Com’è finita a Wuhan
Nella città cinese che fin dall'inizio abbiamo associato alla pandemia la vita è tornata molto più simile a quella di prima, rispetto all'Europa
Wuhan fu al centro delle cronache internazionali per settimane e settimane, all’inizio di quest’anno. Poi, quando il coronavirus venne scoperto man mano in tutti i paesi del mondo, le notizie dalla metropoli cinese da cui si pensa sia cominciata la pandemia si fecero sempre più sporadiche. Peter Hessler, giornalista americano esperto di Cina, ci è stato per alcuni giorni, raccontando che aria tira in un lungo articolo pubblicato dal New Yorker. La vita in città oggi è tornata a “una relativa normalità”, come si dice, che è molto più normale di quella della maggior parte dei paesi europei: non vengono registrati contagi da mesi, e pian piano hanno ripreso anche gli eventi che prevedono assembramenti al chiuso, dalle serate in discoteca alle partite nei palazzetti con il pubblico.
Tra il 23 gennaio e l’8 aprile, Wuhan fu sottoposta a un lockdown durissimo, come non se ne sarebbero visti nemmeno nei paesi che presero le misure più severe come l’Italia. Tutti in città si ricordano le date più importanti della scorsa primavera, racconta Hessler. Vengono menzionate con le parole fengcheng, “città sigillata”, e jiefeng, “togliere il sigillo”.
Le immagini degli abitanti positivi al coronavirus trascinati fuori dalle loro case da funzionari statali vestiti con tute e mascherine generarono polemiche all’estero e sofferenze tra chi le subì. L’architetto Kyle Hui ha raccontato a Hessler che sua madre morì di COVID-19 a gennaio. Dopo aver raggiunto la città per la cerimonia di cremazione, Hui tornò a casa nella provincia di Jiangsu. Pochi giorni dopo Wuhan fu messa in lockdown, e un gruppo di funzionari gli sigillò il portone con del nastro che indicava che ci era stato di recente. All’inizio Hui protestò, ma gli fu detto che in alternativa sarebbe stato portato in un centro di isolamento.
Successe un po’ ovunque, in Cina: anche a Chengdu, a oltre mille chilometri di distanza, dove vive Hessler. I funzionari passavano diverse volte al giorno a chiedere se qualcuno era stato nella provincia dell’Hubei, quella di Wuhan: nel quartiere di Hessler trovarono una persona che era tornata da poco, la testarono e risultò positiva, anche se non aveva sintomi. Nel tempo si è convinto che quelle rigidissime misure furono necessarie, ha detto a Hessler.
Dopo alcune settimane di ritardi e confusione (e insabbiamenti, dicono molti indizi) dovuti al panico della scoperta di una nuova polmonite virale, le procedure di contact tracing e isolamento organizzate in Cina furono massicce, a partire dalla metà di gennaio. Diecimila persone furono messe al lavoro soltanto a Wuhan per fare le indagini epidemiologiche e il tracciamento dei contatti; gli operatori sanitari vissero per mesi in albergo; moltissimi edifici e locali furono riadattati per garantire il distanziamento e posti in cui tenere i positivi in isolamento.
Un impresario edile ha raccontato a Hessler che in quelle settimane gli operai guadagnavano l’equivalente di centinaia di dollari al giorno, per via dei rischi di contagio e degli orari estenuanti. I compensi arrivarono fino a 7.000 dollari in una settimana, e comunque non si trovavano abbastanza persone disposte a lavorare. A un certo punto, l’impresario decise di rimanere con loro nei cantieri per dimostrare che non c’erano pericoli. In realtà non lo sapeva nemmeno lui, perché all’inizio le comunicazioni ufficiali furono molto frammentarie.
Il bilancio ufficiale dei morti a Wuhan è di 3.869, ma un esperto di malattie infettive che lavorò nella città ha detto a Hessler di ritenere che siano stati fino a tre o quattro volte di più. A lungo molti malati e molti morti non furono testati (una cosa successa un po’ ovunque nel mondo, anche in Italia). Il bilancio ufficiale nel resto della Cina è straordinariamente più basso: a Pechino risultano soltanto 9 morti. Non si sa quanto siano affidabili i dati cinesi, ma sicuramente la disastrosa gestione delle prime settimane di epidemia a Wuhan provocò moltissimi morti, che altrove si evitarono grazie alle rigidissime misure applicate in seguito.
A Wuhan, però, non viene registrato un caso di trasmissione locale di coronavirus dal 18 maggio. Hessler scrive che è la città più testata della Cina – «non ho mai incontrato un tassista che non abbia fatto almeno due volte il tampone» – con i suoi 321 centri dedicati e talmente tanti operatori che a giugno ne furono mandati una settantina a Pechino per aiutare a contenere l’epidemia. Oggi a Wuhan i cinema sono aperti, così come le discoteche, e nei ristoranti non ci sono particolari restrizioni sui posti a sedere. Le persone indossano la mascherina un po’ ovunque, ma per il resto non ci sono grandi misure per evitare assembramenti e garantire il distanziamento. L’inizio dell’anno accademico è stato celebrato con cerimonie con migliaia di studenti in spazi chiusi, per esempio. Hessler ha anche portato i suoi occhiali da sole a riparare al mercato coperto del pesce, il luogo dove si pensa sia cominciato il contagio.
In realtà non è detto che il contagio sia partito dal mercato del pesce di Wuhan. Lì furono scoperti i primi casi della misteriosa polmonite, e il fatto che venissero venduti animali selvatici vivi ha fatto supporre che il coronavirus abbia fatto lì il famoso spillover, il passaggio di specie. In realtà in quel mercato erano pochi i banchi in cui si vendevano animali vivi, perché a Wuhan non ne se ne mangiano molti. Sono più popolari in altre città, come Guangdong, e infatti c’è chi crede che la pandemia possa essere cominciata lì.
Peter Daszak, scienziato esperto di coronavirus che ha lavorato all’Istituto di Virologia di Wuhan per sedici anni, ha spiegato a Hessler che secondo lui il virus circolava già settimane prima che fosse scoperto al mercato. A Wuhan d’inverno ci sono pochi pipistrelli, animali che molto probabilmente sono stati tra quelli che hanno portato il coronavirus fino all’uomo (anche se si crede che l’ultimo animale della catena possa essere stato un pangolino).
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Secondo le sue ricerche, nel Sud Est Asiatico ogni anno oltre un milione di persone sono contagiate da coronavirus che provengono da pipistrelli. «Di solito si tratta di persone che vivono vicino alle caverne in cui ci sono i pipistrelli, che di notte si muovono defecando e urinando. Feci e urine finiscono su superfici o vestiti, e qualcuno le tocca e poi si porta le mani alla bocca» ha spiegato Daszak.
C’è chi dice che si sarebbero potute avere prove più certe per ricostruire l’origine del contagio se il mercato di Wuhan fosse stato trattato diversamente dopo la scoperta dei contagi. Ma è normale, ha spiegato Daszak: se si scopre un nuovo virus si mandano i dottori, che pensano prima di tutto a pulire l’area e a fermare le infezioni.
Una teoria complottista molto diffusa dice che fu proprio l’Istituto di Virologia di Wuhan ad aver creato il virus, sfuggito poi dal laboratorio. Non c’è nessuna prova che sia successo niente di simile, e anzi sembra molto improbabile. In Cina gli scienziati sono sottoposti a grandissime pressioni per pubblicare le loro scoperte, ha spiegato Daszak, e se fosse stato scoperto un coronavirus come quello che provoca la COVID-19, capace di contagiare l’uomo, sarebbe stato senz’altro reso noto. All’Istituto di Virologia di Wuhan erano invitati di continuo scienziati stranieri, a testimonianza che non erano in corso esperimenti segreti. Non a caso, l’Istituto fu rapidissimo nel pubblicare la sequenza del genoma del virus, per permettere al resto del mondo di lavorarci sopra.
Il problema non fu la reazione degli scienziati, a Wuhan, ma quella della politica locale, che inizialmente cercò di insabbiare le scoperte sull’estensione del contagio e la gravità della malattia causata dal virus. È una dinamica frequente, in Cina: quando si resero conto di aver sbagliato a valutare ciò che stava accadendo, i funzionari cercarono di non farlo sapere ai superiori. Ma tra gli esperti c’è comunque chi riconosce che gestire una situazione di quelle proporzioni, senza saperne niente, era difficilissimo. Secondo Jennifer Nuzzo, epidemiologa del Johns Hopkins Center for Health Security, ha detto a Hessler che «è irrealistico pensare che un qualsiasi paese avrebbe saputo fermare questo virus all’origine».
Un giornalista di Wuhan ha raccontato a Hessler che nelle prime settimane di gennaio lavorare in un giornale aveva qualcosa di anomalo rispetto al solito: c’era una libertà mai vista, tanto che emersero storie come quella di Li Wenliang, medico che fu tra i primi a dare l’allarme sul coronavirus e fu per questo messo a tacere dal governo cinese (morì poi a febbraio, dopo essersi contagiato). Già da febbraio le cose cambiarono, e il governo impose una rigidissima censura.
Il giornalista ha spiegato che molti scienziati e funzionari che lavorarono al contenimento dell’epidemia si sono rifiutati di parlare, dicendo che forse racconteranno quello che sanno tra dieci anni, se il clima nel frattempo sarà cambiato. Secondo Hessler, passati alcuni anni, scopriremo pian piano molte cose in più su quelle settimane di gennaio a Wuhan: «ma questo ritardo è importante per il Partito Comunista Cinese. Gestisce la storia come ha gestito la pandemia: un periodo di isolamento è cruciale».
Chiedendo ai suoi interlocutori cosa ha lasciato l’epidemia alla città, Hessler ha ricevuto risposte molto diverse, da chi ne è uscito più diffidente nei confronti del governo a chi è più fiducioso. Ma i mesi passati, hanno detto tutti, hanno confermato molte cose che sappiamo sulla Cina. Un paese in cui lo Stato non ha mai sentito l’esigenza di spiegare ai suoi cittadini in dettaglio cosa stesse succedendo, sapendo che la popolazione era disposta ad accettare misure severissime per contribuire al contenimento del virus. Se fosse andata come negli Stati Uniti, in proporzione, la Cina avrebbe avuto oltre un milione di morti.