Il futuro della moda è l’usato?

Si comprano sempre più abiti di seconda mano, e ora anche i marchi del lusso stanno cercando di fare affari in quel mercato

di Arianna Cavallo

(Jenny Evans/Getty Images)
(Jenny Evans/Getty Images)

Una frase che si dice sempre, quando si parla degli effetti della pandemia da coronavirus, è che ha accelerato tendenze e meccanismi già in corso da tempo. Vale anche per il mondo della moda, scardinato dall’epidemia: i grandi rivenditori fisici stanno chiudendo mentre crescono gli acquisti online, le settimane delle sfilate prima sono saltate e poi hanno cercato di rinnovarsi, le grandi catene di fast fashion (l’abbigliamento economico e di bassa qualità che propone le tendenze del momento, come H&M e Primark) sono in profonda crisi a beneficio del mondo del second-hand, gli abiti usati. Non solo quel mercato ha tenuto nonostante la pandemia, ma sta attirando anche i marchi di lusso: hanno compreso che è il momento di capitalizzare in modo diretto le richieste dei loro capi tra i rivenditori del vintage.

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In Italia, fino a una decina di anni fa, gli abiti di seconda mano – chiamati in inglese second-hand, pre-owned (pre-posseduti) e addirittura pre-loved (pre-amati) – erano acquistati da persone che non avevano molte possibilità economiche, oppure rivenduti in boutique di nicchia: «prima c’era lo stigma di comprare e di vendere usato; nelle grandi città c’erano dei negozi ma era una cosa da artisti e bohémien oppure per chi cercava soluzioni a basso prezzo per necessità, come i banchi che si trovano ancora in qualche mercato», spiega Giorgia Dell’Orto, una dei tre proprietari di Ambroeus, un negozio vintage aperto a Milano nel 2015 e citato per la sua qualità anche dal New York Times. «Adesso le cose sono cambiate, tanti nella fascia 20-40 anni si stanno rivolgendo al mondo dell’usato e del vintage: anni fa le persone sui 40 erano sul chi va là e quando entravano in negozio dicevano “oddio sono cose usate”, ma adesso no. Poi quest’anno con il lockdown c’è stato un cambiamento ancora diverso: molti stando a casa si sono resi conto delle cose che non usano e hanno deciso di liberarsene».

 

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Oggi comprare abiti usati non è solo un gesto sdoganato, ma anche alla moda. Le ragioni di questo successo sono molte e si sono sovrapposte tra loro. La prima è certamente economica, anche se in modo diverso rispetto a qualche anno fa: non si cercano più abiti a buon mercato ma di ottima qualità o di marchi di lusso che, nuovi, sarebbero troppo costosi. È anche una risposta all’omologazione imperante nel mondo della moda, soprattutto a causa del fast fashion, che spinge tutti a comprare le stesse cose grazie a un prezzo accessibile. Aiuta anche un forte ritorno di stili e di aziende che andavano nel passato, dagli anni Settanta-Novanta a marchi come Fila e Reebok.

Comprare usato consente quindi di pescare in un bacino ampio e variegato qualcosa di personale e originale, lo fa chi ricerca un capo prezioso e chi desidera uno stile che non ricalchi quello di tutti. Questo meccanismo è stato accelerato anche dall’arrivo dei social network e in particolare di Instagram. Hilary Bella Walker, proprietaria dei tre negozi di Bivio, il punto di riferimento nel second-hand a Milano, dice che «Instagram promuove l’idea dello stile personale e individuale, invita a osare e a mischiare le cose. Non c’è più solo la rivista di moda che ti presenta le ultime collezioni, vedi un sacco di persone che si vestono in modi diversi: questo stile personale lo ottieni prendendo pezzi che nessun altro ha, e questo lo fai in un negozio di seconda mano».

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Conta tanto anche l’attenzione crescente verso le problematiche ambientali: produrre continuamente nuovi capi a buon mercato che spesso avanzano e devono essere svenduti – o addirittura distrutti – inquina e comporta un enorme spreco di risorse, mentre riutilizzare un capo che è già sul mercato è la soluzione più etica e sostenibile. Questa sensibilità è molto diffusa tra i compratori più giovani (secondo un rapporto del 2019 di ThredUP e GlobalData, i millennials rappresentano il 33 per cento dei clienti dell’usato) e si è rafforzata durante la pandemia.

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In alcuni paesi, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, il mercato dell’abbigliamento di seconda mano è consolidato da anni e ha influenzato la nascita di quello in Italia. «A San Francisco il second-hand esiste dagli anni Settanta», racconta Walker, che si trasferì a Milano da San Francisco nel 1998 e aprì il primo Bivio nel 2012 perché «non c’erano negozi di second-hand interessanti: c’erano posti come i mercatini e altri fané, gestiti da sciure e non molto giovani. Se volevo vendere delle cose belle che non mettevo più, dovevo farlo a San Francisco».

In quell’anno Walker era tornata a Milano dopo una breve parentesi e aveva capito che «era il momento giusto» perché molte persone si erano abituate a comprare capi usati nei mercatini all’estero, come Notting Hill a Londra. Bivio rivende capi comprati solo da privati con criteri molto selettivi: una volta stabilito il prezzo di vendita in negozio, si può scegliere se venire pagati subito con il 33 per cento in contanti o il 50 per cento con un buono da spendere in negozio valido per un anno, cosa che spinge le persone a vendere e ricomprare: «non c’è niente di più personale di Bivio perché ci trovi le cose della gente di Milano, per cui riflettono molto la città», spiega.

 

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Il suo obiettivo programmatico è fare concorrenza al fast fashion, per questo i negozi hanno prezzi accessibili, si trovano in zone centrali e frequentate, sono aperti sette giorni su sette e propongono nuovi capi ogni giorno: «se vuoi toglierti uno sfizio e spendere poco, prima di andare da Zara vieni da Bivio e anziché un cappotto in acrilico te ne porti a casa uno di Max Mara in cashmere, che ha 30 anni ma che hai solo tu. In più noi incentiviamo all’acquisto perché tutti i nostri pezzi sono unici: se ci pensi troppo rischi di perderlo. Abbiamo ritmi da fast fashion ma senza pesare sulla catena di montaggio: non mettiamo niente in circolo che già non lo sia».

Oltre che nei nuovi negozi fisici, i clienti italiani si sono abituati a comprare usato anche online. Il negozio più famoso è probabilmente Depop: fondato nel 2011, è un social network simile a Instagram. Consente di aprire un negozio virtuale dove caricare le immagini dei singoli vestiti; le transazioni sono fatte dai privati e Depop ricava il 10 per cento da ogni vendita portata a termine dagli iscritti. Dentro c’è di tutto: magliette a 10 euro e borse da 150, anche se la fascia di prezzo generalmente non è molto alta. Chi vende si fa carico di tutto, dalla scelta del prezzo alla spedizione dell’articolo perché Depop è solo una piattaforma su cui appoggiarsi. È utilizzato sia da chi vuole avviare un negozio di seconda mano online, sia da chi vuole semplicemente disfarsi di qualche capo che non usa più. Durante la pandemia è andato bene: ad aprile ha avuto un aumento del traffico sulla app del 100 per cento rispetto all’aprile dell’anno precedente.

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Insieme a rivenditori più informali come Depop, stanno prendendo piede grandi rivenditori del lusso di seconda mano, come Vestiaire Collective, The RealReal, Chrono 24 e in parte Lyst, la più grande piattaforma mondiale di ricerche di moda con 9 milioni di utenti e 12mila negozi, tra cui alcuni di vintage e di usato.

Vestiaire Collective ha 10 milioni di iscritti in 90 paesi, vende 300mila capi di alta moda caricati da venditori privati e poi autenticati dai suoi oltre tremila esperti. È nato in risposta alla crisi del 2008 e ha retto bene anche quella del coronavirus: la fondatrice Fanny Moizant ha detto che «a giugno sulla app c’è stato un 210 per cento in più di nuovi utenti rispetto al giugno precedente». Anche The RealReal se l’è cavata: dall’inizio della pandemia, le vendite sono aumentate del 46 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; nel secondo trimestre dell’anno, i venditori privati hanno rappresentato il 9 per cento dei ricavi totali della piattaforma, rispetto al 6 per cento del trimestre precedente. The RealReal fu fondato nel 2011 da Julie Wainwright e ora è il più grande rivenditore di moda di seconda mano al mondo e ha anche quattro negozi fisici negli Stati Uniti. Non funziona tanto da intermediario, come Vestiaire Collective, ma acquista e rivende da privati la maggior parte dei capi. È stata la prima società di questo tipo a quotarsi in borsa, raccogliendo, nel 2019, una Offerta pubblica iniziale (IPO) di 300 milioni di dollari.

 

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Come spiega Walker di Bivio «quello del second-hand è un mercato anticiclico: se l’economia va bene, va bene, se l’economia va male, va bene lo stesso. Se un’azienda conta su un fornitore in Cina, ora è in crisi nera ma io conto sulla gente che compra troppo e che avrà sempre qualcosa che non mette più e che vorrà rivendere. Finché la gente ingrassa o dimagrisce, riceve regali non graditi, finché ci sono quelli che lavorano per gli stilisti e ricevono i capi scontati, io avrò sempre merce in inventario». Secondo gli esperti il mercato dell’abbigliamento dell’usato si ingrosserà sempre di più: a giugno la società Cowen ha stimato che quello online passerà dai 7 miliardi di dollari del 2019 ai 23 miliardi entro il 2023. A settembre Lyst ha monitorato gli acquisti e le ricerche dei suoi utenti e ha scoperto che c’è stato un aumento del 104 per cento nelle ricerche di moda online per la categoria “seconda mano” e che il termine “moda vintage” ha generato in media oltre 35.000 ricerche. La ricerca di borse vintage è cresciuta del 31 per cento su base mensile e del 46 per cento su base annua, soprattutto di Chanel, Louis Vuitton, Prada, Hermès e Fendi, mentre le ricerche mensili di scarpe usate sono aumentate del 29 per cento, soprattutto delle sneaker di lusso come quelle di Balenciaga, Dior, Yeezy e Off White.

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Viste le prospettive, sempre più aziende e marchi di lusso stanno cercando di entrare in questo mercato, considerato anche che finora non hanno tratto vantaggi dalla vendita nei negozietti e nei grandi rivenditori dei loro abiti e accessori. Levi’s ha lanciato un suo sito di abiti usati nel tentativo di ricavare qualcosa dalla sua popolarità nel mercato dell’usato. Ci stava pensando da tempo e si è convinto durante il lockdown perché ha «aumentato lo shopping online, l’interesse per la sostenibilità e l’importanza della Gen-Z [i nati tra il 1996 e il 2010, ndr], che è diventata una classe consumatrice di abiti di seconda mano» ha spiegato a Business of Fashion la direttrice del marketing Jennifer Sey; spera di attirare i più giovani con prezzi che vanno dai 30 ai 100 euro. Da agosto anche Zalando, Selfridges e Cos hanno un negozio di vendita di usato. Quest’ultimo, Resell, per ora è attivo in Germania e in Regno Unito e permette di rivendere abiti esclusivamente di Cos: è il venditore a stabilire il prezzo, caricare le foto e gestire la spedizione, la piattaforma si prende una commissione del 10 per cento.

Burberry e Stella McCartney hanno fatto delle collaborazioni con The RealReal mentre il 5 ottobre Gucci ha aperto un negozio sulla piattaforma che proseguirà fino a fine anno. Per ogni articolo di Gucci affidato in conto vendita a The RealReal negli Stati Uniti sarà anche piantato un albero attraverso l’organizzazione One Tree Planted, che combatte la deforestazione mondiale: un modo di spingere sull’immagine ambientalista ed etica del second-hand.

Finora i marchi di lusso si erano tenuti alla larga dal second-hand per timore di distogliere l’attenzione dai capi nuovi ma, come ha spiegato Guia Ricci del milanese Boston Consulting Group alla rivista Business of Fashion, ora stanno capendo che «il mercato di seconda mano non è dannoso per quello dei capi nuovi»: molti loro clienti comprano soprattutto usato e penetrare direttamente in questo mercato è un modo per convincerli ad acquistare un primo capo nuovo. Il meccanismo è lo stesso per i cosmetici e la piccola pelletteria, due settori che hanno consentito alle aziende di lusso di raggiungere un nuovo gruppo di consumatori, più giovani e disposti a spendere meno dei loro classici clienti. Negli ultimi tempi, su The RealReal sono aumentate le ricerche di Louis Vuitton, Chanel e di Gucci, quest’ultimo del 19 per cento nella prima metà del 2020.

 

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Per ora, spiega BoF, l’obiettivo dei grandi marchi nel mercato dell’usato non è economico: serve a raccogliere dati, capire per quanto tempo un prodotto resta interessante, dopo quanto tempo viene rivenduto, come si decidono i prezzi, cosa è richiesto e cosa no. Certamente la pandemia ha contribuito a spingerli in questo mercato: il mondo del lusso è in cerca di nuovi canali e nuovi clienti e deve anche ricavare qualcosa dai molti capi invenduti delle scorse stagioni.