Abiy Ahmed si è meritato il Nobel per la Pace?
A un anno dal premio il primo ministro dell'Etiopia è criticato per le violenze nel paese e per avere rimandato le elezioni: molti pensano che la promessa di democrazia stia svanendo
Abiy Ahmed, primo ministro dell’Etiopia, un anno fa vinse il premio Nobel per la Pace per due ragioni. La prima, e più importante, era aver fatto la pace con la vicina Eritrea. La seconda era aver fatto partire un processo storico di riforme e aver cominciato la democratizzazione del suo paese. Se la pace con l’Eritrea regge, più o meno, sembra invece che il processo di riforme e democratizzazione in Etiopia si sia inceppato. Negli ultimi mesi ci sono state proteste con scontri molto violenti, sono morte centinaia di persone, le elezioni previste per agosto sono state rimandate indefinitamente e alcuni membri dell’opposizione sono stati arrestati o messi ai domiciliari.
Alcuni osservatori dicono che questi incidenti fanno parte di un processo di transizione accidentato, ma non abbandonato: non si trasforma un paese autoritario e pieno di conflitti etnici in una democrazia funzionante dall’oggi al domani, e Ahmed ha ereditato una quantità impressionante di problemi. Altri invece sostengono che, ad appena un anno dalla vittoria del Nobel, Ahmed abbia fallito nei suoi intenti di riforma, e stia scivolando di nuovo nell’autoritarismo violento dei suoi predecessori.
Al momento della sua salita al potere, nell’aprile del 2018, Ahmed annunciò un ampio piano di riforme liberali sia in economia sia, soprattutto, in politica. «Ahmed ha trascorso i suoi primi 100 giorni da primo ministro eliminando lo stato di emergenza nel paese, garantendo l’amnistia a migliaia di prigionieri politici, eliminando la censura dei media, legalizzando i partiti d’opposizione che erano stati messi fuori legge, licenziando i leader civili e militari sospettati di corruzione e aumentando notevolmente l’influenza delle donne nella vita politica della società etiope. Ha anche promesso di rafforzare la democrazia con elezioni libere e prive di brogli», si legge nel comunicato emesso dal comitato per l’assegnazione del Nobel un anno fa.
Nei primi tempi, effettivamente, le riforme e le liberalizzazioni del governo di Ahmed avevano dato l’impressione che l’Etiopia stesse diventando rapidamente una democrazia, e oltre al premio Nobel Ahmed aveva ottenuto il riconoscimento di molti paesi occidentali. A dicembre, per esempio, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen aveva scelto l’Etiopia come destinazione del suo primo viaggio istituzionale, e ci aveva tenuto a dire che la decisione era una precisa «dichiarazione politica».
Pochi mesi dopo, però, in Etiopia sono ricominciati gli scontri etnici. Le violenze sono cominciate il 29 giugno, dopo l’assassinio di Hachalu Hundesa, un famoso cantante e attivista di etnia Oromo, le cui canzoni erano diventate celebri durante le proteste del 2015-2018, quelle che hanno portato al potere Ahmed. Non è ancora chiaro chi abbia commesso l’omicidio e perché, ma poche ore dopo la morte di Hundesa ci sono state rivolte violente in tutto lo stato di Oromia, che comprende anche Addis Abeba, la capitale. Sono morte centinaia di persone, in parte uccise negli scontri tra varie etnie e in parte dalle forze di sicurezza inviate dal governo. Secondo un conteggio fatto dall’Economist, negli scontri di giugno sono morte 239 persone.
L’Etiopia è una repubblica federale i cui nove stati sono divisi su base grossomodo etnico-linguistica. Lo stato di Oromia è il più popoloso, con circa 33 milioni di abitanti. Lo stesso Abiy Ahmed è di etnia Oromo, che è una delle più marginalizzate del paese.
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Dopo le rivolte, migliaia di persone sono state arrestate, compresi molti leader politici di opposizione. Tra questi Jawar Mohammed, il leader di un gruppo Oromo che è considerato il principale rivale di Ahmed, e Lemma Megersa, ex ministro della Difesa del governo di Ahmed, licenziato e messo agli arresti domiciliari dopo averlo criticato (i media di stato hanno detto che Megersa è stato espulso dal governo per aver “violato la disciplina di partito”). Ad agosto, poi, ci sono state altre rivolte dopo che si è sparsa la voce, non confermata, che Jawar Mohammed non stava ricevendo in prigione le cure mediche di cui avrebbe bisogno. Ci sono state altre decine di morti.
Le violenze etniche sono molto comuni in Etiopia e non sono certo cominciate sotto il governo di Ahmed, anzi: i suoi sostenitori lodano i tentativi del primo ministro di superare le divisioni e di proporre un’identità etiope comune. Ma sotto il suo governo le cose non sono affatto migliorate, e alla fine di maggio di quest’anno Amnesty International ha pubblicato un report secondo cui uccisioni sommarie, torture e arresti non si sono mai interrotti per tutto il 2019, soprattutto negli stati di Oromia e di Amhara.
Nel corso delle proteste di quest’estate, inoltre, il governo ha più volte fatto uso di sistemi per bloccare internet in tutto il paese o in alcune regioni, con una frequenza che secondo l’organizzazione non governativa NetBlocks è aumentata nel corso dell’ultimo anno. Secondo l’Economist, inoltre, una nuova legge che criminalizza l’hate speech potrebbe essere usata per reprimere il dissenso politico.
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Ahmed ha anche un problema di natura costituzionale. Ad aprile, dando come motivazione l’emergenza da Covid-19, il governo ha deciso di rimandare le elezioni a data da destinarsi. In quel momento in Etiopia c’erano 26 casi di contagio e nessun morto. L’opposizione ha detto che Ahmed sta cercando di restare al potere; il governo ha risposto che il Parlamento ha già accordato al primo ministro un’estensione di 12 mesi del suo mandato, che secondo la Costituzione etiope sarebbe dovuto scadere a ottobre di quest’anno.
I leader dello stato settentrionale di Tigray, però, hanno deciso di tenere lo stesso le elezioni, contro il volere del governo. Si sono tenute all’inizio di settembre e il Tigray People’s Liberation Front, TPLF, ha vinto tutti i seggi disponibili nel Parlamento regionale. Il TPLF è uno dei partiti storici dell’Etiopia, e fra il 1991 e il 2018, anno dell’ascesa al potere di Ahmed, è stato una delle forze dominanti del governo centrale. La perdita del potere ha creato grossi scontri politici, e secondo molti analisti le elezioni, che Ahmed ha definito illegali, sono il primo passo verso la secessione dello stato di Tigray.
Secondo la Costituzione etiope, ciascuno dei nove stati ha il diritto di staccarsi dalla federazione se rispetta alcuni criteri, come la celebrazione di un referendum.
Questo mese Ahmed ha firmato un editoriale sull’Economist per spiegare che i disordini sono opera di demagoghi e di ispiratori d’odio, anche se ha ammesso che le forze di sicurezza possono aver compiuto abusi mentre cercavano di ristabilire l’ordine. Ahmed ha scritto anche che il suo progetto di trasformare l’Etiopia in una democrazia ha incontrato molti ostacoli ma non si è fermato.