Chi era Kenzo, che faceva moda per divertirsi

Lo stilista giapponese è morto a 81 anni per il coronavirus: sarà ricordato per le stampe brillanti e le sfilate sorprendenti

Kenzo Takada nella sua casa a Parigi nel 2009
(AP Photo/Jacques Brinon, file)
Kenzo Takada nella sua casa a Parigi nel 2009 (AP Photo/Jacques Brinon, file)

Kenzo Takada, tra i primi stilisti giapponesi a diventare popolare in occidente, è morto a 81 anni domenica 4 ottobre, in un ospedale di Parigi dov’era ricoverato a causa del coronavirus. Chiamato semplicemente Kenzo, arrivò dal Giappone a Parigi nel 1964, dove pensava di restare sei mesi e dove si fermò per 56 anni. Si trovò a suo agio con l’urgenza di allora di rivoluzionare la moda, liberandola dalla rigida solennità della haute couture (l’alta moda, cioè gli abiti elaborati e pregiati fatti su misura) e rendendola divertente e leggera. I suoi abiti avevano stampe animalier, floreali e colori vivaci, le sfilate erano spettacoli con modelle quasi danzanti, che lui concludeva in groppa a un elefante: «La moda non è per pochi, è per tutti. Non dovrebbe prendersi troppo sul serio», disse nel 1972 al New York Times.

Kenzo nacque a Himeji, vicino a Osaka, il 27 febbraio del 1939: era uno dei sette figli di Kenji e Shizu Takada, che gestivano un hotel. Si interessò alla moda sfogliando le riviste delle sorelle, si iscrisse alla facoltà di letteratura all’università di Kobe per compiacere i genitori, che disapprovavano una carriera da stilista, la abbandonò e divenne uno dei primi studenti maschi dell’accademia di moda di Bunka, a Tokyo. Nel 1960 vinse il premio Soen, che dal 1956 apriva le porte agli stilisti emergenti: «Me lo aggiudicai con un vestito a due pezzi con un unico bottone bianco. Era un lavoro sicuro di sé, con sotto una blusa e sopra una cintura, entrambe turchesi», ricordò. Iniziò a lavorare disegnando vestiti per ragazze nei grandi magazzini Sanai e la sua vita cambiò grazie ai lavori per le Olimpiadi del 1964: il suo appartamento venne distrutto per far posto ai nuovi progetti e ricevette 10 mesi di affitto come risarcimento. Li usò per un viaggio in barca che toccò Hong Kong, Singapore, Mumbai e che lo portò in Francia. Affittò una casa a Parigi, che «era scura, gelida, per niente simile a com’era mostrata sulle riviste».

 

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A Parigi, Kenzo si manteneva vendendo bozzetti di abiti agli stilisti dell’alta moda. Nel 1970 aprì una piccola boutique, Jungle Jap, nella Galerie Vivienne non lontano dal Palais-Royal, con pareti floreali dipinte da lui stesso ispirandosi a Il sogno di Henri Rousseau: «volevo fondere le due cose che amavo: la giungla e il Giappone», raccontò al Financial Times. I suoi abiti erano innovativi e giocosi, con proporzioni originali e volumi ingigantiti anche grazie all’uso del cotone. Erano liberatori, molto diversi da quelli degli stilisti occidentali, il modello predominante anche in Giappone: «non aveva senso che facessi anche io quello che facevano gli stilisti francesi, non sapevo neanche farlo. Così mi misi a disegnare vestiti in modo diverso, usando i tessuti dei kimono e fonti di ispirazioni diverse», raccontò al South China Morning Post nel 2019.

Il successo arrivò subito, nel 1971, quando la rivista di moda Elle pubblicò in prima pagina uno dei suoi lavori e quando la sfilata organizzata nel suo negozio attirò giornalisti di moda da tutto il mondo. Kenzo non aveva accordi con fabbriche di tessuti e tutti i suoi abiti erano cuciti a mano da lui e dai suoi collaboratori: «non avevo soldi, così andavo a comprare le stoffe al Marché St Pierre di Parigi, prendevo i tessuti portati dal Giappone e li cucivo insieme».

Divenne famoso con il soprannome The Jap, cosa che a Parigi non era un problema ma negli Stati Uniti sì, perché il nome era considerato offensivo e ricordava l’ostilità contro i giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. «Avevo in mente di chiamare il negozio Jungle Qualcosa. Jungle Jap suonava bene, era spiritoso», raccontò Kenzo al New York Times due anni dopo l’apertura. «Sapevo che aveva un significato dispregiativo, ma pensavo anche che se avessi fatto qualcosa di buono, quel senso sarebbe cambiato». Arrivato in America, Kenzo venne denunciato dalla Lega dei cittadini nippoamericani, che gli chiedeva di cambiare il nome; non fu condannato ma da allora nel paese l’azienda venne pubblicizzata come J.A.P. mentre la scritta Kenzo comparve sulle etichette dei vestiti; nel 1976 divenne il nome ufficiale del marchio, dopo una sfilata a New York, in 1976.

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Le sfilate furono un altro suo punto di forza. Le organizzava nel suo negozio dove proponeva vestiti ready-to-wear (preconfezionati) durante le settimana della haute couture. Con 50 anni di anticipo sul cosiddetto see-now-buy-now, faceva sfilare i vestiti per la primavera in primavera (e non sei mesi prima, in autunno, come si faceva allora); fu anche tra i primi a proporre abiti unisex, erodendo il confine tra moda maschile e femminile. Le sfilate erano spettacolari e memorabili: nel 1977 ne organizzò una nel leggendario Studio 54, il locale notturno di Manhattan in cui bisognava andare e farsi vedere, con Grace Jones e Jerry Hall per modelle; quella del 1979 fu ospitata nella tenda di un circo e si concluse con un gruppo di donne in abiti trasparenti a cavallo e con Kenzo su un elefante.

Nel 1983 introdusse l’abbigliamento maschile, nel 1986 una linea di jeans, nel 1988 i profumi e l’arredamento. Poi, il 1990 «fu l’anno più difficile della mia vita, quando morì il mio compagno Xavier e il mio socio in affari». Per questo, nel 1993 Kenzo vendette l’azienda per 80 milioni di dollari a LVMH, il più grande gruppo del lusso francese di proprietà di Bernard Arnault, che comprende anche Louis Vuitton, Christian Dior, Fendi e Céline. Lavorò nell’azienda ancora qualche anno, poi si ritirò dal mondo della moda nel 1999, a 60 anni, dopo una sfilata commemorativa con le modelle del momento. Tra i direttori creativi che si sono avvicendati ci sono stati Antonio Marras, la coppia Carol Lim e Humberto Leon e, attualmente, Felipe Oliveira Baptista, che ha appena presentato la nuova collezione, dedicata ai fiori e alle api, alla Settimana della moda di Parigi.

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Dopo aver lasciato l’azienda, Kenzo ha disegnato costumi per l’opera e le uniformi della squadra olimpica giapponese del 2004 e si è dedicato all’arredamento fino a fondare, nel 2020, il marchio K3: vende tappeti, tende, ceramiche, stampe da parati e tessile di lusso per la casa. «La moda è come il cibo: non dovreste fissarti sempre con lo stesso menu», diceva.

Con il suo lavoro, Kenzo ha aperto la strada per Parigi ad altri stilisti giapponesi, come Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto: quest’ultimo ha sfilato due giorni fa, durante la Settimana della moda di Parigi, mentre Kawakubo non ha presentato in Francia la collezione del suo marchio Comme des Garçons per la prima volta in 39 anni, ma lo farà con piccole sfilate e presentazioni a Tokyo. Contrariamente al loro stile – geometrico, severo, sperimentale e dai colori spesso scuri, quello di Kenzo era brillante, esuberante e vitale: «lo ricordo – scrive la critica di moda Suzy Menkes – mentre mi diceva che voleva disegnare abiti “felici”. Intendeva dire colorati, pieni di libertà per il corpo delle donne e con un gusto internazionale ben prima del tempo».