Il presidente del Messico vuole indagare i cinque presidenti che lo hanno preceduto
E vuole indire un referendum per chiedere ai messicani se è il caso di metterli sotto inchiesta, a causa di un grosso scandalo
Il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, vuole indire un referendum per chiedere ai cittadini se mettere sotto indagine i cinque presidenti che l’hanno preceduto, e che hanno governato tra il 1988 e il 2018, dopo che in Messico è scoppiato quello che gli analisti definiscono come il più grave caso di corruzione della storia recente del paese. Lo scandalo, che riguarda l’azienda petrolifera di stato Pemex, coinvolge tra gli altri alcuni degli ex presidenti ma finora le indagini hanno fatto pochi progressi. L’opposizione in Messico sostiene che la proposta di referendum sia un modo per López Obrador di vendicarsi dei suoi rivali politici e distogliere l’attenzione dai problemi del paese.
Nessuno dei cinque ex presidenti appartiene allo stesso partito politico di López Obrador, populista di sinistra eletto nel 2018. La Costituzione messicana gli dà il potere di proporre referendum, ma questo deve essere approvato prima dal Senato e poi dalla Corte costituzionale. Il quesito proposto è: “È d’accordo o no sul fatto che le autorità competenti aprano un’indagine e nel caso puniscano i crimini commessi dagli ex presidenti Carlos Salinas de Gortari, Ernesto Zedillo, Vicente Fox, Felipe Calderon ed Enrique Peña Nieto, prima durante e dopo il loro mandato?”.
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Non esiste alcuna base giuridica per sostenere che l’esito di questo referendum debba avere effetti vincolanti sul sistema giudiziario, ma l’idea ha un certo successo tra i messicani: da un paio di mesi i media sono pieni di notizie sullo scandalo Pemex e gli ex presidenti non sono mai stati molto popolari. Nelle ultime settimane un gruppo di volontari ha raccolto 2,8 milioni di firme a sostegno del referendum, ha scritto il Washington Post.
Come funziona lo scandalo Pemex
Quello che sulla carta potrebbe essere il più grande scandalo della storia del Messico è cominciato quando, a febbraio di quest’anno, le autorità spagnole hanno arrestato per corruzione Emilio Lozoya Austin, un ex funzionario della campagna elettorale del presidente Enrique Peña Nieto (che ha governato tra il 2012 e il 2018 con il PRI, partito di centro) poi nominato tra il 2012 e il 2016 a capo della società petrolifera Pemex. Lozoya è stato estradato in Messico a giugno e in cambio di sconti di pena e dell’autorizzazione agli arresti domiciliari ha cominciato a collaborare con gli inquirenti e a fare rivelazioni molto gravi.
Nelle sue deposizioni, arrivate alla stampa a fine agosto, Lozoya ha accusato di vari atti di corruzione decine di politici e imprenditori messicani. In particolare, ha detto che la campagna elettorale di Peña Nieto avrebbe ricevuto una tangente di quattro milioni di dollari da Odebrecht, una compagnia di costruzioni brasiliana che è implicata in scandali di corruzione in tutta l’America Latina. Ha detto inoltre che, una volta al potere, il governo di Peña Nieto avrebbe pagato 4,3 milioni di dollari ai deputati del partito di centrodestra PAN per votare una legge sulla liberalizzazione del mercato petrolifero, con la complicità dell’allora ministro dell’Economia.
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Lozoya ha accusato anche Felipe Calderón, che è stato presidente tra il 2006 e il 2012, di aver venduto beni di stato a prezzo ribassato, ha accusato tutti i candidati che hanno corso contro López Obrador alle elezioni del 2018 di aver accettato tangenti da centinaia di migliaia di dollari, e così via.
La gran parte di questi reati è difficile da provare. Lozoya dice di avere testimoni, prove video e documenti, ma una parte delle accuse è basata sulla sua parola. Lui stesso, quando nel 2017 alcuni impiegati di Odebrecht lo accusarono di corruzione, disse che «la gente può dire qualunque cosa in cambio di una riduzione della sentenza». Provare i reati è ancora più difficile in Messico, dove il sistema giudiziario è giovane e molto dipendente dalla politica (in Messico tra il 1929 e il 2000 ha governato un unico partito, il PRI, con metodi spesso dittatoriali). Per questo le indagini finora non hanno prodotto grandi risultati, se si esclude l’apertura di un’inchiesta contro Peña Nieto. E anziché dare più strumenti di indagine ai magistrati, López Obrador ha deciso di indire un grande referendum popolare.
Cosa vuole López Obrador
Per il presidente del Messico, il caso Pemex è la conferma di ciò che ha sostenuto per tutta la sua carriera: che la classe politica e imprenditoriale messicana – praticamente tutti tranne lui – è composta da mafiosi e criminali e ha bisogno di una rigenerazione profonda.
López Obrador è attivo nella politica messicana da più di quarant’anni, ma ha assunto la sua prima carica importante nel 2000, come apprezzato e popolare sindaco di Città del Messico eletto con il PRD, un partito di sinistra. Nel 2006 si era candidato alla presidenza ma aveva perso per pochi decimi percentuali in un’elezione molto contestata contro Felipe Calderón del PAN. López Obrador aveva accusato il suo avversario di brogli e aveva organizzato un’occupazione del Zócalo, la piazza principale di Città del Messico, che è durata mesi. Era arrivato ad autoproclamarsi “presidente legittimo” del Messico in una cerimonia pubblica che imitava quella ufficiale, ma nel giro di poco tempo il suo consenso politico si era sgretolato.
López Obrador aveva fondato quindi un altro partito, Morena, cominciando una campagna contro quella che definisce «la mafia del poder», la mafia del potere, cioè tutto l’establishment (o la casta, diremmo in Italia). Nel 2012 si era candidato di nuovo alla presidenza ma con scarso successo, facendo di nuovo accuse di brogli elettorali. Aveva vinto infine le elezioni del 2018, con un programma che prevede la fine della corruzione, la nazionalizzazione di molti settori imprenditoriali e la lotta contro il “neoliberismo” che secondo López Obrador è uno dei mali del Messico.
Come è facile immaginare, da quando sono uscite le prime notizie sulle accuse di Lozoya, López Obrador ne ha parlato molto. Ha usato le rivelazioni per pubblicare un video intitolato “Il periodo neoliberista in Messico è stato sinonimo di corruzione” e ha mostrato in conferenza stampa immagini di assistenti di senatori che si scambiano grosse somme di denaro.
Secondo l’Economist, però, López Obrador sta gestendo male lo scandalo e potrebbe perdere l’occasione di combattere per davvero la corruzione nel paese. Con i suoi proclami e le proposte di referendum, ha distolto l’attenzione dalle indagini e non si è preoccupato di rafforzare le istituzioni giudiziarie. Il predecessore di López Obrador, Enrique Peña Nieto, aveva istituito durante il suo mandato alcuni nuovi uffici anticorruzione e figure importanti come un nuovo procuratore, ma sia lui sia López Obrador hanno dato loro poca importanza.
Secondo molti commentatori, inoltre, il fatto stesso di indire un referendum per chiedere alla popolazione se indagare o meno delle persone può essere interpretato come una violazione dello stato di diritto: metterebbe nelle mani dei messicani un lavoro delicato e importante che nelle democrazie è affidato ai magistrati. Il referendum, inoltre, potrebbe essere considerato dagli elettori come una sentenza preventiva e mettere in difficoltà ulteriore il lavoro d’indagine.
Le accuse che López Obrador fa ai suoi cinque predecessori sono spesso ideologiche, riguardano fatti molto vecchi e non più perseguibili e in molti casi non costituiscono nemmeno reato. Nel documento inviato al Senato che chiede di indire un referendum, oltre a citare le accuse di Lozoya e ad aggiungerne altre che riprendono vecchi casi di corruzione, López Obrador scrive che i cinque ex presidenti dovrebbero essere indagati perché fecero parte di un “modello politico ed economico elitista, antidemocratico, antinazionale e antipopolare” e perché il neoliberismo da loro promosso “si tradusse nella perdita di centinaia di migliaia di vite, in decine di migliaia di sparizioni, nell’eliminazione di diritti politici e sociali, nella crescita della povertà, della diseguaglianza (…)”.
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L’unico tra gli ex presidenti ad aver risposto a López Obrador è Felipe Calderón, che ha governato il Messico tra il 2006 e il 2012 e che ha scritto su Twitter che il presidente “sta confondendo la repubblica con un circo romano: anziché andare in procura con delle prove, chiede alle masse se è il caso di condannare o graziare degli innocenti mostrando il pollice in su o in giù. Un passo indietro di migliaia di anni in materia di giustizia”. Altri esponenti dell’opposizione hanno detto che López Obrador cerca di usare gli scandali per distogliere l’attenzione dagli altri problemi del paese: il Messico è il quarto paese al mondo per morti per Covid-19, e l’economia è in grave difficoltà.
Questo non significa che in Messico non ci siano stati casi di corruzione ad alto livello. L’ex ministro per la Sicurezza pubblica di Calderón, Genaro García Luna, è stato arrestato a dicembre del 2019 con l’accusa di aver preso milioni di dollari in tangenti dal Cartello di Sinaloa, una potente organizzazione di narcotrafficanti: García Luna era, in teoria, l’architetto della strategia contro il narcotraffico di Calderón. Sempre l’anno scorso, durante il processo al narcotratticante Joaquín Guzmán, detto “El Chapo”, un testimone accusò Peña Nieto di aver preso 100 milioni di dollari in tangenti da ambienti del narcotraffico. Peña Nieto non è stato incriminato per questa accusa, ma è sotto indagine per il caso Lozoya.
Se Senato e Corte Suprema approveranno la proposta di López Obrador, il referendum si potrebbe tenere il prossimo giugno, in concomitanza con le elezioni per il rinnovo del Parlamento e di alcuni governatori locali.