Come stanno le terapie intensive
I lavori per aumentare i posti letto sono in grande ritardo e il commissario Arcuri litiga con le regioni: la situazione è sotto controllo, ma i ricoverati aumentano
In Italia i posti letto di terapia intensiva, cioè quelli dei reparti ospedalieri per i malati più gravi, che sono fondamentali per curare le infezioni più acute da coronavirus, sono attualmente 6.458, secondo le stime di Quotidiano Sanità. Sono circa 1.250 in più rispetto a quelli precedenti all’epidemia, ma molti meno di quelli che il governo aveva progettato di allestire in previsione della seconda ondata, che proprio in questi giorni sta cominciando a mettere sotto stress gli ospedali di diverse regioni. I piani per aumentarli fatti a maggio non sono stati rispettati: nonostante le regioni avessero preparato e presentato i progetti già a luglio, come richiesto dal governo e dal commissario straordinario Domenico Arcuri, i lavori devono ancora cominciare.
Quella sui posti letto complessivi in Italia è una stima, ed è destinata a cambiare: come durante la prima ondata, gli ospedali che ne avranno bisogno si riorganizzeranno aggiungendo posti temporanei e riconvertendo appositamente reparti. Con il decreto rilancio di maggio, il governo aveva stanziato oltre 600 milioni di euro per aumentare i letti di terapia intensiva, che richiedono strumentazioni costose e sofisticate, come i ventilatori polmonari, e personale medico specializzato (rianimatori e anestesisti) in numero superiore a quello dei pazienti. Ma dei 3.500 posti letto previsti, ne sono stati realizzati circa 1.250.
Questo ritardo nei lavori è dovuto all’iter burocratico con cui è stato portato avanti il piano. Domani sta raccontando in questi giorni la vicenda, spiegando che le regioni avevano presentato al governo dei piani per ampliare i reparti di terapia intensiva dei propri ospedali rispettando le scadenze, entro la metà di luglio, e avevano ricevuto a fine mese una prima approvazione dal ministero della Salute e dalla Corte dei Conti. Arcuri, secondo Domani, ha ricevuto i piani di tutte le regioni tra il 3 e il 24 luglio.
Nonostante ci fossero i progetti e i finanziamenti già stanziati, i tempi a quel punto si sono allungati. Arcuri doveva procedere con le gare d’appalto per la realizzazione dei posti, ma ci sono stati dei ritardi nei passaggi e nelle approvazioni tra il ministero e l’ufficio del commissario, con responsabilità che ad oggi non sono molto chiare. In una lettera di chiarimenti scritta a Domani, Arcuri dice che i piani ricevuti dalle regioni «erano spesso privi di dettagli tecnici, operativi e logistici, necessari per poter avviare le gare» e che quindi ci sono volute ulteriori settimane per perfezionarli: fino a metà settembre. Il bando nazionale quindi è stato pubblicato soltanto a inizio ottobre. È scaduto il 12 ottobre, e i lavori dovrebbero cominciare a fine mese.
Anche se alcune regioni si sono mosse autonomamente per ampliare i propri reparti, gran parte dei lavori per i posti letto deve quindi ancora cominciare. Nel frattempo però i reparti di molti ospedali stanno cominciando a riempirsi di nuovo di malati di COVID-19, e portare avanti i cantieri sarà probabilmente più complicato rispetto a quanto sarebbe stato in estate, con le terapie intensive che perlopiù erano libere da pazienti infettati dal coronavirus.
Arcuri questa settimana si è lamentato del fatto che in questi mesi sono stati inviati oltre tremila ventilatori polmonari alle regioni, che però non sono corrisposti ad altrettanti nuovi posti di terapia intensiva. Ha sostenuto che ne avanzino circa 1.600, chiedendo che siano attivati. Il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia ha espresso lamentele simili: «Il problema è dove sono finiti i ventilatori, attendiamo risposte».
Attualmente la regione che ha la più alta percentuale di posti dei reparti di terapia intensiva occupati da pazienti malati di COVID-19 è l’Umbria con il 24,2 per cento, seguita dalla Valle d’Aosta con il 22,2 per cento, dalla Sardegna con il 19,1 per cento, dalla Campania con il 18,4 per cento e dalla Liguria con il 17,2 per cento. Ovviamente, i reparti di terapia intensiva sono normalmente occupati da pazienti gravi con molte patologie diverse, e quindi basta che i letti occupati da malati di COVID-19 superino una certa percentuale perché, sommati ai pazienti “ordinari”, si arrivi al limite della capienza. In questi giorni si sta citando il 30 per cento come soglia oltre la quale gli ospedali cominciano a far fatica a gestire i malati.
Nella prima ondata dell’epidemia, nel momento peggiore per i reparti di terapia intensiva a inizio aprile, il numero di ricoverati in Lombardia e in altri ospedali del Nord Italia superò quello di tutti i posti letto normalmente disponibili nelle terapie intensive. Ne furono allestiti centinaia di temporanei, riconvertendo interi settori di ospedali. Ora siamo lontanissimi da quei numeri, ma ci sono sempre più segnalazioni di ospedali i cui reparti di rianimazione (un altro nome per chiamare le terapie intensive) si stanno affollando creando situazioni serie, anche se ancora sotto controllo.
Secondo un rapporto dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica, prima dell’epidemia il rapporto tra anestesisti più rianimatori e i posti letto era di 2,5, cioè c’erano 2,5 medici per posto letto. Ma all’incremento dei posti non ha corrisposto un analogo aumento del personale degli ospedali, e perciò questo rapporto ora è sceso a 1,6 a livello nazionale. Per quanto riguarda il numero di posti letto in terapia intensiva sulla popolazione, invece, soltanto Veneto, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia sono sopra ai 14 posti per ogni 100mila abitanti, soglia di sicurezza fissata dal governo con il decreto rilancio.