Chi è stato veramente Pelé
Giocò mezzo secolo fa in Brasile, ma rimane il calciatore più famoso e riverito di sempre
di Pietro Cabrio
Una sola persona al mondo rappresenta meglio di chiunque la storia del calcio: Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé. L’ex numero dieci del Brasile migliore di sempre è considerato il più forte calciatore di tutti i tempi insieme all’argentino Diego Armando Maradona, con il quale condivide il riconoscimento della FIFA come giocatore del secolo. Ma se si parla del calciatore più conosciuto e riverito, dagli Stati Uniti al Giappone, difficilmente c’è qualcuno in grado di contrastare la popolarità raggiunta da Pelé in ottant’anni di vita, metà dei quali passati a giocare a pallone.
Dalla sua ultima partita ufficiale sono trascorsi oltre quarant’anni. I ricordi delle sue imprese sono sempre più rari e i suoi gol probabilmente sconosciuti alle ultime generazioni, a maggior ragione considerando che gran parte delle cose che lo resero grande si videro soltanto in Brasile tra gli anni Cinquanta e Settanta. Furono i Mondiali a cui partecipò in Svezia, Cile, Inghilterra e Messico — vincendoli quasi tutti — e le testimonianze portate dagli avversari che lo incontrarono a diffondere la sua fama prima che le immagini facessero il resto.
La grandezza riconosciuta a Pelé sta anche in questo: nell’essere diventato tutto quello che è nonostante abbia giocato a calcio mezzo secolo fa, in un paese povero dall’altra parte dell’oceano, e non a Napoli negli anni d’oro del campionato italiano o a Barcellona nell’epoca dell’informazione di massa.
Pelé nacque il 23 ottobre 1940 nel villaggio di Tres Coracoes, nello stato meridionale del Minas Gerais, da una ragazza del posto, Celeste Arantes, e da João Ramos do Nascimento, per tutti Dondinho, calciatore arrivato a Tres Coracoes durante il servizio militare. Nacque nel periodo in cui il villaggio fu raggiunto dalla rete elettrica, motivo per cui venne chiamato Edson, in onore di Thomas Alva Edison. Dopo cinque anni vissuti in una piccola casa di mattoni fatti a mano, si trasferì con la famiglia a Bauru, grosso centro urbano nello stato di San Paolo.
Nella nuova città il padre, un discreto attaccante, ottenne un contratto con la squadra locale e soprattutto un posto di lavoro come impiegato del comune. Pelé crebbe quindi a Bauru, dove gli venne dato il soprannome con il quale divenne famoso in tutto il mondo. Ha raccontato nella sua autobiografia che nei giorni in cui accompagnava il padre al campo era solito mettersi a giocare dietro la porta del Bauru, difesa da un certo Bilé, il cui nome, ripetuto come incitamento ma storpiato dall’accento ereditato dagli anni passati a Tres Coracoes, divenne per tutti il suo soprannome (in famiglia, invece, è sempre stato chiamato Dico).
Dondinho trasmise la passione per il calcio al figlio, del quale fu il primo vero allenatore. «Mi insegnò a calciare e a passare, mi parlò dell’importanza di tenere sempre la palla vicina, cosa che divenne il marchio di fabbrica del mio gioco: passi brevi, testa sopra la palla, o il più vicino possibile, per assicurarsi il controllo nello stretto scartando i difensori. Imparai velocemente come cambiare passo, da lento a veloce e viceversa, per confondere gli avversari. La finta di spalle fu un altro movimento insegnatomi da mio padre, e si rivelò devastante usata nelle situazioni di palla in movimento».
Con il padre visse anche la profonda delusione per la finale persa dal Brasile contro l’Uruguay ai Mondiali ospitati in casa nel 1950, il cosiddetto “Maracanazo”, dal quale ereditò il desiderio di poter rimediare in qualche modo alla sconfitta: «Soltanto al pensiero di quel pomeriggio, della tristezza che si notava ovunque, sento ancora i brividi». Poco portato allo studio e dedito quasi esclusivamente al calcio, giocato perlopiù scalzo e ovunque capitasse, l’idea di diventare calciatore si fece sempre più insistente col passare degli anni. Fondò una squadra di amici, il Sete de Setembro, come la via in cui abitava, e iniziò a farsi un nome.
Nel 1954 la carriera di Pelé potè iniziare con la squadra giovanile del Bauru, fondata in quello stesso anno e affidata a Waldemar de Brito, ex attaccante di successo, tra i convocati brasiliani ai Mondiali del 1934 e fratello di Petronilho, per alcuni il vero inventore della rovesciata. In una squadra organizzata, con vere divise da gioco e scarpe ai piedi di tutti i giocatori, il talento di Pelé divenne evidente, soprattutto al suo allenatore. Con Waldemar imparò a giocare con tutti e due i piedi e a controllare la palla con ogni parte del corpo, due delle caratteristiche che lo resero un giocatore unico nella storia del calcio. Sempre nella sua autobiografia, Pelé ricorda: «Tanti dei miei compagni erano molto bravi tecnicamente. Sapevano correre palla al piede, rubarla e fare dei piccoli numeri, ma non tutti sapevano come ricevere la palla. Non avevano quella visione che io invece sembravo avere». Anni dopo si scoprì che Pelé aveva effettivamente una vista periferica più sviluppata della media.
Waldemar fu anche la persona che lo aiutò a scegliere fra le numerose offerte che ricevette a nemmeno sedici anni. Gli consigliò di non andare a Rio de Janeiro, metropoli lontana e intimidatoria per un ragazzino di provincia poco istruito, ma di scegliere invece una squadra promettente di una città costiera immersa nella natura, Santos, a pochi chilometri da San Paolo. A Santos, dove vide per la prima volta il mare e dove indossò per la prima volta dei pantaloni lunghi, prese alloggio all’interno dello stadio di Vila Belmiro e venne aggregato inizialmente alle giovanili: pesava appena sessanta chili e doveva prepararsi alla fisicità della prima squadra. Il 7 settembre 1956 — giorno dell’indipendenza brasiliana — giocò la sua prima partita ufficiale contro il Corinthians di Santo André.
Da quel giorno al primo ottobre 1977, data della sua ultima partita organizzata tra le uniche due squadre per le quali aveva giocato, Santos e New York Cosmos, Pelé condusse una carriera dai ritmi martellanti. Nel giro di un anno divenne titolare al Santos e nei successivi diciassette segnò 643 gol in 656 presenze, quasi uno a partita fino al 1974, anno del suo ultimo anno in Brasile prima del trasferimento negli Stati Uniti. Con il Santos vinse dieci campionati statali paulisti e sette nazionali. Tra il 1962 e il 1963 vinse le prime due coppe Libertadores del calcio brasiliano e poi le prime due Coppe Intercontinentali, battendo prima il Benfica di Eusebio e poi il Milan di Maldini, Trapattoni e Rivera.
A sedici anni debuttò con la Nazionale, e a diciassette venne convocato per i Mondiali in Svezia, dove il 19 giugno 1958 si fece conoscere al mondo — insieme al compagno di reparto Mané Garrincha, uno dei giocatori brasiliani più amati di sempre — segnando il gol decisivo nei quarti di finale contro il Galles. Ne segnò poi tre alla Francia e due alla Svezia nella finale di Stoccolma, dove il Brasile vinse la prima Coppa del Mondo della sua storia.
Pelé rimane ancora oggi il miglior marcatore nella storia del Brasile, con 77 gol in 92 presenze, dodici dei quali segnati in quattro edizioni dei Mondiali. Dopo il primo successo del 1958, in Cile nel 1962 si infortunò alla seconda gara e assistette al resto del torneo, vittoria compresa, da bordo campo. Nel 1966 in Inghilterra il Brasile soffrì il gioco duro e falloso tollerato nel torneo, e lo stesso Pelé fu il bersaglio principale dei falli avversari. Giocò due partite zoppicando e il Brasile venne eliminato al primo turno. Si rifece però in Messico nel 1970, dove la selezione allenata da un giovane Mario Zagallo — loro compagno di squadra fino a pochi anni prima — si presentò con una delle formazioni più offensive mai viste nel calcio. Giocando con cinque attaccanti, la sua superiorità fu schiacciante e perfettamente rappresentata dalla finale vinta 4-1 contro l’Italia.
La FIFA gli attribuisce 1.281 gol segnati in 1.363 partite disputate, numeri sempre dibattuti per l’ufficialità di alcuni incontri e per le regole di allora, ma comunque ancora più impressionanti se si considerano le sue caratteristiche. «Mi piaceva giocare in un ruolo di profondità, quello del numero 10 appunto. Non sono mai stato quel tipo di giocatore posizionato di fronte, un centravanti. Ho sempre preferito partire da dietro. A volte ancora oggi qualcuno sostiene che abbia segnato così tanto perché ero un attaccante vero e proprio, ma non lo sono mai stato. Ero un centrocampista offensivo, attaccavo la profondità».
Come capita con gli altri grandi campioni della storia del calcio, a guardare Pelé oggi si nota soprattutto quanto sembri un calciatore moderno trapiantato nella metà del secolo scorso. A differenza dei vari Puskas, Cruijff e Maradona, però, Pelé è sempre stato una figura conciliante, mai associato a cose che non riguardassero il calcio. E gestì sapientemente la sua vita anche dopo il ritiro. Fu probabilmente uno dei primi calciatori ad avere un manager e a saper vendere la propria immagine: tutte cose a cui iniziò a pensare già nei suoi primi giorni al Santos dopo aver visto Vasconcelos, uno degli attaccanti titolari della prima squadra, infortunarsi gravemente durante una partita.
Rimase a giocare in Brasile per vent’anni principalmente per volontà della dittatura locale dell’epoca, che lo riteneva un patrimonio nazionale. Ma quando gli fu concesso di espatriare andò negli Stati Uniti per lanciare il calcio nordamericano con i New York Cosmos. Il progetto non riuscì molto, ma la sua popolarità ne guadagnò immensamente e divenne globale. Da lì divenne il volto più amato del calcio: recitò nel film Fuga per la vittoria, diede nome al primo videogioco ispirato a uno sportivo, divenne ambasciatore delle Nazioni Unite e dell’UNESCO, ministro straordinario dello Sport brasiliano, ambasciatore della FIFA, presidente onorario dei Cosmos, volto commerciale di Volkswagen, Procter & Gamble, Banco Santander, Puma, Subway, Coca-Cola, Hublot e di un centinaio di aziende brasiliane. Per il settimanale americano Time è stato fra le cento persone più influenti del ventesimo secolo.
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