Cosa fu la “marcia dei quarantamila”
Il 14 ottobre del 1980 – quarant'anni fa – migliaia di impiegati, quadri e dirigenti della Fiat sfilarono per le vie di Torino contro i sindacati, e fu un fatto storico per vari motivi
La mattina del 15 ottobre del 1980 in prima pagina sulla Stampa occupava gran parte dello spazio una notizia, introdotta così dall’occhiello: «Nella lunga crisi di Torino si affacciano due avvenimenti imprevisti». Uno era l’ordinanza della procura della Repubblica che consentiva ai lavoratori di entrare nello stabilimento Fiat di Mirafiori, i cui operai erano in sciopero da 34 giorni. L’altro avvenimento, che avrebbe avuto un’eco e delle conseguenze ben più vaste della decisione della procura, era un corteo partito alle 10,30 del 14 ottobre da corso Massimo d’Azeglio, all’altezza di via Petrarca. Nel corteo, composto secondo La Stampa da trentamila persone e secondo altre fonti da quarantamila, c’era «l’altra faccia di Torino», cioè i quadri e gli impiegati della fabbrica. Tra i manifestanti che attraversarono silenziosamente la città si leggevano cartelli come «Vogliamo la trattativa, non la morte della Fiat», e «No al sindacato padrone».
La “marcia dei quarantamila”, come sarebbe stata definita in seguito, è un evento che è stato poi caricato di significati che vanno oltre la specifica vertenza del 1980: in un certo senso è diventata il simbolo di un pezzo di storia d’Italia che è venuto dopo quel 14 ottobre, cioè gli anni Ottanta del “riflusso” e il progressivo indebolimento del sindacato all’interno delle fabbriche.
L’antefatto
In quel periodo la Fiat era in una situazione complicata. Da un lato, dopo anni di crescita, il settore dell’automobile soffriva di una riduzione della domanda, cosa che stava causando perdite economiche rilevanti per l’azienda; dall’altro, il sindacato dei metalmeccanici si rifiutava categoricamente di accettare le condizioni poste dai dirigenti per superare la crisi, in sostanza la cassa integrazione – un sussidio che integra parte dello stipendio dei lavoratori per evitarne il licenziamento – di gran parte dei dipendenti, o il loro licenziamento. La frattura sembrava insanabile: l’11 settembre la Fiat aveva preannunciato il licenziamento collettivo di quasi 15mila lavoratori, in gran parte operai con sede a Torino, e il consiglio sindacale di Mirafiori, composto da diverse organizzazioni, proclamò lo sciopero generale.
Lo stabilimento fu chiuso, la produzione bloccata e l’ingresso picchettato. La linea scelta dai sindacati era quella dello scontro frontale, riassunta in una frase diventata poi famosa dell’allora segretario della UIL Giorgio Benvenuto: «O la Fiat molla, o molla la Fiat». L’intervento del Partito Comunista contribuì poi a polarizzare le due posizioni: il 26 settembre il segretario Enrico Berlinguer andò davanti ai cancelli di Mirafiori dicendo che «se si arriverà all’occupazione della Fiat noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee».
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La trattativa era così complessa e implicava decisioni così rilevanti che Cesare Romiti, allora amministratore delegato insieme a Gianni Agnelli, chiese proprio ad Agnelli di restarne fuori: «Comunque fosse andata», raccontò anni dopo Romiti, «bisognava che gli azionisti restassero fuori dalla vertenza». I problemi che fecero allungare le trattative erano soprattutto due, collegati tra loro: mentre i sindacati chiedevano che la cassa integrazione toccasse a tutti i dipendenti a turno, la Fiat voleva invece che ci andassero degli operai specifici, per risolvere l’altro problema, cioè quello dell’instabilità della situazione in fabbrica.
La marcia
Dopo 33 giorni di stallo una parte fin lì non considerata dello stabilimento si mobilitò. Il corteo era stato annunciato da un’assemblea, a seguito della quale i capisquadra, i capireparto e altri quadri intermedi si radunarono al Teatro Nuovo e iniziarono il corteo verso Palazzo Civico, la sede del municipio. Secondo il racconto del cronista di Repubblica Salvatore Tropea, che seguì tutta la vicenda, la marcia fu organizzata con l’appoggio di Romiti e di altri dirigenti della Fiat.
In occasione della morte di Romiti, avvenuta lo scorso agosto, Giorgio Benvenuto è tornato a esprimersi sui fatti di quei giorni. Ha detto che mentre era in corso la marcia e cominciavano ad arrivare i primi lanci di agenzia, lui e gli altri leader sindacali erano in trattativa all’hotel Boston di Roma proprio con Romiti: si era in procinto di chiudere l’accordo. Ma alla notizia dei quadri in protesta contro lo sciopero, Romiti si alzò e disse: «Mi dispiace, Agnelli mi ha sconfitto. L’accordo non si può fare».
A fare da sfondo a quel che accadeva a Torino, c’era un clima di violenza politica che si viveva nelle maggiori città italiane da quasi un decennio. Ad agosto c’era stata la bomba alla stazione di Bologna dove furono uccise 85 persone, mentre solo poco più di un anno prima a Torino era stato ucciso un dirigente Fiat, Carlo Ghiglieno, proprio vicino al punto dove partì la “marcia dei quarantamila”. L’obiettivo spesso dichiarato della lotta armata di sinistra erano i cosiddetti “colletti bianchi”, cioè impiegati e quadri, cosa che contribuì alla mobilitazione del 14 ottobre.
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Il giorno dopo i tre leader di CGIL, CISL e UIL, Benvenuto, Luciano Lama e Pierre Carniti andarono a Torino, accolti con poco entusiasmo dagli operai («Carniti viene preso a ombrellate», ha raccontato Tropea). Infine, due giorni dopo, la trattativa si concluse in favore della linea della Fiat: 22mila lavoratori in cassa integrazione.
Il significato
La “marcia dei quarantamila” è considerata dagli esperti e dagli storici come un punto di svolta nelle relazioni industriali, ma anche come il primo passaggio di un percorso che avrebbe portato a una profonda trasformazione nella società: gli operai, da quell’episodio in poi, cominciarono progressivamente a perdere il loro peso e il loro ruolo di motore delle trasformazioni sociali.
Come ha scritto lo storico Aurelio Lepre, per più di due decenni la società italiana era stata composta da blocchi omogenei: gli operai, gli impiegati, i commercianti, i cui membri avevano perlopiù gli stessi interessi. Gli operai in particolare erano accomunati da un sentimento di appartenenza che aveva permesso loro di raggiungere importanti traguardi come lo Statuto dei lavoratori introdotto nel 1970. Nel decennio successivo, invece, l’omogeneità della classe operaia venne meno, anche a causa delle trasformazioni tecnologiche e del cambiamento del contesto intorno.
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Lo ha raccontato efficacemente il giornalista Gad Lerner nel suo libro Operai, uscito nel 1988. Secondo Lerner la sconfitta sindacale del 1980 segna l’inizio della fine degli operai e del ruolo che avevano avuto fino a quel momento, un processo che in realtà la Fiat aveva iniziato anni prima:
Quando, nei mesi immediatamente precedenti la sconfitta, CGIL CISL e UIL contrattavano, predicavano, invocavano il “diritto d’informazione” sui processi di ristrutturazione delle aziende, era ormai troppo tardi. Quella ristrutturazione si era già in gran parte realizzata, inavvertita, seminascosta dal gran turbinìo degli anni Settanta, ben architettata tramite il riassetto finanziario della Fiat avviato nel 1973 e concluso nel ’79, i pieni poteri assunti da Romiti nel 1974, i primi, diffusi esperimenti di automazione.