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  • Venerdì 16 ottobre 2020

Cosa sta succedendo a Milano

I nuovi casi giornalieri sono in forte aumento, così come la pressione sugli ospedali, e il tracciamento dei contatti non sta funzionando: si parla di nuove restrizioni imminenti

(AP Photo/Luca Bruno)
(AP Photo/Luca Bruno)

Negli ultimi giorni i dati sul coronavirus a Milano sono diventati sempre più preoccupanti. Sia mercoledì che giovedì il numero dei nuovi contagi giornalieri nel comune di Milano ha superato 500, mentre nella prima settimana di ottobre si era registrata una media di 84: la provincia di Milano è arrivata ad avere metà dei contagi dell’intera Lombardia, la regione oggi più colpita dall’epidemia, e la città di Milano la metà dei contagi dell’intera provincia. In città si sta inoltre osservando una crescente pressione sugli ospedali, e le attività di contact tracing svolte dalle autorità sanitarie stanno andando molto a rilento.

Come ha segnalato il sindaco Giuseppe Sala, l’indice di trasmissione (Rt) ha superato 2, un valore piuttosto alto e ampiamente al di sopra della soglia di 1, considerato il livello di guardia e pari al valore medio nazionale calcolato dall’Istituto Superiore di Sanità nel suo ultimo rapporto. Per questo Sala sta considerando l’introduzione di nuove restrizioni.

La situazione a Milano viene considerata molto seria sia dall’amministrazione locale che dal governo regionale, perché nemmeno durante il picco dell’epidemia la città aveva fatto registrare un numero così alto di nuovi casi giornalieri (il record era stato 480, il 22 aprile, a lockdown inoltrato). Nessuno però parla ancora di vera emergenza, perché – come specificato molto negli ultimi mesi – i numeri di oggi sono difficilmente paragonabili a quelli della scorsa primavera, soprattutto il dato sui nuovi contagi: oggi facciamo molti più test, testiamo intere categorie di persone al di fuori degli ospedali, tra cui gli studenti, e scopriamo molti più asintomatici. Ci sono però alcune cose da tenere d’occhio per capire la situazione in città.

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La prima riguarda le difficoltà riscontrate dall’ATS di Milano nel fare contact tracing, cioè il tracciamento dei contatti dei positivi, attività fondamentale per contenere l’epidemia (ATS è la sigla delle Agenzie di Tutela della Salute, enti pubblici che gestiscono la sanità regionale lombarda, e che in altre regioni si chiamano ASL).

Come ha detto Vittorio Demicheli, direttore dell’ATS di Milano, il sistema di tracciamento è andato in crisi: l’ATS ha reclutato per il tracciamento tradizionale – quindi quello che si fa chiamando per telefono ciascun contatto di ogni persona risultata positiva – 150 assistenti sanitari, che però sembrano essere insufficienti. Avendo migliorato la capacità di fare i tamponi, e quindi di individuare i positivi anche tra gli asintomatici, e trovandoci in una situazione di non lockdown, il numero di contatti da chiamare per gli assistenti sanitari sta diventando sempre più alto. Il rischio è quindi non riuscire a interrompere in tempo le catene di contagio, permettendo a persone potenzialmente contagiose di continuare ad andare al lavoro e avere contatti sociali.

Un medico di famiglia che ha lo studio a Milano ha detto al Post di avere saputo direttamente dall’ATS che le attività di contact tracing «sono in ritardo di venti giorni»: un’enormità, e un lasso di tempo che rende praticamente inutile fare il tracciamento dei contatti dei positivi.

Secondo il medico nelle ultime settimane si era creato un grande sovraccarico di lavoro nelle ATS, prima a causa dei tamponi che venivano realizzati alle persone che rientravano dall’estero, alla fine delle vacanze, e poi per la riapertura delle scuole, e il grande numero di test eseguiti sui bambini. A questo riguardo, giovedì il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha detto: «Bisognerebbe sapere dove nascono i contagi. Più dove nascono che dove vengono rilevati. Per esempio nelle scuole non nasce un grande contagio, magari si rileva, sono luoghi più vigilati, e al rilevarsi del contagio c’è la possibilità di un tracciamento immediato».

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Per capire l’andamento dell’epidemia a Milano, e valutarne la gravità, c’è da guardare soprattutto la situazione negli ospedali cittadini, che durante la cosiddetta “prima ondata” se l’erano cavata piuttosto bene, anche grazie a una diffusione del virus molto più contenuta rispetto ad altre città e province lombarde. Tra marzo e aprile, infatti, gli ospedali milanesi erano riusciti ad accogliere pazienti di terapia intensiva trasferiti da altre strutture della regione, come gli ospedali di Bergamo e Cremona, parecchio più in difficoltà. Oggi non è più cosi.

Negli ultimi giorni alcuni ospedali di Milano hanno mostrato le prime serie difficoltà: al momento a essere più sotto pressione non sono tanto le terapie intensive – che hanno ancora diversi posti letto liberi e possono contare su un certo numero di “piani b”, diciamo così – quanto piuttosto gli altri reparti.

Il San Carlo e il San Paolo hanno detto di avere esaurito i posti letto nelle terapie sub intensive, e il direttore generale della Asst di riferimento, Matteo Stocco, ha raccontato che il ricovero di tutti i pazienti arrivati in pronto soccorso è stato possibile solo grazie all’apertura di reparti aggiuntivi e alla riconversione di una specifica area della struttura. La situazione sta diventando seria anche al Niguarda, nel nord di Milano, dove negli ultimi giorni c’è stato un aumento significativo del numero di pazienti arrivati in pronto soccorso con sintomi respiratori: nella grande maggioranza dei casi, ha detto Andrea Bellone, responsabile del pronto soccorso, questi pazienti non hanno bisogno di rianimazione, ma di ossigeno a basso flusso, cortisone e anticoagulante. Al Policlinico la pressione ha iniziato a farsi sentire nell’ultima settimana, durante la quale i ricoveri sono tendenzialmente raddoppiati sia nelle terapie intensive che nei reparti: la situazione, comunque, è definita «sotto controllo».

Il reparto di pronto soccorso dell’ospedale Sacco ha deciso di accettare nei reparti di pneumologia e in uno di medicina interna solo malati con la COVID-19, dirottando su altri ospedali milanesi i pazienti con altre patologie non correlate al coronavirus. La decisione è stata presa per tutelare i malati non affetti da COVID-19 e garantire loro comunque cure mediche. Il Sacco sembra essere in difficoltà anche per quanto riguarda i posti di terapia intensiva: un medico anestesista di un grande ospedale della provincia di Milano ha detto al Post che il Sacco ha smesso di accettare pazienti di terapia intensiva trasferiti da altre strutture per la mancanza di posti letto disponibili.

Oggi circa la metà dei pazienti con la COVID-19 ricoverati nelle terapie intensive della Lombardia si trova in ospedali milanesi, e in particolare al Niguarda, al Policlinico, al Sacco e al San Carlo. Si parla di oltre una trentina di persone, un numero non estremamente preoccupante, se si considera che di posti disponibili ce ne sono ancora. Non vanno infatti considerati solo i posti attualmente disponibili, ma anche quelli che lo saranno quando il numero di ricoveri nelle terapie intensive supererà delle soglie stabilite a giugno dalla regione Lombardia, e che porterà gli ospedali a destinare sempre più spazio ai pazienti positivi al coronavirus (ora siamo al livello 1 di 4: al raggiungimento del livello 3, per esempio, è prevista la riapertura dell’ospedale in Fiera).

Negli ultimi giorni a Milano si sta discutendo di introdurre nuove restrizioni, che potrebbero essere adottate anche in altre zone della Lombardia dove si stanno registrando numeri preoccupanti, come le province di Monza e Brianza e di Varese. Si sta parlando per esempio di didattica a distanza per le scuole superiori, di limitazioni orarie al cibo da asporto e a ulteriori restrizioni su riunioni ed eventi pubblici. Una decisione potrebbe già essere presa nelle prossime ore.