Breve storia dei cartelli elettorali da giardino
Si usano negli Stati Uniti e tornano di moda prima di ogni elezione: dal punto di vista politico non spostano molti voti, ma possono avere altri scopi
Nei primi giorni di novembre, quando le elezioni presidenziali statunitensi avranno avuto un risultato chiaro, l’artista Nina Katchadourian aggiornerà una sua installazione – che vedete qui sotto – con un nuovo cartello elettorale, aggiungendo quello di chi, tra Joe Biden e Donald Trump, risulterà il candidato perdente. L’installazione si chiama infatti “Monumento ai non eletti” e al momento è composta da 58 cartelli: uno per ogni elezione presidenziale statunitense, dal 1788 al 2016.
I cartelli di Katchadourian sono fatti da lei ma sono comunque rappresentativi di un’abitudine piuttosto radicata negli Stati Uniti: la presenza nei giardini di cartelli con loghi e slogan di questo o quel candidato, con cui i residenti dichiarano chi preferiscono e fanno propaganda. Nonostante Google, Facebook, Instagram e TikTok, dei cartelli elettorali nei giardini si è tornati a parlare anche in vista delle elezioni presidenziali del 3 novembre.
Secondo alcune ricostruzioni, citate tra gli altri da Scientific American, il primo candidato alle presidenziali statunitensi a far distribuire qualcosa di simile agli attuali cartelli elettorali da giardino fu John Quincy Adams, che negli anni Venti dell’Ottocento divenne il sesto presidente americano. La vera diffusione dei cartelli elettorali moderni è però degli anni Sessanta del Novecento. Non a caso il periodo in cui si affermò anche una certa idea di famiglia e di casa: in inglese, infatti, il nome di questi cartelli è “lawn signs” o “yard signs” (cioè “cartelli” da “prato” o da “giardino”). Questi cartelli elettorali “privati”, infatti, funzionano molto bene se messi in giardini di aree residenziali che, negli Stati Uniti, spesso non sono recintati con siepi o steccati.
Le regole dei cartelli elettorali da giardino variano da stato a stato e da caso a caso (un’elezione comunale è diversa da una presidenziale) ma in linea generale il loro utilizzo è considerato una legittima forma di espressione della libertà di parola garantita dal Primo emendamento della Costituzione. In breve, le regole stabiliscono quanti giorni prima del voto possono essere messi i cartelli, che dimensioni massime possono avere (un cartello di venti metri in una casa accanto a un’autostrada non è un “cartello da giardino”) e a quale distanza devono stare dai luoghi in cui si vota. Ci sono anche regole che prevedono che questi cartelli siano messi proprio a terra e non, per esempio, su un albero o sulla parete di una casa, e altre che impediscono che la loro grafica cerchi in qualche modo di copiare quella dei cartelli stradali.
Non c’è però modo di dire con certezza se e quanto i cartelli elettorali da giardino possano influenzare il voto di chi li vede. Diversi studi hanno provato a fare calcoli e ricerche a riguardo, ma è praticamente impossibile isolare la presenza dei cartelli dalla lunghissima serie di altri elementi che, nei giorni, nelle ore o persino nei minuti prima di una votazione possono influenzare ogni votante.
Secondo un’idea tendenzialmente condivisa da chi si occupa del tema, i cartelli elettorali da giardino possono spostare qualche voto in elezioni locali, in cui è più facile non conoscere il nome di certi candidati e in cui si può essere quindi incentivati a votarne uno perché si è visto che un paio di vicini – magari quelli con cui si è in buoni rapporti – hanno messo un cartello di quel candidato. Oppure, al contrario, si sceglie di non votare un candidato per il semplice fatto che quel vicino antipatico si è palesato come suo sostenitore.
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È invece difficile che in un’elezione presidenziale, specie una caratterizzata da una campagna elettorale polarizzante come quella attuale, i cartelli nei prati possano aiutare qualcuno a ricordarsi chi è Trump e chi è Biden, o a scegliere se preferire uno o l’altro in base a simpatie o antipatie nei confronti del vicinato. Una frase spesso citata a questo proposito, magari in risposta a chi prova a fare previsioni di voto contando i cartelli in certi quartieri è “signs don’t vote”, “i cartelli non votano”.
Eppure sono ormai decenni che i comitati che si occupano delle campagne elettorali producono, distribuiscono (spesso, soprattutto in passato, gratuitamente) e vendono cartelli elettorali, anche solo per dare un’impressione di forza e presenza in un certo territorio. Nel 2012, quando già le campagne elettorali si erano in parte spostate dalle strade a internet, l’Atlantic citò per esempio studi secondo i quali nei precedenti quarant’anni l’uso di cartelli elettorali da giardino era quadruplicato.
E ancora oggi sembra che i cartelli elettorali da giardino non siano per niente passati di moda. Perché continuano a permettere di raccogliere fondi per le campagne elettorali, ma ancora di più perché – a prescindere da ogni possibile margine di guadagno – i comitati elettorali continuano a considerarli un efficace strumento per far felici certi elettori, per i quali il cartello elettorale è un gadget simbolicamente importante.
A volte, generando una certa insofferenza da parte di chi li offre: Tim Buckley, direttore della comunicazione per il Partito Repubblicano in Massachusetts, ne parlò all’Atlantic come di un «fardello», perché «finisci per essere tormentato dalla gente che vuole più cartelli, e anche i candidati stessi vogliono che se ne vedano tanti».
Buckley spiegò anche che, a suo modo di vedere, i cartelli elettorali erano «dimostrativi, più che persuasivi». Un po’ come succede con le bandiere delle squadre di calcio, mostrarne una dal balcone o dal giardino di casa non serve a convincere qualcuno a tifare quella squadra, serve solo a identificarsi come tifoso di quella squadra. Da questo punto di vista, quindi, i cartelli elettorali servono a chi li usa a far vedere che si interessa alla politica, e che ci tiene a far sapere da che parte sta.
Sempre seguendo questo ragionamento, è inoltre possibile che per certe persone mettere un cartello elettorale equivalga a impegnarsi politicamente, a pensare di aver fatto la propria parte. Un elettore di Biden potrebbe per esempio pensare che far vedere ai vicini che intende votare Biden sia un più che sufficiente gesto politico, senza doversi quindi sentire in colpa se non si impegna attivamente in altro modo.
O forse, invece, è solo una tradizione civica a cui certi statunitensi continuano a sentirsi legati. E che, nel dubbio, i comitati elettorali continuano ad assecondare: in vista delle elezioni di novembre sia il comitato di Biden che quello di Trump hanno messo in vendita i rispettivi cartelli da giardino: quelli pro Biden si possono ordinare online a partire da 16 dollari; quelli pro Trump costano 20 dollari a coppia (o 325 per chi ne ordina 50 insieme).
C’è anche chi i cartelli elettorali cerca di rubarli o distruggerli. Ne ha parlato di recente il Wall Street Journal, raccontando come – anche grazie alla crescente diffusione di citofoni e sistemi di antifurto con videocamera – quest’anno ci siano più immagini a riguardo rispetto alle precedenti elezioni presidenziali.
Di recente è successo anche che in Michigan un uomo, incaricato dall’amministrazione locale di rimuovere un cartello pro Trump messo troppo vicino a una strada, si sia ferito le mani e abbia dovuto ricevere 13 punti di sutura, perché sotto al cartello il padrone di casa aveva messo dei rasoi, per evitare che qualcuno lo rubasse o rimuovesse.
Il Wall Street Journal ha scritto che oltre a qualche caso di furto o vandalismo, sono stati anche documentati alcuni casi in cui «le persone urlano contro i cartelli».