Il problema dei mezzi pubblici in tempi di pandemia
Il governo difende la decisione di consentire la capienza massima all'80 per cento dei posti, ma circolano molti dubbi e perplessità
Nelle ultime settimane sempre più esperti e osservatori stanno guardando con preoccupazione alla situazione dei mezzi pubblici nelle principali città italiane, tornati discretamente affollati dopo l’inizio delle scuole e la ripresa delle attività nelle città, e perciò potenziali ambienti di diffusione del coronavirus.
«Stare venti minuti in cento persone in un vagone della metropolitana moltiplica le probabilità di contagio. Si può anche avere la mascherina chirurgica, ma se c’è un super spreader nel vagone che magari la mascherina non la indossa o la indossa male, l’epidemia va nelle case e nelle scuole», ha spiegato ieri su Repubblica il biologo Enrico Bucci, esplicitando commenti più velati espressi nei giorni da vari altri esperti, probabilmente innescati dalle moltissime foto circolate di recente sui social network che mostrano banchine delle metropolitane e dei treni strapiene, spazi strettissimi negli autobus e una diffusa sensazione di calca nelle grandi città durante gli orari di punta.
Che il problema esista, e sia anche di dimensioni non trascurabili, lo dicono da giorni anche i responsabili dei trasporti delle regioni e dei comuni: per Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, il flusso nelle ore di punta «si fa fatica a gestire e controllare», mentre per il sindaco di Bari e presidente dell’ANCI, Antonio De Caro, al momento «le aziende di trasporto non ce la fanno» a gestire il problema da sole. Anche il Comitato tecnico-scientifico della Protezione Civile (Cts) di recente ha constatato che il trasporto pubblico locale rappresenta «un’importante criticità», che «non sembra essersi adeguato alle rinnovate esigenze» imposte dalla pandemia.
Il rischio di infettarsi sui mezzi pubblici non è ancora stato studiato a fondo, ma le prime ricerche sembrano suggerire che molto dipende dalla distanza mantenuta dal passeggero o dai passeggeri che in quel momento sono contagiosi, e dal lasso di tempo passato sul mezzo di trasporto (gli studi della resistenza del coronavirus sulle superfici non sono ancora abbastanza univoci per trarre conclusioni). Uno studio dell’università di Southampton realizzato in collaborazione con alcuni istituti cinesi sui passeggeri dei treni ad alta velocità cinesi ha stimato che, in presenza di una persona positiva a bordo senza mascherina, i passeggeri seduti nelle tre file e nei cinque blocchi davanti e dietro hanno una possibilità fino al 10 per cento di essere infettati, anche a debita distanza di sicurezza.
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Sugli autobus e le metropolitane delle grandi città le distanze sono decisamente inferiori a quelle dei treni ad alta velocità. E se il lasso di tempo passato a bordo rimane decisamente inferiore, sono più rari anche i controlli sul rispetto del distanziamento e delle precauzioni da parte dei passeggeri. A chi vive in una grande città sarà capitato spesso, negli scorsi mesi, di salire a bordo di un mezzo di trasporto su cui solo una parte dei passeggeri indossava una mascherina; cioè l’unico dispositivo di protezione comune che può limitare il contagio in ambienti ristretti come i vagoni di una metro, come dimostrato anche da una recente inchiesta del New York Times.
Nei mesi del primo picco della pandemia, almeno in Italia, i mezzi pubblici erano praticamente deserti, complici le restrizioni quasi totali agli spostamenti e la chiusura delle scuole. Col ritorno dalle vacanze e la progressiva riapertura di scuole e uffici – e complici i dati positivi sulla pandemia in Italia, almeno fino all’inizio di ottobre – gli autobus e le metropolitane sono tornate a riempirsi: soprattutto di studenti e persone che semplicemente non possono permettersi di spostarsi in auto a causa dei costi di mantenimento del mezzo, del carburante e delle limitazioni ai parcheggi e agli ingressi nei centri delle città.
All’inizio di settembre il governo, dopo un confronto con le regioni, aveva stabilito che ciascun mezzo doveva viaggiare a un massimo dell’80 per cento della capienza. La misura è stata confermata anche nell’ultima riunione fra ministero dei Trasporti ed enti locali, e difesa con forza dalla ministra Paola De Micheli. Da ASSTRA, l’associazione di categoria che rappresenta 144 aziende del trasporto pubblico locale, fanno sapere che in tutta Italia le compagnie si sono mosse da subito per far rispettare la nuova misura, e i dati sembrano confermarlo.
ATAC, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico a Roma, ha fatto sapere allo HuffPost che secondo i suoi dati interni la capienza fino all’80 per cento è sempre stata rispettata. Anche ATM, il suo corrispettivo milanese, sostiene che al momento i mezzi viaggino con una capienza media del 50-55 per cento inferiore rispetto all’anno scorso, e già a maggio aveva introdotto un sistema per bloccare i tornelli delle metropolitane nel caso siano presenti più di 60 persone sulla banchina.
Il problema è che limitare la capienza del 20 per cento non impedisce che nei momenti più affollati fra i passeggeri ci sia meno di un metro di distanza, cioè la misura minima per applicare il distanziamento fisico e porsi a distanza di sicurezza da una persona contagiata. «Quando a livello governativo è stato deciso di riempire i mezzi fino all’80 per cento, significa che c’è stata una deroga al principio di distanziamento», ha detto molto esplicitamente all’Adnkronos Umberto De Gregorio, presidente dell’Eav, l’azienda regionale della Campania che si occupa di trasporti.
Per il Cts la capienza doveva essere ridotta – sembra che sia circolata l’ipotesi di tenerla al 50 per cento – ma nemmeno questa ipotesi garantirebbe il rispetto delle norme che si applicano altrove. «Per avere il distanziamento di un metro si dovrebbe probabilmente scendere al 25 per cento» della capienza, ha spiegato al Fatto Quotidiano Luca Tosi, direttore dell’Agenzia del trasporto pubblico locale di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia.
E però con una capienza così ridotta, al 25 o al 50 per cento, sarebbe praticamente impossibile garantire l’afflusso dei pendolari che ogni mattina devono andare sul proprio posto di lavoro e soprattutto l’afflusso degli studenti nelle scuole, che il governo ha detto più volte di considerare una priorità. Ancora oggi la fascia più critica per tutte le aziende del trasporto pubblico locale è quella compresa fra le 7.30 e le 9.30, che corrisponde all’ingresso nelle scuole e negli uffici.
Nel mondo ideale, il governo stanzierebbe fondi miliardari per potenziare le corse e dare la possibilità di assumere il personale che serve per far fronte all’emergenza. Ma sul settore del trasporto locale si concentrano ormai da anni tagli quasi lineari – solo negli ultimi dieci anni in Italia sono stati tagliati 10 miliardi di euro di fondi, ha detto a Domani l’esperto di Pianificazione dei trasporti Ennio Cascetta – e conflitti di competenza fra i vari enti locali, col risultato che forse nemmeno uno stanziamento una tantum potrebbe bastare a risolvere la situazione.
Poi c’è un problema di tempi. «Il trasporto pubblico locale non è un sistema molto flessibile», spiega Andrea Corsini, assessore alla Mobilità dell’Emilia-Romagna: «gli autobus vanno trovati, se non ci sono vanno costruiti e comprati, e stiamo parlando di cose irrealizzabili nel breve e nel medio termine. E inoltre, dove li trovi gli autisti?».
Escluse le soluzioni di più ampio respiro, per ragioni di costi e tempi, il governo si sta concentrando sulle pezze. Fra il decreto rilancio, e il decreto agosto ha stanziato 900 milioni di euro per rafforzare il trasporto pubblico locale, e all’inizio di settembre ha annunciato altri 300 milioni in arrivo per le regioni e 150 milioni per i comuni.
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Buona parte di quei soldi però sono stati utilizzati dalle aziende per coprire i buchi nel bilancio causati dallo scarsissimo numero di passeggeri, e quindi degli introiti provenienti da biglietti e abbonamenti. Il governo ha quindi valutato che al momento il modo migliore per tamponare il problema sia intervenire sull’afflusso nelle scuole, ed evitare così gli assembramenti anche nelle ore di punta.
La prima soluzione a cui stanno lavorando le regioni è quella di noleggiare dei bus privati – quelli del cosiddetto settore NCC, Noleggio Con Conducente, in grossissima difficoltà da mesi per la rarefazione degli spostamenti interni – e aumentare così le corse negli orari di punta, soprattutto al mattino. Secondo una rilevazione del 2018 dell’istituto Isfort, in Italia lavorano nel settore NACC circa seimila aziende, il 69 per cento delle quali nel Centro-Sud e nelle Isole.
Usarle per potenziare il servizio pubblico avrebbe il doppio beneficio di aumentare le corse disponibili a breve termine e salvare centinaia di aziende che rischiano di chiudere per gli effetti della pandemia sul turismo e gli spostamenti interni. ASSTRA, fra le altre cose, ha chiesto al governo di stanziare altri 500 milioni di euro per questo scopo e di semplificare le norme che consentono agli enti locali di stipulare contratti con le aziende NCC.
Anche questa soluzione, però, non è immediata. Occorre stabilire chi deve occuparsene – di norma il trasporto pubblico locale è di competenza regionale, ma il trasporto scolastico compete ai comuni, e persino le province conservano alcuni poteri – trattare il prezzo con le aziende, verificare che tutti i mezzi rispettino le norme per potere operare nel servizio pubblico, incastrare i turni fra le esigenze pubbliche e i contratti degli autisti, e molti altri aspetti. Inoltre i bus privati non possono circolare su tutte le tratte, dato che le loro dimensioni non consentono di muoversi nei centri storici.
Lasciare la gestione della pratica agli enti locali, come spesso accade, ha due effetti paralleli: da un lato dà mano libera alle regioni più intraprendenti; dall’altro permette di fatto che alcune regioni non prendano alcun provvedimento. Ad oggi in Italia ci sono regioni come l’Emilia-Romagna, dove in questo momento circolano circa 300 bus privati sulle tratte extraurbane, la Puglia, in cui dell’ipotesi si parla da più di un mese senza alcuna conseguenza concreta, e la Lombardia, dove sembra non muoversi nulla e la regione alla fine dell’estate ha confermato l’assenza di limiti alla capienza sui posti a sedere nei treni regionali.
Ma la questione è talmente complicata che il governo viene criticato anche quando prende decisioni più nette e mirate. Nell’ultimo decreto della presidenza del Consiglio, per esempio, il governo ha imposto che le scuole superiori non aprano prima delle 9 di mattina: secondo Corsini la misura è stata pensata soprattutto per le grandi città, «dove ci sono le metropolitane». Nei piccoli centri, invece, l’intero sistema di trasporto pubblico locale è pensato per portare la gente nelle grandi città entro le 8 di mattina, quando aprono le scuole e la maggior parte degli uffici, ed è difficile da modificare in corsa (soprattutto gli orari dei treni regionali, vincolati dalle esigenze della rete nazionale).
Il rischio, insomma, è che i ragazzi continuino a prendere i treni e gli autobus che li portano in città per le 8 di mattina, perché quelli successivi sono molto più rari; oppure che si spostino in massa sulle eventuali nuove corse previste per chi entra a scuola alle 9 o alle 10, con il solito rischio di assembramento. «Secondo me non si è capito bene cosa significhi il trasporto pubblico locale in questi contesti e in questi ambiti territoriali: altrimenti non avrebbero deciso l’ingresso dopo le 9», commenta un po’ amaramente Corsini.
La soluzione più realistica è che le regioni, le province e i comuni provino a venire incontro alle scuole, e viceversa, in attesa di capire come andrà la diffusione del contagio a livello nazionale e se saranno necessarie ulteriori restrizioni che per esempio potrebbero ridurre il numero di pendolari che ancora oggi prendono il treno, l’autobus o la metropolitana per raggiungere il posto di lavoro.