L’articolo del New York Times su cosa sta sbagliando il New York Times
Il quotidiano ha pubblicato un'analisi sugli errori di una sua famosa reporter, che descrive qualcosa di più grosso su dove starebbe andando il giornale
Dopo gli estesi dubbi emersi riguardo alla solidità giornalistica del podcast Caliphate, pubblicato dal New York Times e scritto dall’esperta di terrorismo Rukmini Callimachi, il giornalista Ben Smith, che al New York Times si occupa di media e giornali, ha scritto un lungo articolo ricostruendo i probabili errori e le trascuratezze che hanno portato alla pubblicazione del podcast, arrivando a criticare alcune derive recenti e diverse figure importanti del quotidiano. È un caso di cui si sta discutendo molto tra gli addetti ai lavori, e che è interessante più che per la vicenda in sé per quello che racconta su come le trasformazioni che stanno interessando il giornalismo stiano influenzando anche il quotidiano più autorevole e rispettato al mondo.
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Caliphate era uscito nel 2018, era composto da dieci puntate e tutta la prima parte ruotava intorno all’incredibile testimonianza di Abu Huzayfah, un foreign fighter canadese (Abu Huzayfah è il suo nome di battaglia) che diceva di essersi unito nel 2014 allo Stato Islamico e di aver combattuto in Siria per due anni, raccontando tra le altre cose di aver ucciso dei prigionieri condannati a morte, con grande dovizia di particolari drammatici. Un paio di settimane fa, Huzayfah – il cui vero nome è Shehroze Chaudhry – è stato arrestato in Canada, con l’accusa di essersi inventato tutta la storia della sua appartenenza all’ISIS, e di averlo fatto intenzionalmente per «generare paura nelle nostre comunità e creare l’illusione di una potenziale minaccia nei confronti dei canadesi».
L’arresto di Huzayfah ha fatto emergere grandi dubbi sui fatti raccontati in Caliphate, che in realtà erano già stati messi in parte in discussione diverse volte dopo la sua pubblicazione. Callimachi è stata criticata da molti colleghi ed esperti di terrorismo e Medio Oriente, si è riparlato di altre volte in cui aveva pubblicato articoli non molto solidi, e il direttore del New York Times Dean Baquet avrebbe dato incarico a un team di giornalisti di ricominciare da capo tutte le ricerche sulla vicenda, per ricostruire se eventualmente qualcosa fosse andato storto.
Da alcuni mesi, il media columnist del New York Times è Ben Smith, 43enne che era stato direttore del sito BuzzFeed News e che da anni è tra i più seguiti osservatori e commentatori del giornalismo. Smith si è subito distinto al New York Times per un approccio particolarmente aggressivo, e per non trattenersi molto nel descrivere e indagare aspetti e storie sconvenienti del giornalismo americano, che pure è noto per una grande trasparenza e per dedicarsi spesso al racconto dei media e delle persone che ci lavorano senza quell’approccio autoassolutorio e corporativista tipico del giornalismo di altri paesi.
Ciononostante, l’indagine di Smith su Caliphate è qualcosa che va oltre: e lo scrive a un certo punto lui stesso, quando in un passaggio spiega che le due figure di cui sta parlando sono «il capo del capo del mio capo e il capo del mio capo, rispettivamente, e il fatto che scriva del Times mentre sono sul suo libro paga porta con sé tutta una serie di potenziali conflitti di interesse, e in generale è un po’ un incubo».
Parlando con decine di persone nel giornale, Smith ha ricostruito che dei dubbi sull’autenticità di Caliphate emersero fin dalle fasi della produzione. I redattori che esaminarono i testi – proprio per decidere se erano sufficientemente solidi – capirono subito che tutto dipendeva dall’attendibilità della testimonianza di Huzayfah, che in quel momento non era dimostrabile. Il New York Times decise quindi di cercare «disperatamente» delle prove. Per questo, per esempio, Callimachi chiese a un giornalista freelance in Siria che le aveva scritto per caso un complimento di chiedere in giro per la città di Manbij, in cui si trovava, se qualcuno conoscesse Huzayfah.
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Il giornalista pensò che fosse un compito senza senso, visto che l’ISIS era stato cacciato da Manbij da due anni, ma lo fece comunque, finché dovette allontanarsi dopo avere attirato troppe attenzioni al mercato locale. Le ricerche di altre persone che avevano ricevuto lo stesso incarico dal New York Times non ebbero successo: sembrava che nessuno conoscesse Huzayfah.
Un altro giornalista del New York Times, però, ricevette conferma da due fonti nell’FBI che Huzayfah aveva fatto parte dell’ISIS, anche se non riuscì a scoprire quali prove avessero. Ma fu giudicato abbastanza, e Caliphate fu pubblicato con grande pubblicità, ed ebbe un gran successo e diversi riconoscimenti. Le prime cinque puntate erano sulla storia di Huzayfah, che però veniva un po’ messa in discussione nella sesta puntata, in cui si raccontavano proprio gli sforzi di Callimachi per confermarla. Ma, come dice Smith, il messaggio implicito era ovvio: non se l’era inventata.
Anche se non si conoscono nel dettaglio le accuse dietro all’arresto di Huzayfah, è bastato perché la serietà del lavoro di Callimachi fosse messa in discussione da tanti colleghi e analisti. Uno dei redattori più importanti del New York Times ha ricevuto il compito di approfondire i processi che hanno preceduto la pubblicazione del podcast, e un altro sta cercando di capire se Huzayfah sia mai stato in Siria.
Secondo Smith l’intera vicenda non è una questione isolata, ma racconta delle cose su quel che starebbe diventando il New York Times. «La crisi che circonda il podcast riguarda tanto il Times quanto Callimachi». Perché la giornalista, dice Smith, è «il nuovo modello del reporter del New York Times», in quanto combina sia il coraggio dei giornalisti “vecchia scuola”, quelli che si “consumano le scarpe”, sia l’abilità a interpretare le tendenze di Twitter e a intuire quali storie andranno forte online. Anche per questo, si guadagnò la stima e il sostegno di alcune figure importanti al giornale, come quello che sembra il più probabile successore dell’attuale direttore, Joe Kahn, e il coordinatore della sezione audio Sam Dolnick, che fa parte della famiglia Ochs/Sulzberger, che possiede il giornale.
Questo, secondo Smith, la aiutò a uscire indenne da alcuni problemi che ebbero i suoi articoli, criticati da altri colleghi del New York Times tra cui il corrispondente di guerra C.J. Chivers, che avvertì i caporedattori del suo presunto sensazionalismo e delle inaccuratezze in alcuni suoi pezzi.
Secondo Smith, queste caratteristiche di Callimachi riflettono una trasformazione più profonda del New York Times, da «noioso paper of records», un termine che nel giornalismo americano indica un quotidiano straordinariamente autorevole e affidabile, a «succosa raccolta di grandi storie». Quest’approccio però porta con sé dei rischi, perché «i giornalisti in cerca di storie terrificanti troveranno delle fonti tra i terroristi smaniose di terrorizzare», senza andare incontro a troppi rischi di smentite, parlando di organizzazioni misteriose e senza un ufficio stampa pronto a rettificare.
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Il problema di Callimachi, hanno detto diverse persone a Smith, è che a volte con le sue ricerche cercava conferme alla storia che aveva già in mente, invece che fare l’operazione opposta. Ma altri hanno spiegato che non è un problema soltanto suo: ora si sta parlando dei suoi errori, ma potrebbero esserci tanti altri colleghi al suo posto. Nel caso di Callimachi, però, la sua fama e la sua influenza hanno reso tutto più interessante per i media americani. Smith racconta ad esempio che i suoi articoli furono citati dal consigliere del presidente Donald Trump Sebastian Gorka per parlare del rischio che l’ISIS facesse attacchi negli Stati Uniti. In Canada, invece, il podcast Caliphate influenzò il dibattito sulle leggi sui foreign fighters, che poi si concluse con una legge che vietava il rimpatrio delle loro mogli e dei loro figli.
Secondo Alia Malek, direttrice del corso di reporting internazionale alla Newmark Graduate School of Journalism dell’Università di New York, l’approccio di Callimachi riflette poi la tendenza a dare più importanza, nell’esposizione delle storie di terrorismo, alle motivazioni legate alla cultura e alla religione, più che a quelle individuali e legate alle conseguenze delle politiche statunitensi in Medio Oriente. Tra chi ha invece difeso Callimachi c’è stato Adam Goldman, che al New York Times si occupa di FBI, che ha detto a Smith: «È spregiudicata? Sì, lo sono i migliori giornalisti. Nessuno di noi è infallibile».
Secondo Smith, anche se certe ricostruzioni hanno descritto le mancanze di rigore di cui è accusata Callimachi come una specie di deriva isolata al New York Times, la sua indagine interna rivela un’altra cosa. «Che ha risposto a quello che i responsabili maggiori del giornale chiedevano, e con il loro sostegno».