Cosa succede adesso alla Corte Suprema
Trump dice di voler sostituire subito Ruth Bader Ginsburg, i Democratici sono furiosi e lo considerano inaccettabile: che scenari ci sono?
Con la morte della giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, nella politica americana si è aperto un nuovo importantissimo terreno di scontro tra Repubblicani e Democratici, a poco più di un mese dalle elezioni presidenziali e in un momento già segnato da eventi storici e assai divisivi, come la pandemia da coronavirus e le proteste contro il razzismo. Il presidente Donald Trump ha infatti già detto di voler procedere con la nomina del successore di Ginsburg, una scelta che – per quanto legittima costituzionalmente – è stata criticatissima dai Democratici e rischia di provocare un ennesimo scontro durissimo tra i suoi sostenitori e i suoi oppositori. La Costituzione prevede che le nomine dei giudici spettino al presidente ma debbano essere ratificate dal Senato.
Prima della morte di Ginsburg, la Corte Suprema era formata da 5 giudici di orientamento conservatore e 4 di orientamento progressista, una composizione quindi equilibrata che aveva portato peraltro a decisioni non scontate e talvolta vicine alle cause dei Democratici. Trump ha già nominato due giudici nel suo primo mandato, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, e ha ora la possibilità storica di spostare ulteriormente gli equilibri della Corte, portando a 6 su 9 il numero di giudici conservatori con conseguenze potenzialmente enormi e assai longeve, visto che i giudici possono essere sostituiti soltanto in caso di morte o dimissioni, e che tutti gli attuali componenti tranne uno hanno meno di 73 anni (e l’unico più vecchio, peraltro, è progressista).
La questione che ha fatto infuriare i Democratici ha a che fare con quello che accadde nel 2016, quando il giudice conservatore Antonin Scalia morì a nove mesi dal voto e i Repubblicani, che controllavano il Senato, si rifiutarono di prendere in considerazione il giudice Merrick Garland, nominato dall’allora presidente Barack Obama, sostenendo che fosse inopportuno che il presidente scegliesse il nuovo giudice a pochi mesi dalle elezioni, e che la cosa migliore fosse aspettare che si insediasse un nuovo presidente. Nonostante oggi il paese sia nella stessa situazione, e alle elezioni manchino meno di due mesi, stavolta i Repubblicani sono decisi a procedere con la nomina.
Cosa disse per esempio il senatore Repubblicano Lindsey Graham nel 2016.
Il leader del Partito Repubblicano al Senato, Mitch McConnell, ha annunciato quest’intenzione nello stesso comunicato in cui commentava la morte di Ginsburg, attirandosi molte critiche. Possono farlo: gli basta un voto di conferma al Senato, dove hanno la maggioranza e la manterranno almeno fino al 3 gennaio, quando si insedieranno i nuovi componenti eletti a novembre (tutti tranne uno, ma ci arriviamo). Per quanto stretti i tempi sono compatibili con la nomina, che in passato ha richiesto solitamente un paio di mesi, ma anche meno.
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Trump ha già detto di voler nominare una donna al posto di Ginsburg (che peraltro aveva espresso poco prima di morire il desiderio di essere sostituita dal vincitore delle elezioni di novembre, quale che sia). La favorita sembra essere Amy Coney Barrett, una giudice federale di Chicago che fu allieva di Scalia e che insegna all’università di Notre Dame. Ha solo 48 anni ed è stimata e rispettata, ma è ritenuta molto religiosa e ha espresso in passato opinioni antiabortiste, anche se non ha un passato di sentenze che confermino quest’orientamento. Secondo il leader dei Democratici al Senato Chuck Schumer, «rappresenta tutto quello al quale Ginsburg si opponeva». Oltre a Coney Barrett si parla anche di Barbara Lagoa, giudice 53enne della Florida di origini cubane, e di Allison Jones Rushing, della Virginia, che di anni ne ha solo 38. Sono quindi candidate che, potenzialmente, potrebbero rimanere alla Corte Suprema per quaranta o cinquant’anni.
La maggioranza attuale dei Repubblicani al Senato è di 53 senatori contro 47. Ma ci sono alcuni senatori moderati che in passato hanno votato contro l’orientamento del partito, per esempio sull’abolizione della riforma sanitaria di Obama o sulla nomina di Kavanaugh, e hanno già detto che non voteranno per nominare un nuovo giudice prima delle nuove elezioni. Sono Lisa Murkowski dell’Alaska e Susan Collins del Maine: a meno di ripensamenti, quindi, i Repubblicani partiranno da 51 voti. Se anche ne perdessero un altro, e il Senato si spaccasse quindi a metà, il vice presidente Mike Pence avrebbe per Costituzione il diritto di decidere il voto.
L’unico modo che hanno i Democratici di impedire la nomina, se effettivamente Trump procederà con il voto, è quindi che altri due senatori Repubblicani non seguano il partito. Non è un’ipotesi irrealistica, ma non è ancora chiaro quanto sia probabile. Uno come Mitt Romney, senatore dello Utah, candidato alle presidenziali del 2012 e fiero oppositore di Trump, potrebbe plausibilmente decidere di aspettare la nomina del vincitore delle elezioni, ma non si è ancora espresso.
In ogni caso, non basterebbe: e quindi i Democratici dovrebbero trovare un altro senatore. Si sta guardando in particolare a quei senatori che a novembre si giocheranno la rielezione in stati particolarmente in bilico, e che potrebbero preferire non rischiare di esporsi troppo e di compromettere la loro rielezione con una scelta così controversa. Quelli di cui si parla sono Martha McSally in Arizona, Kelly Loeffler in Georgia e Thom Tillis in North Carolina. Sono senatori importanti anche nello scenario in cui il voto dovesse tenersi dopo le elezioni. Se perdessero, infatti, per confermare la nomina di Trump dovrebbero usare le ultime settimane di mandato per votare una cosa importantissima come una giudice della Corte Suprema. Una cosa che sarebbe percepita come un grave affronto istituzionale dai Democratici e non solo.
Ci sono poi degli scenari un po’ strambi, ma non impossibili. In Arizona l’elezione per il senatore è una suppletiva – segue le dimissioni di Jon Kyl – e prevede quindi che il senatore eletto a novembre si insedi subito, e non il 3 gennaio. Attualmente il candidato Democratico Mark Kelly, astronauta e marito della politica Gabrielle Giffords, ha un buon vantaggio nei sondaggi sulla Repubblicana McSally. Il Senato potrebbe quindi cambiare composizione già a fine novembre, quando potrebbe essere certificato il risultato elettorale: e a quel punto i Democratici potrebbero guadagnare un seggio e, insieme con i Repubblicani dissidenti, avere la maggioranza. Trump dovrebbe assicurarsi di votare la giudice della Corte Suprema prima dell’eventuale insediamento di Kelly.
Un altro possibile ostacolo è il risultato elettorale in Georgia, dove la legge prevede che se nessun candidato a senatore otterrà il 50 per cento più uno dei voti ci sarà un secondo turno il 5 gennaio. Oppure, se ci saranno risultati particolarmente in bilico, le procedure per la certificazione del voto potrebbero andare avanti per settimane (quelle in Minnesota del 2008 furono concluse soltanto nell’estate del 2009).
Ci sono diversi scenari possibili. Il primo prevede che Trump acceleri moltissimo le procedure della nomina e ottenga un voto al Senato prima delle presidenziali del 3 novembre. È difficile, ma non impossibile: per Ginsburg, per esempio, passarono 50 giorni tra l’annuncio e il voto di conferma. I Repubblicani dovrebbero far bene i conti ed evitare defezioni, e dovrebbero resistere a grandissime critiche: ma è comunque lo scenario migliore, per loro.
Se Trump dovesse fallire o decidere diversamente di non chiedere un voto, temendo defezioni al Senato, vorrebbe dire che si andrebbe almeno a dopo il 3 novembre. Se Trump dovesse vincere le elezioni non ci saranno problemi di opportunità politica: la nomina spetterebbe a lui, che dovrebbe a quel punto però fare i conti con un nuovo Senato, in cui i Repubblicani potrebbero anche perdere la maggioranza (è un’ipotesi possibile). A quel punto dovrebbe trovare un nome gradito anche a qualche Democratico.
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Il terzo scenario è probabilmente il più caotico: Trump potrebbe perdere le elezioni ma approfittare delle settimane prima dell’insediamento del nuovo Senato e del nuovo presidente per nominare il nuovo giudice. Sarebbe un affronto praticamente senza precedenti alla prassi e all’opportunità politica, perché vorrebbe dire prendere una decisione importantissima senza nessun tipo di legittimità elettorale: ed è difficile che i membri del Senato, anche quelli del suo partito, glielo accordino.
Ma gli scenari caotici non sono finiti, e in questi giorni sono circolate le voci e tesi più ardite: per esempio che i Democratici possano decidere di mettere sotto impeachment il procuratore generale William Barr se non addirittura lo stesso Trump, pur di fare ostruzionismo e allungare i tempi dei lavori parlamentari, oppure che in caso di nomina di un nuovo giudice di Trump e successiva vittoria dei Democratici alle elezioni di novembre possano decidere per il cosiddetto “court-packing”, cioè nominare altri due giudici della Corte Suprema portandone il numero da 9 a 11. Il numero dei giudici della Corte, infatti, non è stabilito dalla Costituzione: basta una legge ordinaria per modificarlo. Joe Biden in passato si era detto scettico rispetto a questa ipotesi, per il semplice fatto che niente impedirebbe ai Repubblicani di nominare altri due giudici una volta tornati al potere.