Le autopsie non sono per tutti
Nel senso che i loro dettagli possono fare impressione, come dimostra quest'articolo, ma anche che si fanno su una piccola percentuale dei cadaveri, ed è un problema
di Gabriele Gargantini
«La procedura, se vogliamo, è standardizzata da direi 150 anni. Ci sono bellissimi manuali di fine Ottocento in cui si spiega cosa fare» racconta l’anatomopatologo Paolo Tricomi. «In genere si fa un taglio a Y, che parte dalle spalle, arriva sul davanti dello sterno e poi scende rettilineo fino quasi alla sinfisi pubica». Dopodiché «si scollano i tessuti, si espongono il torace e l’addome. Poi si rimuove la gabbia toracica e si dà un’occhiata».
Tricomi ha 71 anni e ha fatto la sua prima vera autopsia nel 1974. Da allora ce ne sono state «molte migliaia»: per circa dieci anni solo quelle sanitarie, cioè i riscontri diagnostici. Dagli anni Ottanta a oggi anche quelle medico-legali: quelle che siamo abituati a vedere in CSI, per intenderci. Di recente racconta di essere stato piuttosto indaffarato con un «cadavere mummificato», trovato diversi mesi dopo la morte.
Le autopsie sanitarie e le autopsie giudiziarie sono i due casi principali in cui la legge italiana prevede che sia possibile aprire ed esaminare un cadavere. Hanno profonde e importanti differenze di scopo e di metodo, ma anche tanti punti di contatto: a cominciare dal fatto che – forse perché argomento percepito come sgradevole o impressionante dai più – per entrambe c’è un grande divario tra quanto se ne parla (poco) e quanto sono importanti (molto).
I come, i quando e i perché si possono o devono aprire cadaveri in Italia si trovano nel Regolamento di polizia mortuaria, un decreto del presidente della Repubblica del 1990. Per prima cosa, il Regolamento spiega che nessun cadavere può essere «chiuso in cassa», oppure «inumato, tumulato, cremato» e anche sottoposto ad autopsia «prima che siano trascorse 24 ore dal decesso». Esistono tuttavia eccezioni per casi straordinari o di particolari casi di morte.
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In ogni caso, comunque, prima di procedere serve che per «una durata non inferiore a 20 minuti» il medico si accerti che non ci siano battiti cardiaci. Ci sono inoltre ulteriori precauzioni da prendere nei casi di «morte improvvisa» o per i quali «si abbiano dubbi di morte apparente». Il Regolamento spiega anche che «durante il periodo di osservazione il corpo deve essere posto in condizioni tali che non ostacolino eventuali manifestazioni di vita». Aggiunge infine che in tutti i casi sono da evitare «mutilazioni e dissezioni non necessarie a raggiungere l’accertamento della causa di morte» e si deve operare affinché una volta finita l’autopsia il corpo possa essere «ricomposto con migliore cura».
Ma entriamo più nel dettaglio.
L’autopsia sanitaria
Tra i due tipi di autopsia, quella sanitaria è in genere quella più standardizzata. Avviene quasi sempre su cadaveri di poco più di 24 ore, e spesso con procedure tra loro simili. Questa tipologia – che rappresenta spesso anche solo la centesima parte del lavoro di un anatomopatologo – è fatta negli ospedali o negli obitori, quando si vuole provare a capire meglio le cause di un decesso. Tricomi ne parla come di una «verifica di un lavoro che è stato fatto: nel senso che una persona che è stata osservata e curata per varie patologie a un certo punto decede, e si deve ricostruire la sua storia dalla nascita alla morte». E aggiunge: «La disciplina si chiama anatomia patologica perché si basa sul raffronto con l’anatomia normale». Partendo dalla conoscenza di com’è fatto un organo normale, si guarda come e quanto un organo estratto da un cadavere appare diverso, provando a capirne le cause.
Tra le prime cose da fare c’è l’apertura della gabbia toracica. Tricomi spiega che in genere non è un lavoro faticoso: «Si disarticolano le clavicole dal manubrio dello sterno e poi si incide con uno strumento tagliente, tagliando al punto di passaggio tra la parte ossea e la parte cartilaginea». Tricomi spiega che per riuscirci ci sono «strumenti sofisticati, in acciaio temperato», ma che volendo ci si può arrangiare anche con qualcosa di molto simile a un potarose. Un po’ di problemi possono esserci invece se c’è da aprire un cranio («si incide il cuoio capelluto, con una sega elettrica si fa un taglio circolare e si toglie la calotta cranica») perché «fa polvere»; e la polvere può creare problemi di altro tipo nell’analisi autoptica.
Oltre che per «dare un’occhiata», un cadavere viene aperto per poterne estrarre gli organi da cui poi prelevare parti da sezionare ed esaminare. I campioni prelevati sono prima messi in formalina e poi, dopo qualche giorno, tagliati e preparati per i vetrini per la microscopia. Tricomi spiega anche che, a seconda delle esigenze, possono essere fatti anche «prelievi batteriologici, tamponi per le colture o altri esami accessori».
Alla fine il cadavere viene richiuso. Nella pratica, gli organi vengono rimessi nella cavità toracica addominale – non necessariamente rimettendoli proprio al loro posto – e poi un addetto ricuce il torso dove era stato aperto. Spesso, dopo che un cadavere soggetto a riscontro diagnostico viene lavato e rivestito per il funerale, nemmeno ci si accorge del fatto che era stato aperto: «Se anche si è fatto il taglio per estrarre l’encefalo», precisa Tricomi, «non si vede nulla. Capita a volte che ci siano cadaveri gonfi per putrefazione o certe patologie. Dopo l’autopsia sono molto meglio di prima».
L’autopsia viene svolta su appositi tavoli in alluminio forato e con acqua corrente (per far defluire i tanti e diversi liquidi presenti). Per le autopsie sanitarie complete, tra apertura e chiusura passa in media tra un’ora e un’ora e mezza. Ma dipende da tanti fattori, uno dei quali è il corpo in esame: «In persone giovani, con un’anatomia ben conservata, gli organi si separano con maggior semplicità». Autopsie più semplici e selettive, in cui magari si sa già di dover indagare un organo specifico – per esempio, spiega Tricomi, «se si allarga un po’ il torace per tirare fuori il cuore» – durano anche meno. Tricomi aggiunge che non ci sono in genere organi più difficili di altri, ma anche che una volta gli è capitato «un fegato di sei chili e mezzo». A proposito dell’odore non entra troppo nei dettagli, e dice solo: «Io non ho mai messo una mascherina, perché non mi dà particolare fastidio».
L’autopsia giudiziaria
Le autopsie medico-legali – quelle di cui si parla a volte in relazione a grandi casi di cronaca nera – sono simili a quelle sanitarie, in quanto richiedono di aprire, esaminare e richiudere un cadavere: ma sono diverse in molti altri aspetti. Per esempio, spiega Tricomi, «al taglio a Y in genere il medico legale preferisce il taglio rettilineo dal mento fino al pube, più che altro per una maggiore necessità dell’anatomopatologo di presentare un cadavere senza segni, perché un taglio al mento un po’ si vede». Ma ogni regola ha la sua eccezione e Tricomi, che preferisce il taglio a Y, dice: «Se devo vedere bene il collo di uno che si è impiccato o è stato strangolato, allora faccio il taglio rettilineo».
La differenza più profonda la spiega Riccardo Zoia, presidente della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni: «L’autopsia giudiziaria è una procedura che comincia con il sopralluogo del medico legale nel posto in cui è stato trovato un cadavere», e alla quale, dopo il vero e proprio esame cadaverico, seguono «esami di laboratorio sui prelievi biologici presi dal cadavere e messi in relazione coi dati del sopralluogo e che hanno finalità tossicologiche, genetiche e istologiche».
Mentre le autopsie sanitarie possono essere richieste dai medici e, dal 2017, dai familiari del defunto, le autopsie giudiziarie partono dalla richiesta di un pubblico ministero. Nel primo caso, spiega Zoia, si ha a che fare «molto spesso con persone di cui si conosce già bene la storia», per rispondere a «quesiti clinici». Nel secondo, invece, si fa un’autopsia perché «ci sono elementi di carattere giuridico che devono essere chiariti».
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Le autopsie giudiziarie – fatte spesso con costanti riprese video e fotografie, magari con la presenza di consulenti di parte o diversi medici incaricati – possono diventare molto lunghe. Tricomi ha spiegato per esempio che capita di dover cercare proiettili e seguirne l’intero tragitto, e Zoia ha raccontati di aver fatto «un’autopsia durata tre giorni, con venti colpi di arma da fuoco con cinque armi diverse».
L’autopsia didattica non esiste
In Italia esistono laboratori e centri che conservano parti anatomiche: il Cadaver Lab di Milano parla per esempio di «preparati anatomici fresh/frozen» grazie ai quali «gli operatori del mondo medico possono studiare, sperimentare, perfezionare le pratiche chirurgiche, approfondire le conoscenze anatomiche». Zoia spiega però che in Italia, in questo momento, non esiste «nessun tipo di autopsia fatto esclusivamente per fini didattici» e che «gli studenti che fanno anatomia non hanno più bisogno di avere il cadavere». Chi studia per diventare medico legale o anatomopatologo (e quindi, tra tante altre cose, potersi anche occupare di riscontri diagnostici) al massimo assiste ad autopsie altrui.
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Negli ultimi anni diverse tecnologie – per esempio le autopsie virtuali – hanno reso possibile evitare di dissezionare un cadavere per un semplice studio anatomico. Un tempo si faceva soprattutto sui cosiddetti “corpi non reclamati” (quelli di persone di cui nessuno diceva di essere parente o quantomeno conoscente) e in futuro si potrebbe fare grazie alla donazione del corpo post mortem, di cui negli ultimi mesi si è parlato anche in Italia.
Tricomi spiega che «si cerca di evitare che si debbano aprire cadaveri per la didattica» e che, al massimo, può capitare che esperti di determinati organi o patologie (per esempio un cardiologo o un oncologo) possano assistere a un riscontro diagnostico, per capire e valutare cose insieme all’anatomopatologo. «Detesto quando dicono “fanno le autopsie a scopo di ricerca”» dice Tricomi: «Il termine ricerca mi fa gelare. Noi non facciamo ricerca. Facciamo riscontri, verifiche, chiarimenti. La ricerca è un’altra cosa».
In Italia non si fa quindi niente che ricordi davvero quel che si faceva già dal Sedicesimo secolo nel Teatro Anatomico di Padova, «il primo esempio al mondo di struttura permanente creata per l’insegnamento dell’anatomia attraverso la dissezione di cadaveri» o che qualcuno potrebbe aver presente grazie al famoso olio su tela di Rembrandt. Bisogna comunque tenere presente che dissezione anatomica e autopsia non sono la stessa cosa: «L’esame autoptico è più cruento, perché diverso è il fine», ha spiegato Lucia Manzoli, direttrice del dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna. «La dissezione, invece, si sofferma sullo studio del corpo umano, attraverso un esame di tutti i tessuti umani, dalla superficie alla profondità».
Le autopsie servono
Le autopsie giudiziarie servono a capire come e perché qualcuno è morto: e quindi a dare più informazioni possibili a chi sta indagando su quella morte e ai giudici.
Le autopsie sanitarie servono perché rendono migliori e più efficaci i medici, chiarendo elementi magari ignoti; ma anche perché possono essere utili ai familiari di chi è morto, magari individuando patologie a incidenza familiare o genetica. Oppure anche solo per aiutare i familiari – a volte pure per ragioni assicurative – ad avere informazioni più chiare e certe sulla causa di morte del loro parente. In estrema sintesi, le autopsie rendono il sistema migliore e più preciso, penale o sanitario che sia.
Quante autopsie si fanno
Non si può dire con precisione. Per quanto riguarda le autopsie giudiziarie Zoia spiega che non esiste un «registro vero e proprio». Per le autopsie sanitarie, invece, un numero si potrebbe trovare: perché in ogni scheda di morte – i documenti che servono all’ISTAT, l’Istituto nazionale di statistica, per avere informazioni precise su decessi e cause di morte in Italia – il campo in cui specificare se è stato fatto o no un riscontro diagnostico (cioè un’autopsia sanitaria) è il secondo tra quelli che il medico è tenuto a compilare, ben in evidenza nella parte alta della scheda. Né l’ISTAT né l’Istituto Superiore di Sanità rendono però disponibile questo dato, grazie al quale si potrebbe sapere – partendo per esempio dal dato sulle 647mila persone morte in Italia nel 2019 – con quanta frequenza si fanno autopsie sanitarie.
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Parlando dell’ospedale di Lecco, in cui ha lavorato per anni, Tricomi ha detto che «attualmente i riscontri diagnostici sono 50/60 all’anno» ed è difficile pensare che in tutta Italia siano stati, nel 2019, più di qualche migliaio.
Servirebbero più autopsie
Con ogni probabilità, le autopsie sanitarie fatte ora in Italia sono meno che in passato: un po’ perché è in effetti migliorato il sistema sanitario e ci sono metodi nuovi e più precisi per capire le cause di un decesso, anche senza aprire un corpo. Ma anche per una serie di altri problemi, economici e organizzativi. Tricomi parla di «tutta una serie di motivazioni per cui è dispendioso in termini di denaro e di tempo fare un riscontro diagnostico se non è strettamente necessario».
Parlando invece di autopsie giudiziarie, Zoia cita «problemi di organizzazione, risorse e cultura del sistema giudiziario» e aggiunge: «Negli ultimi anni c’è stata una riduzione del numero di autopsie giudiziarie che vengono fatte in casi in cui sarebbero assolutamente previste dal punto di vista scientifico e delle determinazioni comunitarie».
Nella puntata “I morti tra scienza e giustizia” del podcast “Corpi“, Cristina Cattaneo – direttrice di Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università Statale di Milano – spiega che «soltanto nel 30 per cento delle morti sospette viene chiamato il medico legale» e che «soltanto nel 4 per cento delle morti sospette si fa tutto: sopralluogo, autopsia e indagini da laboratorio». Sempre Cattaneo, che tra le altre si è occupata delle autopsie su Yara Gambirasio e Stefano Cucchi, aveva detto al Corriere della Sera: «Voi giornalisti mi fate imbestialire con questa mania dei delitti celebri: se a tutti i morti fossero riservate le stesse attenzioni, il mondo sarebbe un posto migliore».
Il problema delle poche autopsie non riguarda però solo l’Italia: a febbraio il New York Times Magazine parlò della “crisi dell’autopsia” negli Stati Uniti. Una ragione di questa crisi potrebbe stare nel fatto che, come ha spiegato al National Geographic Mary Fowkes, che si occupa di autopsie per la Sinai School of Medicine di New York, «si tende a pensare che le autopsie non siano utili, che non portino a niente, e che anche senza autopsie sappiamo determinare le cause di morte». George Lundberg, un anatomopatologo intervistato da Samuel Ashworth per un approfondito articolo sulle autopsie negli Stati Uniti, ha detto, con notevole sintesi: «A molti non piace l’idea di spendere soldi sui morti». Eppure, come spiega il podcast del Labanof «la medicina legale indaga i morti, ma serve ai vivi».