16 canzoni degli U2

Da riascoltare oggi, a 40 anni dal loro primo disco

Gli U2 durante un concerto in Corea del Sud nel 2008 (Chung Sung-Jun/Getty Images)
Gli U2 durante un concerto in Corea del Sud nel 2008 (Chung Sung-Jun/Getty Images)

Qualsiasi cosa pensiate della sovraesposizione del loro leader, sono la rock band numero uno degli ultimi venticinque anni. Un percorso senza rivoluzioni o scosse, ma pieno di aggiornamenti e invenzioni mai davvero traumatiche. Alla fine, nemmeno un disco sbagliato: poi ognuno ha quelli che lo perplimono più o meno (io ho Pop e Zooropa). Un caso piuttosto straordinario di corrispondenza tra bravura e successo commerciale. Il loro primo disco, Boy, uscì il 20 ottobre del 1980: 40 anni fa.

Queste sono le sedici canzoni che Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, ha scelto per il suo libro Playlist.

New year’s day
(War, 1983)
Il loro primo grosso successo mondiale ha un formidabile giro di basso di Adam Clayton e fu ispirato dalla prigionia di Lech Walesa in Polonia. “I will be with you again” si riferisce alla sua separazione forzata dalla moglie. “Under a blood red sky”, un altro verso di “New year’s day”, darà il nome al mini-live degli U2 di qualche anno dopo.


Sunday bloody sunday
(War, 1983)
«Si è parlato molto di questa canzone: forse troppo. This song is not a rebel song: this song is “Sundaybloody-sunday”». Così Bono la introduce dal vivo in Under a blood red sky, dopo le polemiche e le diverse interpretazioni del testo. Canzone da battaglia, sostenuta dalla batteria marziale di Larry Mullen, “Sunday bloody sunday” citava il massacro passato alla storia come “Bloody sunday” e attaccava la violenza della guerra civile irlandese. La denuncia della pretesa “resistenza” a base di attacchi terroristici e vittime innocenti si è fatta sempre più esplicita nelle esecuzioni live degli anni successivi.


Party girl
(Under a blood red sky, 1983)
Era uscita come lato B di un EP del 1982 (il lato A era “A celebration”, canzone di cui poi Bono si disse scontento), e si chiamava “Trash, trampoline and the party girl”. Divenne un travolgente classico della band dopo che fu inclusa in Under a blood red sky.


Pride (In the name of love)
(The unforgettable fire, 1984)
Uscita in coincidenza con la campagna per la proclamazione di un Martin Luther King day in Arizona, “Pride” è il miglior pezzo rock degli U2 di sempre. Poi hanno fatto cose più belle, forse, più originali, forse, più toccanti. Ma questo è “il” pezzone, imbattibile. Arrivò persino nelle discoteche, e lo si mixava con “Don’t you” dei Simple Minds. Il verso sullo sparo che uccise King – “Early morning, april 4th…” – è notoriamente sbagliato: l’assassinio avvenne alle sei del pomeriggio. La Christine Kerr indicata come background vocalist è Chrissie Hynde dei Pretenders, allora sposata con Jim Kerr dei Simple Minds.


The unforgettable fire
(The unforgettable fire, 1984)
Probabilmente una delle cose migliori che gli U2 si siano mai inventati, piena di trovate e impreziosita da quel sigillo che arriva dopo tre minuti e diciotto e fa “and if the mountains should crumble, or they disappear into the sea…”: andrebbe mandata nello spazio agli alieni, quando si confezionano quelle timide esibizioni di cosa siamo capaci di fare noi qui, piccoli terrestri.


Where the streets have no name
(The Joshua tree, 1987)
“Where the streets have no name” apre teatralmente e in crescendo The Joshua tree, con la chitarra e l’organo: un’idea di The Edge che faticò a farsi strada durante le registrazioni. A un certo punto Brian Eno, che produceva il disco, decise di buttare via il nastro all’insaputa della band, ma secondo la leggenda un impiegato si rifiutò e la canzone sopravvisse (Eno sostenne poi che voleva solo azzerare e ricominciare a lavorarci daccapo). Parla della claustrofobia di Bono nei confronti delle metropoli e di certi regolamenti sociali. Il titolo gli fu ispirato dalla battuta per cui a Belfast si possono indovinare la religione e lo stato sociale di una persona già dal suo indirizzo di casa.

Gli U2 suonarono “Where the streets have no name” al primo Superbowl dopo l’attacco dell’11 settembre, mentre i nomi delle vittime scorrevano su uno schermo alle loro spalle. Il video della canzone invece è quello girato al concerto estemporaneo su un tetto di Los Angeles, in citazione del famoso concerto dei Beatles sul tetto della Apple Records a Londra.


I still haven’t found what I’m looking for
(The Joshua tree, 1987)
A un certo punto Bono vide la luce, oppure non la vide – come suggerisce questo titolo – ma decise di volerla vedere. I temi spirituali da allora lo accompagnarono sempre. Qui gli U2 misero su un notevole gospel, che dà il meglio di sé nella versione dal vivo al Madison Square Garden che stava nel doppio Rattle and hum, con tutta la coristica opportuna.


Running to stand still
(The Joshua tree, 1987)
In un disco che ebbe tre singoli popolarissimi (su tutti, “With or without you”) ci sono anche meraviglie meno note, come “Running to stand still”, che lavora più sulle declamazioni e i vocalizzi – “oh-lala di-day” – di Bono che sulle trovate melodiche e rock della band. Una storia dublinese di tossicodipendenza.


All I want is you
(Rattle and hum, 1988)
Grande numero lento di chitarra di The Edge, che riprende il lavoro simile fatto in un’altra loro canzone, “Bad”. Inesorabile e stupenda.


Unchained melody
(All I want is you EP, 1989)
Rivoluzionaria versione del classico di Alex North e Hy Zaret (la versione più celebre è quella dei Righteous Brothers) che era stato reso intollerabile dall’uso erotico-adolescenziale fattone nel film Ghost (una melassata soprannaturale con Patrick Swayze). Gli U2 lo fecero uscire sul lato B di “All I want is you”, facendone un gran pezzo rock di chitarra e Bono; poi fu pubblicato in una raccolta. Lui urla come un matto, stupendamente.


Everlasting love
(All I want is you EP, 1989)
Ancora sul lato B di “All I want is you” c’era un’altra bella cover, “Everlasting love”, nota per la versione del 1968 dei Love Affair (in Italia fu “L’ultimo amore” dei Ricchi e Poveri). Gran ritmo e coretti anni Sessanta.


One
(Achtung baby, 1991)
Nacque da un avanzo di “Misterious ways”: qualcuno sostiene che la band fosse in una tale crisi creativa che se non ci fosse stata “One” gli U2 si sarebbero sciolti: come in quei matrimoni salvati dall’arrivo dei bambini. Bono dice che gli ricorda Neil Young ai tempi di Harvest. Di solito stravince tutte le classifiche delle riviste specializzate per le canzoni del decennio, del ventennio, del cinquantennio e del secolo. Effettivamente, è grandissima, soprattutto se avete superato l’età da gita scolastica coi coretti delle ragazzine.


Stay (Faraway, so close!)
(Zooropa, 1993)
Una delle preferite di Bono, la parte del titolo tra parentesi cita il film di Wim Wenders (Così vicino, così lontano). Doveva chiamarsi “Sinatra” e uscì con “I’ve got you under my skin” sul lato B: duetto di Bono e Sinatra.


Staring at the sun
(Pop, 1997)
Gran ballata, risolta dal modo trascinante con cui se ne va via il refrain: “I’m not the only one, staring at the sun…”. Bono stavolta canta discretamente, agitandosi meglio del solito.


Beautiful day
(All that you can’t leave behind, 2000)
A un certo punto ci passano tutti, dalla canzonetta allegra e spensierata, ognuno a modo suo. Che sia “dai, sorridi”, “tutto andrà benone”, o “ma che bella giornata”.


Original of the species
(How to dismantle an atomic bomb, 2004)
Bono ha spiegato che è una canzone sul crescere e sull’essere se stessi (“you are the first of your kind”), dedicandola alle figlie. “Sii te stesso” è una lezione sventata che ha sempre generato mostri, ma continua a essere tramandata. Se tutti fossero se stessi, con il tasso di stronzi che c’è in giro, sarebbe un mondo di stronzi. Per fortuna che c’è sempre stato qualcun altro a spiegare invece che bisogna cercare di essere migliori di se stessi, avere dei modelli, moderare i propri egoismi: che ci sono le cose buone e le cose cattive, e bisogna fare quelle buone. La canzone è bella, comunque, soprattutto nell’attacco del refrain: “And you feel like no one before…”.