Una canzone dei Catherine Wheel
Sulle cose che è meglio dire prima che sia troppo tardi
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David Crosby si è preso un po’ di insulti online per avere risposto “meh” (che è come da vent’anni gli americani dicono “bah”) alla richiesta di un parere su Eddie Van Halen, che era morto la settimana scorsa. Poi Crosby si è scusato e ha detto che non ricordava della sua morte.
Purtroppo l’ho scoperto anch’io solo ieri sera, grazie a uno di voi, che c’è un concerto trasmesso online dei Divine Comedy al Barbican di Londra (posto stupendo di brutalismo inglese) stasera, e faccio in tempo a dirvelo che è già cominciato.
Lo scrittore americano Don Winslow ha fatto un video contro Donald Trump in arrivo in Pennsylvania, usando The streets of Philadelphia di Bruce Springsteen.
Matt Berninger sta facendo un po’ di tutto in promozione del suo disco che esce dopodomani, compreso mostrare i suoi dischi a casa sua, cominciando da uno di cui parlammo. E soprattutto, chetticredi?
Untitled outro
Dicevamo ieri di quella cosa di chitarra-basso-batteria, e che sono sempre stati più bravi gli americani. I britannici – che in questo caso non è il termine generico che i giornalisti usano quando non sanno se uno è inglese, gallese, scozzese o cosa: ma vuol dire proprio tutti quanti questi – sono più bravi in altre cose. Però non è che non esistano considerevoli eccezioni: alcune famose, altre meno.
I Catherine Wheel erano quattro, chitarra-chitarra-basso-batteria, e inglesi. Avevano un nome dolce ma un po’ tremendo, che veniva da uno di quegli strumenti di tortura medievali che oggi espongono in quegli stupidi musei che attraggono stupidi visitatori in cerca di brividi. Chissà come andò, il cantante dei Catherine Wheel si chiama Rob Dickinson ed è cugino di Bruce Dickinson, quello di quell’altra band il cui nome viene da uno strumento di tortura: Iron Maiden. Durarono tutti gli anni Novanta e finirono per piacere più agli americani che al paese loro.
Il loro disco migliore, meno aggressivo di altri, è del 1997 e fu prodotto da Bob Ezrin che è uno che ne ha fatte mille, da Peter Gabriel a Bocelli. C’era dentro quest’altro bel pezzo, per esempio. E finiva con una chitarra di gran dolcezza, conclusiva: una canzone di tre strofe dritte, su un ragazzo che telefonò a questa ragazza, ma lei se n’era andata da anni e lui ci rimase male, ché non lo sapeva e voleva salutarla, e dirle un sacco di cose che non le aveva ancora detto.
Its a song about a boy who phones this girl
But she left town years before
And he’s pissed off that he didn’t know
Cause he wanted to say goodbye
Tell her how he missed her
To wish her good luck
Put it to rest
All that unfinished business
E adesso, per via di questa storia, finirà che tutti quanti qui, da domani (già stasera? meglio di no, che combiniamo casini) ci mettiamo a chiamare tutti quelli che hanno pensato che fossimo degli stronzi insensibili per dir loro qualcosa di carino, e che ci teniamo, e tanti saluti.
So I’m gonna phone every one that I’ve known
Through the downs and the ups
And who I suspect have written me off
As an insensitive fuck
And say good luck and goodbye
E saremmo tutti contenti. Sarebbe bello.
And they’d feel good
And I’d feel good
We’d all feel good
That would be so good
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