Sono passati cinque anni dal Dieselgate
Lo scandalo nato dalle manipolazioni dei motori diesel ha portato a una serie di processi e sanzioni, ma anche a test di omologazione più rigidi
Cinque anni fa, il 21 settembre 2015, ebbe inizio il grande scandalo relativo alla manipolazione dei motori diesel da parte di alcune aziende automobilistiche per aggirare i controlli sulle emissioni inquinanti e vendere auto più facilmente. Il caso partì dagli Stati Uniti ma coinvolse milioni di automobili del gruppo Volkswagen – che comprende anche Audi – e altre aziende automobilistiche, sia in Europa che in altri paesi. Per via delle grosse implicazioni economiche, giuridiche e sanitarie lo scandalo mise in grossi guai Volkswagen e venne nominato “Dieselgate”. Nonostante le multe, gli arresti e le ingenti richieste di risarcimento, nel giro di poco tempo Volkswagen fu in grado di riprendere a vendere normalmente. Lo scandalo, però, contribuì anche a far cambiare un po’ di cose sui sistemi di controllo delle emissioni dei motori diesel.
Della storia dei motori “truccati” si era cominciato a parlare il 18 settembre 2015. Nel luglio precedente l’EPA – l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale – aveva comunicato a Volkswagen che non le avrebbe più fornito le licenze per la vendita di automobili se non avesse spiegato il perché di certe incongruenze nei dati relativi alle emissioni inquinanti evidenziati da alcuni test effettuati in maniera indipendente.
Questi test erano stati eseguiti su automobili vendute fra il 2009 e il 2015, fra cui modelli molto popolari, come Passat, Golf e Audi A3: secondo l’EPA, le auto testate emettevano quantità di ossido di azoto – un gas che contribuisce all’inquinamento atmosferico – anche 40 volte superiori ai limiti consentiti. Inizialmente Volkswagen aveva imputato i risultati dei controlli a problemi tecnici, ma poi ammise di aver dichiarato emissioni inferiori rispetto a quelle reali. Per aggirare le normative sulle emissioni dei motori diesel, Volkswagen aveva installato un apposito software sulle centraline dei motori di cinque modelli di auto venduti a partire dal 2008: il dispositivo consentiva di abbassare il dato delle emissioni inquinanti in fase di test e aveva permesso all’azienda automobilistica di truffare gli organi di controllo per anni.
Malgrado in un comunicato l’amministratore delegato di Volkswagen, Martin Winterkorn, avesse detto di essere «profondamente dispiaciuto» per avere «tradito la fiducia dei nostri clienti e del pubblico», l’EPA ordinò a Volkswagen di richiamare le 482mila auto col motore truccato e il 21 settembre 2015 l’azienda sospese la vendita di auto Volkswagen e Audi con motore diesel negli Stati Uniti.
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Il giorno in cui aveva ammesso di aver manipolato i motori, Volkswagen perse più di 20 punti alla borsa di Francoforte. Inoltre, furono avviate diverse indagini per capire se anche in Europa, dove Volkswagen è una delle aziende automobilistiche di maggior successo, fosse accaduto qualcosa di simile. Il 23 settembre, l’amministratore delegato di Volkswagen, Martin Winterkorn, si dimise, lasciando Michael Horn, che era il CEO di Volkswagen in Nord America, a gestire lo scandalo.
Horn disse che Volkswagen stava «lavorando senza sosta per trovare soluzioni» per risolvere la questione, ma il caso si allargò sempre di più – negli Stati Uniti scandali considerati particolarmente rilevanti vengono indicati con il suffisso “gate”, come “Watergate”, “Obamagate” e via dicendo – e dalle inchieste emerse che l’azienda aveva montato il dispositivo che permetteva di falsificare i dati su circa 11 milioni di auto in tutto il mondo.
Come aveva spiegato il New York Times, anche se inizialmente avevano negato la cosa, diversi responsabili di Volkswagen sapevano dei potenziali rischi della truffa da oltre un anno. Horn fu uno degli ultimi dirigenti a dimettersi, nel marzo 2016, mentre Rupert Stadler, ex amministratore delegato di Audi, fu incriminato per frode nel luglio 2019. Solo pochi giorni fa, invece, si è saputo che Winterkorn verrà processato per truffa ed evasione fiscale assieme ad altri quattro dirigenti dell’azienda automobilistica.
Negli anni il “Dieselgate” ha avuto ripercussioni anche su altre aziende automobilistiche oltre a quelle del gruppo Volkswagen. Fiat Chrysler Automobiles (FCA), per esempio, ha concordato col governo statunitense di pagare circa 800 milioni di dollari (circa 680 milioni di euro) per il caso sulle emissioni falsate malgrado si fosse sempre detta estranea al caso, e Porsche ha annunciato di voler smettere di produrre automobili con motori diesel.
Sebbene inizialmente il caso “Dieselgate” avesse fatto precipitare il titolo di Volkswagen in borsa e rallentato le vendite, nel giro di un paio d’anni l’azienda automobilistica riuscì a recuperare reputazione e solidità. Lo scandalo, infatti, fu anche l’occasione per mettere in atto una razionalizzazione attesa da tempo, e a inizio 2018 Volkswagen era tornata a vendere più auto dei concorrenti.
Tra le altre cose, il “Dieselgate” ha evidenziato come i sistemi di controllo delle emissioni fossero vulnerabili e facilmente aggirabili dalle case automobilistiche. Per questa ragione, dal 2019 i nuovi standard europei obbligano i costruttori a omologare le proprie auto secondo nuovi parametri che non si basano solo sui test in laboratorio, ma anche su quelli su strada, per rilevare i consumi effettivi più vicini alla realtà. Inoltre, la normativa Euro 6d-Temp ha sia fissato nuovi limiti massimi, sia controlli più rigidi ed efficaci per la misurazione delle emissioni inquinanti nei motori delle auto.
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Una delle questioni più delicate del caso “Dieselgate” è quella dei risarcimenti ai consumatori, che hanno seguito iter diversi a seconda del paese.
Negli Stati Uniti, fu stabilito che il gruppo Volkswagen doveva risarcire i consumatori per un totale di circa 13 miliardi di euro già nel 2016, mentre circa un anno fa Volkswagen aveva accettato di pagare tra i 54 e i 79 milioni di euro nell’ambito di una causa collettiva avviata in Australia.
Nel maggio di quest’anno la Corte suprema federale tedesca di Karlsruhe (l’equivalente della nostra Corte di Cassazione) ha stabilito che Volkswagen dovrà risarcire i clienti che avevano acquistato un’auto in cui era stato montato il dispositivo che “truccava” le emissioni. In Italia, invece, è ancora in corso una class action promossa da Altroconsumo a cui hanno aderito oltre 76mila clienti. Sebbene il Tar del Lazio abbia respinto il ricorso di Volkswagen contro la multa di 5 milioni di euro assegnata dall’Antitrust nel 2016, Altroconsumo ha spiegato che l’iter burocratico è stato ulteriormente allungato per via della pandemia da coronavirus e che Volkswagen non intenderebbe risarcire altri consumatori europei.
Ivo Tarantino, responsabile delle relazioni esterne di Altroconsumo, ha definito il comportamento di Volkswagen «inaccettabile» perché in Europa «non devono esistere consumatori di serie A e B».