale di una delle più grandi aziende del settore informatico al mondo, racconta che lo «il lavoro da remoto era regolato con un accordo del 2003 che prevedeva che chiunque, in accordo col direttore, potesse utilizzarlo saltuariamente; era stato richiesto da circa 500 persone su 4.250». Il lockdown non li ha trovati impreparati, perché tutti avevano già fatto un po’ di smart working e avevano gli strumenti per collegarsi da casa. «Non abbiamo mai chiuso le sedi principali», racconta Mannozzi, «e abbiamo permesso di andare in ufficio se c’era un’esigenza». Con il rientrare dell’emergenza nei mesi estivi, «abbiamo riaperto progressivamente le sedi principali di Milano e Torino mantenendo un numero di persone limitato rispetto alle postazioni; chiunque può andare in ufficio su base volontaria ma chiediamo di prenotarsi attraverso una app per garantire il non affollamento».
Un’esperienza simile è quella di GSK, azienda farmaceutica con circa 4.500 dipendenti in Italia. Beatrice Sandri, direttrice delle risorse umane, racconta che a Pharma, la divisione che si occupa della commercializzazione di farmaci da prescrizione e vaccini (i cosiddetti farmaci etici) «lo smart working c’era anche prima del lockdown e i dipendenti potevano lavorare da casa 8 giorni al mese, utilizzabili anche in mezze giornate. Quello che è cambiato, è che dopo il lockdown l’approccio si è capovolto: non si chiede più quanti giorni lavori da casa ma quando la presenza in ufficio ha valore». Aggiunge che «durante il lockdown l’ufficio non è mai stato chiuso ma il numero di persone non arrivava a 10 in una sede che ne prevede 400. Ora la percentuale di persone che è presente in ufficio è di poco superiore al 30 per cento. L’azienda chiede che il dipendente sia reperibile in una data fascia oraria ed eventuali variazioni sono gestite in accordo con il manager. Dopo il lockdown gli orari di connessione sono stati flessibili per andare incontro, per esempio, ai genitori e ci siamo raccomandati di non fare riunioni tra le 12 e le 14 perché tutta la famiglia è a casa».
«A febbraio avevamo già programmato un’alternanza di lavoro a casa e in presenza, poi abbiamo chiuso completamente anticipando di una settimana il lockdown governativo», ricorda Enrico Bozzatto, direttore delle Risorse umane di MCZ Group, gruppo in provincia di Pordenone con circa 400 dipendenti, specializzato nei prodotti a legna e a pellet, come stufe e caminetti. «C’era già una cultura sullo smart working ed è stato abbastanza facile attivarlo – aggiunge – In pieno lockdown il 50 per cento della parte impiegatizia ha continuato a lavorare in smart working, anche se preferirei chiamarlo home working perché in realtà era un’evoluzione del telelavoro. Ora siamo intorno al 15 per cento, a rotazione».
Chi fa ancora resistenza
Non tutte le aziende hanno avuto esperienze altrettanto positive e molte, soprattutto le più piccole, considerano lo smart working una risorsa temporanea e non una riorganizzazione utile del lavoro. «Le aziende italiane hanno spesso proprietà e dipendenti di una certa età, che non sanno usare la tecnologia», dice Rossi, «e spesso c’è anche un problema culturale, perché sono abituate ad avere le persone in presenza e perché non hanno idea di come “smaterializzare” il lavoro, per esempio gestendo i business plan o il calendario delle presenze sulle app, o facendo le videochiamate. Molte piccole aziende hanno fatto subito tornare i dipendenti in ufficio e poche si sono organizzate, anche perché ci vogliono investimenti nel tempo che non si fanno in un anno di crisi».
Il Post ha parlato con alcuni impiegati, rimasti anonimi, che si sono lamentati della rigidità dei loro datori di lavoro verso lo smart working. Quasi ovunque è stato adottato all’inizio della pandemia, magari dopo un primo periodo di ritardi e resistenze, ma è stato anche revocato con il calo dei contagi. La dipendente di una piccola fabbrica a conduzione familiare di Torino, che potrebbe svolgere il suo lavoro a distanza «per il 98 per cento», ha raccontato che «non c’è una reale motivazione contro lo smart working se non vederci e avere un senso di controllo; in più una parte della direzione è convinta che da casa non rendiamo allo stesso modo. È sempre stato valutato come una cosa fatta in via eccezionale ma non pensabile per il futuro», tanto che passata l’emergenza si è rientrati in ufficio; da questa settimana, il lavoro da casa è stato nuovamente permesso in seguito all’aggravarsi della situazione sanitaria.
Anche un dipendente di una grossa azienda di moda italiana dell’Emilia-Romagna ha raccontato di molta resistenza di fronte alle «ripetute richieste di lavorare in smart working. A maggio è stato subito richiesto di ritornare in ufficio, prima con una presenza del 50 per cento, successivamente del 70 per cento, che permetteva di mantenere le distanze in alcuni uffici ma in altri meno e costringeva a condividere le scrivanie a giorni alterni senza sanificazione del personale specializzato. Ad agosto è stata richiesta la presenza in ufficio di tutte le persone che non erano in ferie».
La dipendente di una piccola azienda di fornitura industriale in Piemonte – il cui lavoro si può svolgere «al 100 per cento a casa» – ha raccontato che «la proprietà vuole vedere la gente che lavora: la mentalità è che chi lavora da casa si faccia la manicure. Invece in lockdown abbiamo lavorato molto bene e superato i budget degli anni scorsi». Specifica che «io sono felice di andare in ufficio, mi permette di lavorare di meno. In lockdown ho perso sei chili: facevo la didattica a distanza, la cuoca, lavoravo di più perché iniziavo prima, la pausa pranzo durava meno, stavo tutto il tempo seduta e se mi alzavo era per svuotare la lavatrice».
Produttività e soddisfazione di chi lavora
La grande scoperta del lockdown è proprio l’accresciuta produttività registrata da quasi tutte le aziende. Secondo la già citata ricerca di Microsoft, l’87 per cento degli italiani ha riscontrato una produttività pari o superiore rispetto a quando lavorava in ufficio. «Mi dicono che la produttività sia cresciuta del 20 per cento», spiega Rossi. «Si lavora di più, la mattina si inizia prima tanto non si deve prendere il treno, ci sono meno tempi morti e meno riunioni. Casomai lo smart working ha fatto emergere delle sacche di inattività che esistevano già prima ma erano solo meno evidenti». Mannozzi di IBM conferma che «con il lockdown tutti siamo stati portati a lavorare tantissimo: era anche l’unica cosa da fare, un elemento di distrazione». «Non abbiamo perso produttività», dice anche Enrico Bozzatto di MCZ Group.
In generale, manager e dipendenti sono soddisfatti dello smart working: stando alla ricerca di Microsoft, condotta tra 600 manager e dipendenti di grandi imprese italiane, il 66 per cento dei dipendenti vorrebbe lavorare da remoto almeno un giorno alla settimana anche dopo la pandemia e l’88 per cento dei manager prevede introduzioni di lavoro ibride nel futuro. «I dipendenti sono contenti dello smart working, a mio avviso nell’ordine dell’80 per cento», dice Rossi, «perché si risparmia il tempo passato sui mezzi, il costo della benzina e del mangiar fuori e si gestiscono meglio i figli. C’è anche una fascia di chi è scontento, circa il 10 per cento, perché non ha uno spazio sufficiente a casa, nel lockdown ha dovuto gestire i figli, ha paura che il suo lavoro non emerga o ha problemi più seri, come la violenza domestica».
Tutti sono d’accordo che lo smart working del futuro sarà qualcosa di molto diverso, più leggero e duttile rispetto a quello visto finora. «Sarà più vicina al modello ibrido perché ci sono delle difficoltà nell’essere completamente digitali: immaginiamo un lavoro che sarà per il 50 per cento anche fisico», spiega per esempio Luba Manolova, Direttrice della divisione Microsoft 365 di Microsoft Italia, che si è occupata a lungo del tema. Sandri di GSK spiega che stando a una ricerca interna «i due terzi delle persone che lavorano negli uffici della sede centrale di Verona vorrebbero lavorare da casa 2-3 giorni a settimana»; Bozzatto ricorda che «lavorare da casa è un vantaggio ma riteniamo opportuno che le persone rimangano in contatto con l’azienda, con le sue dinamiche e la sua socialità».
Assicurare vicinanza anche a distanza
Il rischio di alienazione e isolamento è infatti una delle difficoltà dello smart working. «La mancanza di socializzazione è pesante», dice Rossi. «Qualche studio sugli effetti sul lungo periodo parla di persone demotivate, isolate, con meno scambi di idee e quindi minore creatività; i giovani apprendono in modo più lento e chi deve trovarsi i clienti fa più fatica»; altri studi mostrano lo stress causato dalle videochiamate. Pesa soprattutto la mescolanza continua tra vita lavorativa e privata, anche a causa della frantumazione degli orari canonici di lavoro: lavorare da casa rende più efficienti, ma priva degli scambi umani che fanno nascere le idee.
Le aziende stanno cercando di compensare queste difficoltà, per esempio Mannozzi di IBM racconta che «abbiamo incoraggiato i gruppi di lavoro a organizzare dei momenti in cui parlare d’altro: pause caffè, aperitivi, pranzi virtuali. Ha aiutato un po’». Manolova ha raccontato che Microsoft, che lavora in smart working da dieci anni ed è impegnata ad aiutare le aziende a introdurlo, sta studiando nuovi strumenti e tecnologie per favorire il benessere dei dipendenti e migliorarne la produttività: «Abbiamo introdotto caffè e aperitivi virtuali, corsi di yoga, corsi di fotografia. Ho degli strumenti che analizzano il modo in cui lavoro e mi aiutano a farlo meglio: per esempio se ho troppi meeting in successione, compare un avviso che mi ricorda di prendermi del tempo, ne ho un altro che misura la soddisfazione di chi lavora nel mio team o se sono sovraccarichi di lavoro. Offriamo delle sessioni di mindfulness e anche un commuting virtuale all’inizio e alla fine della giornata lavorativa che aiuta a staccare» (il commuting indica il momento di spostamento dal lavoro a casa, ndr).
Da GSK la socialità è stata garantita in modo meno strutturato ma comunque efficace: «Noi delle risorse umane abbiamo creato un gruppo WhatsApp autogestito che ogni settimana proponeva un tema diverso: manda una foto dalla tua finestra, del tuo tavolo da lavoro, del tuo pigiama: è stato molto divertente, sbollivamo un po’ la tensione ed è piaciuto a tutti, indipendentemente dall’età e dall’anzianità aziendale, perché il tuo pigiama è sempre uguale, che tu sia in azienda da 30 anni o da 2 mesi».
La trasformazione del manager
Se le risorse umane fanno la loro parte, il buon funzionamento dello smart working è soprattuto sulle spalle dei manager, come spiega Arianna Visentini, amministratrice delegata di Variazioni, una società che aiuta le aziende ad adottare lo smart working e che sta curando al momento circa 60 progetti. «Lo smart working permette di cambiare il paradigma del lavoro valutando i risultati e non il tempo, ma richiede una trasformazione anche del manager che deve imparare a pensare e a lavorare in modo diverso: deve motivare i collaboratori, affidare le consegne, definirne i tempi e indicare gli strumenti da usare». «C’è un problema manageriale», dice anche Rossi, «perché far lavorare a distanza è più faticoso. Il manager deve sapere distribuire il lavoro, controllando che gli anziani non abbiano un sovraccarico e che i giovani non perdano pezzi e deve ritarare i sistemi di valutazione usati finora».
I benefit per chi lavora da casa
C’è un ultimo discorso importante legato all’introduzione dello smart working ed è la concessione di bonus e benefit per chi lavora da casa. È vero che il dipendente risparmia in benzina, tessere della metro e pasti al ristorante, ma è anche vero che consuma più elettricità, caffè, un pasto, deve pagare la connessione (se non ce l’ha già) e dotarsi dell’attrezzatura necessaria. Nei Paesi Bassi per esempio i dipendenti pubblici che hanno lavorato da casa riceveranno quest’anno un bonus di 363 euro, alcune aziende offrono servizi di lavanderia porta a porta o altre convenienze per i lavoratori con figli.
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In Italia la conversazione sul tema è all’inizio, «il benefit non è ancora sul tavolo ma non lo stanno neanche chiedendo molto i dipendenti», spiega per esempio Meloni e anche Rossi dice che «tendenzialmente le aziende forniscono il computer, la chiavetta per la rete e il mouse perché se non ce li hai non puoi lavorare; vedo resistenza a fornire altri servizi perché hanno costi pazzeschi per l’azienda. In più ora ci sono molti più nomadi digitali, cioè i dipendenti che vanno a vivere in un paese diverso da quello in cui lavorano e che mettono di fronte a temi fiscali e contributivi che non hanno una regolamentazione: se lavori per uno stato ma vivi in un altro, dove versi i contributi?».
Al momento uno dei temi più sentiti in Italia è quello dei buoni pasto, che sono stati erogati da pochissime aziende durante il lockdown perché, come ha stabilito anche il tribunale di Venezia, non fa parte della retribuzione ma sono risarcitori. Il diritto al pasto (vale anche per chi prima lo riceveva in mensa) è uno dei punti rivendicati dai sindacati in merito allo smart working; a questo si aggiunge, ha spiegato Marco Beretta, segretario generale della Filcams Cgil Milano, «l’accordo collettivo, il fatto che lo smart working resti volontario e non sia imposto, il diritto alla disconnessione, che gli strumenti informatici siano a carico dell’impresa, che siano garantite condizioni di sicurezza e l’agibilità sindacale a distanza».
Gli effetti sulle città
Per finire, l’adozione dello smart working potrebbe avere delle conseguenze anche sull’organizzazione delle città in cui viviamo. A Manhattan molte grosse banche e società affittuarie di migliaia di metri quadri di uffici stanno progettando di ridurli, con il rischio di lasciare grattacieli sfitti e trascinare nella crisi i bar, i ristoranti e negozi che gravitano attorno. In Italia non è ancora accaduto niente del genere anche se, dice Rossi, «so di alcune aziende che stanno riflettendo se rinnovare gli affitti e continuare i progetti di espansione».
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Alessandro Balducci, che insegna Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano ed è stato assessore all’Urbanistica di Milano, spiega che «la necessità d’incontro continuerà a esserci ma non ci saranno 40 ore settimanali di presenza e questo consentirà di liberare degli spazi, che potrebbero essere riutilizzati per altre funzioni, come prevedono già molti degli uffici più moderni, come quello di Renzo Piano a Torino. Per esempio potranno ospitare palestre, asili nido, ristoranti, musei dell’impresa e, in generale, aprirsi al pubblico. Inoltre la gente potrà abitare più lontano, ci sarà una residenzialità più flessibile: si vivrà in posti meno costosi e si andrà in città solo in alcuni periodi. Una terza questione riguarda chi vive in quartieri periferici o in abitazioni più piccole, con una maggiore densità abitativa e più difficoltà a lavorare in casa: potrebbero crescere nuovi spazi di co-working nelle zone non urbane, potrebbero essere convertite a co-working delle strutture ex industriali». «Mi sembra», aggiunge Balducci, «che la rigidità delle funzioni e una certa separazione che è stata tipica della città moderna sia cambiata, e costringe a ripensare e ricombinare le cose».
La nuova estetica del lavoro
Può dispiacere un po’ l’idea che il mondo del lavoro, con le sue formalità, i suoi riti e il suo distacco – come raccontano innumerevoli film e serie tv che vi ruotano attorno – sia crollato per sempre, soffocato da maglioni sdruciti, librerie tristi e l’abbaiare del cane in sottofondo. «In questi mesi c’è stata un’invasione violenta degli spazi individuali», dice Meloni. «Pensa anche alla didattica a distanza coi ragazzini che si vergognavano delle loro camerette. Ora sto sperimentando la versione contraria: organizziamo lo spazio dietro di noi per far apparire l’angolo migliore nelle videochiamate, ci comportiamo in un certo modo nell’interazione online, scegliamo se tenere la telecamera spenta o se usare uno sfondo. Abbiamo assistito a una sciatteria nella nostra armatura principale, i vestiti, ma ora stiamo trovando nuovi modi di esprimere la nostra personalità».