L’impatto del fattore k sulla pandemia
Sappiamo che la gran parte dei contagi è legata a singoli eventi e super diffusori e questo influenza le strategie da adottare per contenerli
In questi ultimi mesi abbiamo imparato termini scientifici mai sentiti prima, nomi di virologi prima sconosciuti e i significati di alcune semplici nozioni alla base del racconto e dell’analisi di un’epidemia. Tra questi c’è stato R, il numero di cui a lungo parlavano tutti e ancora oggi al centro delle valutazioni sull’andamento della pandemia: quello che indica la media di persone contagiate da un portatore del virus (e che ha significati un po’ diversi a seconda che sia indicato come R0 o Rt). Ma c’è un numero che, col passare dei mesi e l’aumentare delle cose che sappiamo del coronavirus e di come si trasmette, potrebbe essere ancora più importante di R, nonostante rimanga largamente sconosciuto: è k, il cosiddetto “fattore di dispersione”, un concetto di cui si è parlato talvolta anche sui giornali (e anche sul Post) ma che secondo l’Atlantic è comunque «la variabile trascurata che è la chiave della pandemia».
Con il coronavirus, poche persone ne infettano molte
Il problema nell’usare R come unico parametro per valutare lo stato dell’avanzamento dell’epidemia di COVID-19 risiede nei meccanismi di trasmissione che, sulla base di quello che abbiamo capito fin qui, sembrano caratterizzare il coronavirus. La sua diffusione, infatti, segue andamenti e traiettorie piuttosto complicate da decifrare, poco lineari: basta pensare a come si sia infiltrato in modo capillare nella popolazione lombarda, e quanto invece abbia quasi risparmiato il Centro e il Sud Italia nei primi mesi di epidemia. Oppure perché certe città, senza motivazioni evidenti, siano state colpite con intensità imparagonabili a centri urbani di dimensioni simili e nelle stesse aree.
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Per spiegare questi fenomeni sono stati usati molti argomenti, dalle condizioni climatiche all’età media degli abitanti, che probabilmente hanno avuto un ruolo: ma quasi sempre non si è considerata un’altra spiegazione, più convincente, che tira in ballo k. Un fattore che, semplificando, indica quanto un virus sia trasmesso omogeneamente da chi lo ha contratto: se una malattia ha k di valore basso, significa che poche persone sono responsabili di una gran parte dei contagi; se è alto, non c’è questa sproporzione e il numero di persone contagiate da ciascun positivo è più uniforme.
Non tutte le persone contagiate dal coronavirus lo trasmettono allo stesso numero di persone. Un R0 di 2, per esempio, vuol dire che in media ogni persona infetta trasmette il virus a due individui: ma nella realtà, la diffusione del coronavirus va in modo molto diverso. Molte persone possono non trasmetterlo a nessuno: perché hanno una carica virale bassa, perché frequentano poche persone, perché indossano sempre la mascherina, perché vivono in una zona rurale. Altre, invece, lo possono trasmettere a molti individui: sono i cosiddetti “super diffusori”. I motivi possono essere vari, e dobbiamo ancora capirli davvero: un’ipotesi è che in alcune persone i virus riescano a replicarsi molto di più rispetto ad altre, e che quindi abbiano una maggiore capacità di diffonderli nell’ambiente circostante.
Ma i ricercatori ritengono che abbiano un ruolo molto importante le condizioni ambientali e le singole circostanze: se una persona contagiata, magari predisposta naturalmente a un’alta diffusione del virus, va a una festa al chiuso, oppure lavora in un posto rumoroso – entrambe circostanze in cui si tende a parlare forte e a distanza ravvicinata con gli altri – può dare origine a un cluster, cioè a un singolo episodio di grande trasmissione del virus.
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L’influenza stagionale ha un k abbastanza alto, quindi si trasmette in modo più regolare e R0 dà un quadro più realistico delle dinamiche di trasmissione. Altre malattie virali, come la SARS e la MERS, avevano un comportamento più simile alla COVID-19, e tendevano a diffondersi a cluster.
È evidente che, con una dinamica simile, R0 fornisce un’informazione limitata sul coronavirus. Sull’Atlantic, Zeynep Tufekci fa l’esempio di Jeff Bezos, CEO di Amazon, che entra in un bar con un centinaio di persone: il patrimonio medio dei presenti si aggirerà intorno al miliardo di dollari a testa, ma è un dato che ci dice poco su chi c’è al bar. Più utile, semmai, sarebbe sapere che l’1 per cento dei partecipanti detiene, per esempio, il 99 per cento del patrimonio complessivo.
Perché il virus è dilagato in certi posti, e ne ha risparmiati altri
Ormai sappiamo infatti che il coronavirus tende a trasmettersi principalmente per singoli eventi in cui avvengono molti contagi, più che linearmente tra la popolazione. Ci sono studi che dicono che in certi casi una singola persona ha infettato più dell’80 per cento degli individui che erano nella stessa stanza, nell’arco di alcune ore; ed è frequente, al contrario, che un contagiato non trasmetta il coronavirus a una persona con cui ha prolungati e ravvicinati contatti, per esempio perché ci convive. Si stima che tra il 10 e il 20 per cento dei contagiati sia responsabile di una percentuale della trasmissione del virus compresa tra l’80 e il 90 per cento. Significa, quindi, che moltissimi positivi non lo trasmettono a nessuno.
Questo ha diverse implicazioni. La prima è che una grossa parte delle dinamiche con cui si diffonde e si è diffuso il coronavirus dipendono e sono dipese, banalmente, dal caso. Se in certe zone si è diffuso più che altrove, in parte (una parte molto importante) è stato perché ci sono stati più casi di super diffusori in contesti adatti a una grande trasmissione – un funerale, un mercato coperto, una squadra sportiva, una casa di riposo, una festa in un locale – e quindi ci sono stati più cluster. E uno dei principali motivi per cui il virus si è trasmesso al Nord molto più che al Sud – assieme di certo a molti altri, dai maggiori scambi con l’estero al clima più rigido – è che semplicemente ci sono stati casualmente molti più episodi di grande trasmissione causati da super diffusori.
Com’è che tutto questo ci può tornare utile
L’altra importante conseguenza di questa caratteristica della COVID-19 riguarda le strategie per contenerla. Se una malattia si trasmette in modo regolare e lineare, come l’influenza, non ci sono molti modi per fermarla diversi dal vaccino. Al contrario, in caso di un virus con k basso, esistono delle grosse possibilità in più di fermarne le linee di trasmissione. Perché non è importante tanto fermare ogni singolo possibile contagio, quanto prevenire eventuali eventi di super diffusione: da qui l’importanza delle restrizioni sugli assembramenti nei locali, nelle chiese, e i rischi legati ad attività come i ristoranti e le palestre. Questo perché, ed è un’altra cosa che sappiamo, la maggior parte dei cluster riguarda luoghi chiusi, poco ventilati e con molte persone.
Se il problema non è più limitare tutti i possibili scambi di droplet tra persone, ma evitare quelli che avvengono in contesti come quelli elencati, contenere un’epidemia diventa più facile (più facile non vuol dire facile). Perché riduce il numero di situazioni di cui bisogna preoccuparsi: la panetteria in cui un positivo è stato 10 minuti in fila con la mascherina insieme ad altre 3 persone non è, sul grande numero, una cosa di cui allarmarsi troppo. Lo è invece la festa di pensionamento a cui quella persona ha partecipato la sera, in una grande tavolata al ristorante.
Tracciare in prospettiva, oppure in retrospettiva
Le conseguenze riguardano anche i sistemi di tracciamento dei contatti, al punto che secondo l’Atlantic dovremmo ribaltare il modo in cui lo intendiamo. Attualmente, l’approccio prevalente nel mondo – Italia compresa – è: una volta identificato un positivo, tracciare tutti i suoi contatti per individuare quelli che potrebbe aver contagiato, bloccando la catena di trasmissione. Ma ragionando statisticamente, potrebbe avere più senso fare il contrario.
C’è un noto paradosso statistico che dice che i nostri amici hanno più amici di noi. Non c’è da prendersela, dipende dal fatto che ci sono persone con tanti amici e persone che ne hanno meno: ed è più probabile che una persona con tanti amici sia tra i nostri amici, piuttosto che una persona con pochi amici.
Con le epidemie con k basso vale un principio simile: dato che un positivo è stato sicuramente contagiato da qualcun altro, ha molto senso ricercare tra i suoi contatti chi sia la fonte del contagio. Perché, visto che come sappiamo il coronavirus si diffonde prevalentemente a cluster e non linearmente, statisticamente è probabile che la persona che ha contagiato il positivo in questione ne abbia contagiate altre. Individuandolo, e tracciando i suoi contatti, si potrebbe fermare un cluster con maggiori potenzialità epidemiche rispetto a quello che potrebbe essere generato dal positivo di partenza nella nostra indagine. Dato che la maggior parte dei contagi è originata da pochi positivi, è più probabile che un positivo derivi da un cluster, piuttosto che un positivo generi un cluster.
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Per fare un altro esempio, pensate a una truffa con schema Ponzi. Chi è stato convinto a vendervi un abbonamento a prodotti inutili con un contratto truffaldino potrebbe di certo riuscire a coinvolgere altre persone nella truffa. Ma per fermarla, è più conveniente scoprire chi ha convinto quella persona, che in questa metafora sarebbe un super diffusore e che quindi, a livello statistico, è probabilmente causa di maggiori abbonamenti venduti.
Se la teoria è semplice, la pratica lo è molto meno: e fare questo tipo di tracciamento retrospettivo dei contatti è complesso e richiede risorse aggiuntive di cui raramente i sistemi sanitari dispongono, specialmente nei momenti di emergenza. Se il virus è molto diffuso, come nel caso del coronavirus, è poi enormemente più difficile rispetto a una situazione di contagi limitati.
Tra i paesi che hanno adottato il principio del tracciamento retrospettivo ci sono la Corea del Sud e il Giappone, che peraltro è riuscito in questo modo – con operazioni mirate a individuare i cluster – a sopperire al fatto che non riusciva a fare tutti i tamponi di cui avrebbe avuto bisogno.
I test rapidi possono essere lo strumento giusto nel posto giusto
Tutte le considerazioni che abbiamo fatto finora rendono particolarmente interessante uno strumento molto discusso: i test rapidi, quelli che con un campione di saliva restituiscono in poche decine di minuti un risultato sull’eventuale positività di una persona. Sono test molto più rapidi, economici e facili da eseguire dei tamponi molecolari, che richiedono personale specializzato, una gestione logistica complessa, uno o più giorni di attesa per un risultato e spese molto superiori. Sappiamo anche, però, che i tamponi sono molto più precisi dei test salivari.
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I test rapidi, infatti, si perdono per strada dei positivi: approssimando, su dieci persone contagiate una non viene rilevata. È una percentuale significativa, e per questo finora si è fatto molto più affidamento sui tamponi, che danno risultati sbagliati più raramente.
Ma applicando la statistica, i test rapidi hanno un’applicazione importante. Sono infatti molto affidabili per riconoscere chi è negativo: se una persona non ha il virus, difficilmente ottiene un risultato positivo nel test salivare (i falsi positivi non sono un problema, insomma). Mettiamo che per un positivo certo vengano identificati, per dire, 20 contatti. Se sottoponendoli al test salivare risultano alcuni positivi, si potrebbe essere in presenza di un cluster: e quindi conviene isolare tutti e sottoporli al tampone.
In un momento di sovraccarico del sistema che somministra e analizza i tamponi, i test rapidi possono essere un aiuto importante per il principio per cui, con il coronavirus, individuare singoli eventi di trasmissione è più importante che individuare singoli individui positivi. Se dai test salivari sui contatti di un positivo si ottengono tutti risultati negativi, è possibile che sia sfuggito qualche positivo (per il problema dei falsi negativi). Ma difficilmente si è in presenza di un super diffusore, che come abbiamo visto è la preoccupazione principale in un’epidemia come quella da coronavirus.
Certo, questi positivi potrebbero dare origine a loro volta a dei cluster: ma abbiamo visto che è più probabile che un positivo sia stato originato da un cluster, più che un cluster sia originato da un positivo.
Per lo stesso motivo, un altro sistema importante per contenere l’epidemia potrebbe essere l’analisi delle acque fognarie, che diversi studi hanno dimostrato consente di rilevare la presenza di positivi in un palazzo o in un isolato. Se sono pochi, potrebbero sfuggire ai test: ma se sono molti, e se quindi si è in presenza di un cluster, è probabile che siano rilevati, permettendo quindi analisi mirate con i tamponi.
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Non solo buone notizie
Questi discorsi potrebbero suonare rassicuranti, e in un certo senso è così: le maggiori conoscenze sul coronavirus e quelle pregresse sulle epidemie ci permettono strategie che sappiamo essere efficaci. Ma la diffusione a cluster del coronavirus significa anche che una situazione di apparente calma – come quella attuale in Italia – può peggiorare molto rapidamente se c’è una serie di coincidenze particolarmente sfortunate, e cioè una serie di super diffusori in contesti propizi alla nascita di cluster. È il motivo per cui certe limitazioni, come quelle sugli assembramenti al chiuso, sono importanti anche se le cose vanno bene.
La Svezia, caso molto discusso di paese che ha deciso di gestire l’epidemia senza ricorrere a lockdown, non ha tenuto una strategia casuale e di liberi tutti: anche se le attività sono rimaste aperte e gli spostamenti non sono stati limitati, gli assembramenti al chiuso superiori alle 50 persone sono stati vietati fin da marzo, e lo sono rimasti per tutta l’estate (mentre in altri paesi europei, dopo il lockdown, non sono stati presi provvedimenti simili). Le regole per contenere l’epidemia, in sostanza, ci sono state anche lì.
Questo ha permesso che ci fosse una circolazione del virus più ampia che in molti altri paesi, ma anche più distribuita nel tempo e quindi generalmente sotto controllo. Senza misure per prevenire eventuali cluster, il coronavirus può tornare a trasmettersi molto rapidamente raggiungendo in poco tempo un livello di diffusione in cui i cluster sono talmente tanti e frequenti che diventa impossibile tracciarli, innescando quindi una dinamica lineare – e difficilissima da contenere senza vaccino – simile a quella dell’influenza.