Una canzone dei Danny Wilson
Sì, "dei", avevano deciso di chiamarsi con un nome e cognome, ma "Spencer Tracy" rischiò di metterli nei guai
Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera.
Il Mercury Prize, quello che dico sempre essere l’unico premio musicale importante che effettivamente sceglie musica di qualche qualità, è stato dato stasera a Michael Kiwanuka: di cui avevo scritto qualcosa qui e che insomma è quello famoso per la canzone nella sigla di Big little lies.
La canzone nuova di Matt Berninger dei National l’avevo già linkata due settimane fa, e questo è solo il nuovo video in cui lui si è convinto di essere Michael Stipe e magari ha ragione, ma è bella e ne approfitto (è il motivo per cui fanno uscire prima la canzone senza video e poi col video, per abbindolare noi dei media).
Invece c’è una vera canzone nuova di Springsteen.
Dieci anni fa uscì The social network, il film (scritto da Aaron Sorkin di cui parlammo ieri, tutto si tiene): e aveva quel finale con Baby you’re a rich man dei Beatles.
È morta Juliette Gréco, come avrete saputo.
Mary’s prayer
Everything is wonderful
Being here is heavenly
Una canzone con un grande incipit, sia nel modo in cui i versi precedono ogni altro suono, che nel loro suono stesso e le cose che dicono. Potremmo già chiuderla qui, e sarebbero degni di una newsletter sui primi due versi migliori di sempre.
La canzone andò forte negli Stati Uniti: come Come on Eileen che abbiamo citato ieri, fu uno di quei casi in cui negli anni Ottanta una band britannica piazzò un singolo nelle radio e nelle classifiche americane e diede speranza a ogni altra band britannica di fare lo stesso, e a se stessa di ripeterlo. Non si ripeté quasi mai, e neanche questa volta.
Loro erano tre, scozzesi, guidati da un Gary Clark che continuò a fare il musicista senza che il suo nome divenisse mai noto. Si erano chiamati Spencer Tracy, ma ci furono timori legali e allora attinsero allo stesso catalogo e presero un nuovo nome – Danny Wilson – da un film con Frank Sinatra e Shelley Winters e il perfido Raymond Burr (con grandi vecchie canzoni, tra l’altro), chiamando il primo disco come il film: Meet Danny Wilson.
È una bella formula inglese che, come altre, noi non abbiamo nella stessa sintesi e immediatezza: si tradurrebbe con “Ecco a voi Danny Wilson”, o “Vi presento Danny Wilson”. Ma sto divagando.
Shelley Winters era stata la moglie di Vittorio Gassman, vi ricordate, sì? Ok.
E insomma nel 1987 i Danny Wilson uscirono con questo disco di piacevoli canzonette pop con dentro del soul e altre deviazioni di varia raffinatezza. Non andò granché, ma invece il singolo piacque un sacco agli americani e quindi ci fu una ripubblicazione e promozione anche nel Regno Unito, e poi una terza, e spingi spingi Mary’s prayer arrivò al terzo posto in classifica e la band si godette il successo nei due paesi (metto qui anche la canzone conclusiva del disco, molto bella e molto conclusiva): per dire, questa è la sua radicata popolarità “sul territorio”. Fecero un nuovo disco nel 1988 che era pure più bello – allegro, ben arrangiato, ottimo pop: su Spotify – ma andò deludentemente: si sciolsero e continuarono a fare musica per altri e con altri (Ged Grimes ora è con i Simple Minds). Nel 2014 si sono ritrovati a fare Mary’s Prayer dal vivo a Glasgow.
Che è una formidabile canzone allegra e malinconica insieme, e straordinariamente canticchiabile: con quella cosa di come lui pronuncia diversamente l’ultima ricorrenza di “Save me, save me, be the light in my eyes”, alla fine. Siccome tutto si tiene, era stata messa dentro quel film inglese sul fan di Bruce Springsteen che era lo spunto per quelle riflessioni sui gusti musicali che ho linkato ieri.
So when you find somebody to give
Think of me and celebrate
I made such a big mistake when I was Mary’s Prayer
So if I say save me, save me
Be the light in my eyes
And if I say ten Hail Mary’s
Leave a light on in heaven
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